ATP DIARY

— VISIONI — Conversazione con Giulia Flavia Baczynski

"Se ogni viaggio terrestre possibile è stato fatto ed è il tempo del viaggio nell’immagine, allora è come viaggiare dentro alla nostra storia, alle convenzioni della rappresentazione e dell’immagine stessa del mondo, non dandole per scontate e assodate"
Luigi Ghirri, Atlante (1973), Courtesy Eredi di Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, Atlante (1973), Courtesy Eredi di Luigi Ghirri.

Mauro Zanchi:  Le fotografie di Atlante (1973) sono al contempo toponimi di un sistema concettuale, immagini di immagini, parole fotografate, descrizioni di descrizioni, ingrandimenti delle tavole di diversi sistemi cartografici. Mi hai confidato tempo fa che Atlante è uno dei lavori di Luigi Ghirri che è entrato, profondamente, nel tuo immaginario. In cosa consiste la sua intuizione?

Giulia Flavia Baczynski: Tutto quello che posso dirti di questo lavoro è come lo percepisco, il significato che ha per me. Molte persone decisamente più preparate hanno speso parole incredibili e bellissime su questa serie di fotografie e il mio contributo vuole solamente essere una riflessione sui motivi che mi hanno spinta a tenerlo al vertice dei miei riferimenti.
“L’atlante è il libro, il luogo in cui tutti i segni della terra, da quelli naturali a quelli culturali, sono convenzionalmente rappresentati”, “mano a mano che la scrittura sparisce, spariscono meridiani e paralleli, numeri”, “I due analoghi, immagine nell’immagine, libro nel libro, ci riportano alle infinite possibili letture che ci sono sempre possibili anche all’interno del mondo più codificato”.
Queste tre estrazioni testuali per me hanno il valore di uno specchio perché è come se Ghirri si fosse messo di fronte alla realtà geografica così come è stata tramandata: mondo geometrizzato, parcellizzato, disegnato, rappresentato, immaginato e restituito attraverso il segno. La realtà però non è sempre sinonimo di verità e il fatto di scavare in un’immagine data e direi quasi assoluta come quella di un atlante implica un desiderio intimo di continuare il viaggio umano. La conoscenza che la geografia e la cartografia ci hanno dato è, credo, il patrimonio più grande che abbiamo ma non può concludersi nel momento in cui tutta la superficie terrestre è stata misurata e restituita; c’è sempre una ulteriore soglia da attraversare partendo da ciò che esiste già e che è stato appreso. Se ogni viaggio terrestre possibile è stato fatto ed è il tempo del viaggio nell’immagine, allora è come viaggiare dentro alla nostra storia, alle convenzioni della rappresentazione e dell’immagine stessa del mondo, non dandole per scontate e assodate; è come guardare al mondo antico, un mondo creato ex novo, con un diverso paio di occhiali per vedere quali sono le altre traiettorie da percorrere che prendono in considerazione non solo il nostro segno del e sul mondo ma il suo senso che è radicato nel profondo del pensiero umano. Mi viene in mente una riflessione di Claudio Parmiggiani “Un albero cresce nella mente di un uomo. Le radici scendono fin dentro il suo cuore.” E allora, forse, avvicinarsi con un obiettivo macro all’autorevolezza delle immagini di un atlante  è un modo per cercare di vedere le tracce di altro: il segno alle volte fuori fuoco come impossibilità (e inutilità) di nitidezza assoluta, la texture della stampa come texture della superficie del mondo, macchie di colore come paesaggi/passaggi di stato impercettibili ma assolutamente reali, puntini colorati come stelle o isole o oasi o polvere, l’esclusione progressiva e l’abbandono (dentro la sequenza) della linea che disegna e controlla il mondo per vedere cosa c’è oltre quelle linee, cosa è stato lasciato a margine della rappresentazione convenzionale. Se escludo dalla vista la “stampella” della linea geometrica/geografica resta il fenomeno da cui ripartire. Mi spingo oltre per dirti che, secondo me, Atlante di Luigi Ghirri è il primo stadio di un approccio metafotografico all’immagine.

MZ: Cosa sta tra la superficie (l’aspetto in superficie di territori, continenti, mari e cieli stampati su carta) delle mappe del mondo fotografate da Ghirri e la matrice concettuale che proietta tutte le componenti geografiche, morfologiche verso ulteriori implicazioni?

GFB: Io penso che ci sia la forza di un’idea e la convinzione di poter dare una forma compiuta a un’intuizione. Invertirei però i termini: la matrice concettuale, cioè l’idea che ci sia un viaggio da intraprendere nei luoghi del già rappresentato, trova un suo luogo fisico nelle mappe fotografate. Nel passaggio tra idea e realizzazione non escludo ci sia la genesi di un nuovo alfabeto che non intende assolutamente sostituirsi a niente ma casomai affiancarsi. E questo alfabeto è fatto sì di segni ma soprattutto di un diverso approccio al senso che l’alfabeto ha.

Luigi Ghirri, Atlante (1973), Courtesy Eredi di Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, Atlante (1973), Courtesy Eredi di Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, Atlante (1973), Courtesy Eredi di Luigi Ghirri

MZ: Ricordi i mappamondi sgonfi e accartocciati in barattoli di vetro, realizzati da Claudio Parmiggiani e fotografati da Ghirri? Mi riferisco al libro d’artista Atlante (di Parmiggiani, accompagnato da testi di Emilio Villa e Balestrini).

GFB: Atlante è un lavoro del 1970 in cui Claudio Parmiggiani prende dei mappamondi (non ho mai capito se sono sei oppure uno solo che subisce varie modifiche ma in fondo non è molto importante) e li sgonfia, li manipola, li fa ripiegare su sé stessi, li accartoccia, li comprime dentro barattoli e li fa fotografare a Ghirri. L’intento di Parmiggiani è il “desiderio di contravvenire alle certezze del nostro mondo fisico“. Quello che mi incuriosisce molto e mi attira di questo lavoro è, intanto, il modo in cui è presentato: quel “contravvenire alle certezze del nostro mondo fisico” suona come una disubbidienza nel senso di non volersi adattare e abituare alla convenzione delle cose tutte. La geografia e la rappresentazione l’abbiamo inventata noi esseri umani, sono linguaggi che servono per spiegare le cose del mondo e, come tali, hanno regole e convenzioni talmente radicate che verrebbe quasi da non poterle mettere in dubbio. In queste sei tavole io credo ci sia un’ostinazione a mettere in dubbio questa certezza della rappresentazione che, forse, coincide con il dubbio del senso e del significato della rappresentazione stessa. Non che sia sbagliata in sé, intendiamoci, ma c’è sempre l’altro lato delle cose, il rovescio della medaglia che porta a domandarsi quale sia il limite della rappresentazione stessa. Se oltre al codice c’è dell’altro, cos’è questo altro? Forse è la ricerca di quello che la rappresentazione esclude dalla regola, la sensibilità e la visione obliqua di un autore che non si accontenta delle nozioni e che cerca, attraverso un simulacro giocattolo, di andare oltre a tutte le regole utilizzando la regola stessa (il globo gonfiabile ha in sé la nostra convenzione grafica). Se le certezze del mondo fisico non sono certezze allora la superficie del globo su cui viviamo può essere messa in crisi e magari, da quel che viene fuori, si può partire per cercare una via alternativa di comprensione. Questo aspetto che io leggo nell’ Atlante di Parmiggiani credo abbia influenzato molto Ghirri il cui Atlante è di tre anni dopo. Credo che l’aver dato forma attraverso l’immagine al fare artistico di un altro amico artista l’abbia fatto pensare molto; credo che l’idea di fondo di Parmiggiani si sia incistata nella mente di Ghirri (oppure era già una visione condivisa) che l’ha sviluppata alla sua maniera e scendendo molto più in profondità.

MZ: “Il mondo è una superficie piana come quella di una carta geografica, sulla quale i flatlandesi scivolano senza sovrapporsi”. A proposito dell’immaginare mondi partendo da segni, linee, rappresentazioni bidimensionali, atlanti, carte geografiche o altro, come ti sei figurata l’universo raccontato in Flatland (1884) da Edwin A. Abbot?

GFB: Flatland è un piccolo “racconto fantastico a più dimensioni” incredibilmente denso. Ci sono tanti livelli di lettura che viaggiano parallelamente ma sono tutti tenuti insieme dalla geometria. L’universo del libro lo immagino come una serie di sfere concentriche ognuna delle quali contiene il mondo che si sviluppa attorno a un certo tipo di rappresentazione – che potrebbe anche essere plausibile dato che il Quadrato, il protagonista, sale “verso l’alto, ma non verso il nord” nel processo di iniziazione alla terza dimensione da parte della Sfera. Al centro c’è l’adimensionale, Pointlandia, definito la più oscura profondità dell’esistenza. Qui è tutto autoreferenziale, non esiste niente oltre ad Esso e se esiste non viene minimamente contemplato perché negato. Nella sfera successiva c’è Linelandia dove tutti gli abitanti giacciono e vivono su una linea al di fuori della quale non esiste niente. Poi c’è il mondo di Flatlandia, da cui viene il protagonista, dove tutto è piatto come su una carta geografica e il riconoscimento degli altri avviene tramite la vista (e in cui la nebbia ha un ruolo davvero inusuale ma sorprendente). Salendo ancora c’è Spacelandia, il mondo della Terza Dimensione, dove il Quadrato entra grazie al tramite della Sfera. Qui però avviene un cortocircuito: il Quadrato ragiona su tutto il viaggio che compie e pensa che se c’è una terza dimensione (che lui afferra e interiorizza attraverso l’analogia ma fatica a trattenere geometricamente perché non gli è propria e non ne conosce il linguaggio) ce ne possono essere altre. La Sfera per un momento dubita fortemente e indossa gli abiti del Quadrato che non credeva possibile l’esistenza di una dimensione oltre le due che sono a fondamento del suo mondo. Sollecitata dal Quadrato ammette che è possibile che esistano altre dimensioni, una quarta, una quinta, una sesta e perfino una settima e ottava. Ecco, io l’universo di Flatland lo vedo come un’allegoria del nostro mondo: metaforiche sfere concentriche che si espandono per gradi successivi man mano che la conoscenza aumenta. La traccia delle sfere interne rimane per ricordare dove abbiamo iniziato ma nulla vieta che oltre alla nostra attuale sfera (noi siamo già nella quarta dimensione) ce ne possano essere altre, ora solo immaginate ma non ancora trattenute. Nel libro il protagonista vive questa esperienza attraverso delle visioni che sono dapprima corrispondenti a sogni, e quindi culturalmente accettati, e poi a viaggi fisici in altri mondi riflettendo, credo, qualcosa che verrà.

MZ: Le ultime fotografie di Ghirri sono state scattate nella nebbia, dove agisce la cancellazione dei confini, dei territori e di ciò che apparteneva ad Atlante. Anche in Flatland viene evocata una dimensione che si espande verso lo smarginare dei confini. Hai colto delle affinità tra le due visioni, o divergenze?

GFB: Prima accennavo all’importanza della nebbia per i flatlandesi che utilizzano il riconoscimento a vista per l’identificazione degli altri. “Che questa possibilità esista in qualsiasi regione per qualsiasi classe è una conseguenza della Nebbia; la quale per la maggior parte dell’anno regna dappertutto con l’eccezione delle zone torride. E quello che per voi in Spacelandia è considerato una calamità, che cancella il paesaggio, deprime gli spiriti e mina la salute, è salutato da noi come una benedizione di poco inferiore all’aria stessa, come Nutrice delle Arti, e progenitrice delle Scienze (…) Se non ci fosse la Nebbia, tutte le linee sarebbero ugualmente e indifferentemente nitide; come infatti avviene in quelle infelici regioni dove l’atmosfera è perfettamente asciutta e trasparente. Ma ovunque ci sia una buona dose di nebbia, ecco che gli oggetti a una distanza, diciamo, di un metro, sono sensibilmente meno nitidi di quelli che si trovano a novantacinque centimetri; di conseguenza, con l’esperienza di un’attenta e costante osservazione della maggiore o minore nitidezza, siamo in grado di dedurre con grande precisione la configurazione dell’oggetto osservato.” Forse Ghirri con le sue ultime fotografie stava provando a sperimentare se nella nebbia è possibile vedere diversamente, magari meglio che in sua assenza. Forse era arrivato ad avere così tanta consapevolezza di ciò che aveva costruito negli anni attraverso le immagini e il ragionamento che era pronto ad oltrepassare la soglia della visibilità dove aveva intravisto qualcosa. Però sono solo supposizioni e congetture che purtroppo non avranno mai una risposta definitiva. Ma chissà che strada straordinaria avrebbe mostrato!

Edwin Abbott Abbott, Flatland. A Romance of Many Dimensions (1884)
Claudio Parmiggiani, Atlante (1970)
Claudio Parmiggiani, Atlante (1970)

MZ: Nelle fotografie concettuali di Ghirri (specialmente in Atlante) il mondo rappresentato diventa un mondo osservato, e l’atto di osservazione diviene un lavoro di lettura, come la lettura d’un libro?

GFB: Se parli dell’esperienza del fruitore, cioè di chi legge il libro, io credo proprio che sia così ma dall’altro lato, diciamo dal lato dell’autore, può anche essere che il mondo osservato diventa un mondo rappresentato che diventa un mondo da leggere.

MZ: In Atlante le parole fotografate (desert, Oceano, etc.) sono i soggetti dell’immagine. Cosa si apre attraverso la scelta di rendere immagine una parola? Che ulteriore senso viene innescato?

GFB: Forse il fatto di fotografare le parole che identificano un luogo fa parte del processo di rappresentazione della rappresentazione così come il fotografare altri segni come i meridiani e i paralleli o i numeri delle quote altimetriche delle montagne. Le parole sono segni che fanno esistere ciò che guardiamo e se non ci sono dobbiamo attingere ad altro per definire un’entità. In realtà non sono mai entrata nello specifico di questa questione dal punto di vista intellettuale ma c’è un aspetto del fotografare le parole che ho sempre guardato e cioè la distanza tra le lettere che compongono una parola. Mi rifaccio alle due parole che tu hai citato a proposito di Atlante, oceano e desert. Il modo in cui è scritta la parola desert, cioè distanziando parecchio le lettere una dall’altra mi rimanda alla vastità dello spazio che quella parola rappresenta come se ci fosse una comunanza di intenti tra il luogo e la sua definizione. Allo stesso modo la parola oceano ha lettere più vicine e più “spesse” a livello grafico che mi rimandano ad una solida compattezza del volume acquatico. Poi ci sono tutti i nomi delle isole, piccoli come le isole stesse… credo che la parola sia un altro tipo di paesaggio umano, molto più personale.

MZ: Ci parleresti della ricerca metafotografica legata al tuo rapporto con atlanti, mappe, carte celesti?

Non so bene come questa passione, direi viscerale, per la cartografia sia tornata fuori in maniera così potente ormai qualche anno fa. Da bambina passavo quasi tutto il tempo a sfogliare atlanti dell’universo sotto un albero e ascoltavo incantata Margherita Hack che sapeva tutte quelle cose che io neanche capivo perché le mie capacità matematico-scientifiche sono sempre state decisamente scarse… Forse il modo migliore, e più onesto, è dire che c’è stato un innesco inconscio che ha sicuramente radici profonde nel mio immaginario e che mi ha spinta a prendere questa strada praticamente abbandonando tutto il resto. In un libro molto bello intitolato Neogeografia. Per un nuovo immaginario terrestre (2019) c’è un passaggio significativo in cui Matteo Meschiari sostiene che la geografia non è una disciplina che nasce con Senofonte e Tolomeo, non esiste solo per i geografi ma fa parte del comportamento dell’Homo Sapiens. È un’attitudine innata “e il suo scopo non sono le esplorazioni (di conquista) e le mappe (di controllo) ma, più semplicemente (e più radicalmente), andare oltre, spostare l’immaginario, spostarsi con esso.” Se la geografia è la pratica per eccellenza dell’immaginario allora mi posso considerare una cartografa immaginaria che ri-costruisce una propria visione del mondo utilizzando la geografia e la cartografia esistente.
Negli anni ho prodotto una serie molto ampia di nuove mappe del mondo completamente inutili dal punto di vista geografico stretto ma fortemente evocative di questa attitudine a spostare l’immaginario spostandomi con esso. Durante questo viaggio di ricerca ho scoperto che la base scientifica mi affascina ma entra con molta difficoltà nel mio linguaggio. Mi interessa di più lavorare sul limite dello spazio fisico che diventa quella linea, a volte impalpabile, dove poi inizia lo spazio mentale e viceversa; mescolo questi due mazzi di carte e ricombino gli elementi in una nuova architettura. Ora credo di essere pronta per costruire il mio Atlante mettendo insieme quello che ho fatto finora con nuovi lavori più liberi e meno seriali rispetto ai precedenti. Ho una struttura spaziale consolidata che sto guardando da più prospettive per andare all’essenza della relazione tra l’uomo e il suo mondo. Credo ci vorrà del tempo ma del resto io non ho mai avuto fretta.

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica del cielo
Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica dell’oceano
Giulia Flavia Baczynski – Carta fisica della Terra
Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra #1
Luigi Ghirri, Roncocesi (gennaio 1992), Courtesy Eredi di Luigi Ghirri