Dall’8 marzo 2020 tra le misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica COVID-19 vi era stata la sospensione manifestazioni, eventi, spettacoli e del servizio di apertura al pubblico di musei e luoghi di cultura in tutta Italia. Una misura eccezionale, che già nell’ultima settimana di febbraio era stata adottata in maniera precauzionale in alcune regioni del Nord Italia e che aveva riguardato anche Milano.
La mostra di Giulia Crispiani, Ossesso, avrebbe dovuto aprire presso Il Colorificio di Milano il 29 febbraio scorso. In una data anormale, un buco nero che il calendario gregoriano prevede di integrare ogni quattro anni è che online si è manifestato sotto forma di impossibilità totale. È in questo involucro di eccessi che il paratesto quale dispositivo decentralizzato è stato il tramite attraverso cui Giulia ha trasferito il luogo di aggregazione di corpi e voci in un evento avvenuto in diretta online.
Ossesso è il terzo capitolo di Ano Solare, il programma annuale di Colorificio su sesso e self-display. Nei primi due sono state presentate opere di Caterina De Nicola, Tamara MacArthur, Jacopo Miliani, TOMBOYS DON’T CRY e Luca Scarlini.
“L’unico regime di verità che è possibile esperire è quello del palindromo, della circolarità e quindi dell’ubiquità. Ma l’ubiquità non rappresenta qui una condizione di dislocamento astratto, quanto di pluri-presenza. Non è una negazione del qui e ora, quanto un grido di consapevolezza di quanti qui e quanti ora sono situati e assommati nei nostri corpi.”
Il corpo stratificato in cui avvengono convergenze schizofreniche ha aperto la sua intimità online il 29 febbraio, e ha rotto l’isolamento attraverso un coro di voci spezzate.
Quella che segue è un’intervista scritta in differita. Pensata in un momento di quarantena, è il tramite per far si che Ossesso continui a dare segnali.
Sara Benaglia: In Ossesso corpi e fluidi attraversano i sotterranei in disuso delle case del Giambellino, gli immaginati covi delle BR, le cappelle dei Sacri Monti di Varallo e Orta. In che modo gli echi della dépense baitalliana sono fatti risuonare da pulsioni improduttive?
Giulia Crispiani: Quando si è iniziata a paventare la possibilità di fare qualcosa, lo spazio del Colorificio era vuoto, ma c’era già dietro tutto un apparato di ricerca ampiamente strutturato, molto affine al mio. In più avevamo un’occasione da cogliere: l’anno bisestile e una data anale per eccellenza, il 29 di febbraio, di per sé bataillana. Nella pubblicazione del Colorificio, L’ano solare, Appunti per un anno anale (uscita a novembre 2019, nel contesto di Sprint) c’era già delineata una psicogeografia che sovrapponeva il luogo fisico dello spazio e del suo contesto – il quartiere operaio del Giambellino – e il luogo metaforico del Sacro Monte di Orta, che da famoso esempio di barocco piemontese e sito di pellegrinaggio, si trasforma in pornotopia e meta di cruising. Quando sono stata a Milano per fare il sopralluogo, siamo stat* al comitato di quartiere e a mangiare al mercato del Giambellino; poi sono stata al Sacro Monte. Oltre a Bataille in questa psicogeografia, e tra le mie ossessioni, c’erano anche Nietzsche e Lou Salomé, che, a quanto pare, al Sacro Monte c’erano stati insieme. Anche il mio è stato una sorta di pellegrinaggio. Ho fotografato i graffi sugli affreschi del Sacro Monte come a cercare tracce della loro presenza. Tutto si è trasformato in riferimento visivo e retorico, nell’eccesso della dépense, nella sua inutilità e improduttività. La cacofonia è diventata pretesto per rendere l’idea di ubiquità, e pluri-presenza, poi diventata presenza in assenza, quando proprio la stessa settimana è iniziato il lockdown a Milano.
SB Emerge un punto di vista negativo dal collasso di spazi e tempi specifici. Anche contro l’ingegneria sociale. Come si è strutturato il terrore contro l’apparato tecnologico?
GC Non è proprio “terrore contro”, ma preferisco incontrare le persone, toccarle, guardarle in faccia, sentire gli odori. Per esempio, non credo che lo spazio digitale possa sostituire lo spazio fisico. È uno strumento come un altro. Fa ridere pensare oggi che, per pura contingenza, siamo stati tra i primi a spostarci online, con una versione ridotta di quello che sarebbe dovuto accadere a Milano. Un’alter-opening di un alter-ego digitale, sempre comunque collettivo. C’era un audio a tre voci – la mia, quella di Cecilia Borettaz e quella di Giandomenico Carpentieri al loop musicale – e un Google doc, che è diventata una stanza di lettura. Come ci siamo dette qualche giorno fa, è stato come se quel 29 di febbraio fosse stato davvero un buco nero, un ano che ha inghiottito tutto e ci ha costrette alla paralisi spazio-temporale. Lo spostamento sui social è stato solo per ricordarci che saremmo dovute essere insieme in presenza. Ha voluto solo reiterare il desiderio di presenza, in assenza: “La prima volta che abbiamo fatto l’amore a casa tua, abbiamo scopato con i Black Sabbath. Ora scopiamo con il TG regionale Lombardia, che ascoltato da Roma fa tanto catastrofe. Forse anche per solidarietà, per augurarci che chi è in quarantena possa fare lo stesso, in ubiquità, come se fossimo lì, in spirito, fino alla fine del mondo. Devono aver cambiato sigla ai telegiornali, pur di allontanarci. L’ordinanza del ministero della salute della regione Lombardia vieta gli assembramenti, fino al primo marzo. Ma noi volevamo tanto uscire insieme questo ventinove febbraio, vestite solo del nostro entusiasmo. Volevamo muoverci al ritmo delle parole, avrei tanto voluto incontrarvi, nell’unico giorno che non diventa mai anniversario. Volevamo guardarci in faccia prima di abbracciarci e stringerci la mano, scambiarci i microbi. Volevamo prenderci cura a vicenda.” (questo testo è stato scritto il 26 febbraio)
SB Di chi sono i nomi scritti nella bibliografia all’ingresso, quei graffi alle pareti che rispecchiano matrici di agitazione politica e spirituale?
GC Anche la bibliografia rientra nella metafora anale, perché possiamo dire che nell’oggetto libro è quella parte non necessaria del prodotto finale, ma comunque costitutiva dei suoi argomenti – un paratesto, appunto. Di nuovo è la cacofonia, la conglomerazione di voci, se vogliamo un coro. Se prendessimo la nota a piè pagina e tralasciassimo la citazione, ci sarebbe già un ribaltamento di senso. È una referenza che diventa spazio del possibile, invece che prescrizione. Una traccia per capire da dove viene la mia di voce, perché la mia voce non è mai solo mia. Non è un eco, ma una composizione – sempre. Una bibliografia nuda e visibile, rimane come toolbox per gli altri. Di nuovo un eccesso, senza fine apparente né utilità. Un dono non materiale che non può farsi merce di scambio. I graffi, come dicevo sopra, sono tracce visive, evidenze di una presenza, una firma senza autore, una dichiarazione d’amore, un tenere il conto dei giorni, un messaggio subliminale o una rivendicazione politica. Ognuno di essi è un gesto (inutile). La sovrapposizione di questi gesti è la manifestazione fisica di una collettività, dell’occupazione di uno spazio e della stratificazione del tempo non lineare.
SB C’è un amore per la rivoluzione che nasce quando le piazze si svuotano. Quando si guarda indietro e si cercano speranze tra corpi che non si toccano più. Il tecno-futurismo femminista è una forma di terrorismo? Qual è il terrorismo che immagini relazionarsi con il femminismo?
GC Il mio terrorismo più che un tecno-futurismo sarebbe una tirata di freno a mano al treno del progresso. Per fermarsi e voltarsi indietro e lavorare con quello che già c’è. La rivoluzione c’è stata, e che cosa abbiamo imparato? Possiamo considerare un tempo non lineare, dove il futuro è (per citare in maniera approssimativa la LeGuin) alle nostre spalle? In termini di questioni irrisolte, teorie già formulate, ingiustizie mai saldate. Il terrorismo poetico che propongo implica questo ribaltamento, più che un futurismo speculativo. A voler individuare un fine, parlerei semmai di un eco-femminismo, decoloniale, non specista, intergenerazionale, ma anche intra-generazionale, più di un tecno-femminismo (che sarebbe più una sua conseguenza). Ma in questo caso, mi interessa incrociare, almeno per il modesto spazio che occupo, diverse narrazioni di lotte e pratiche antifasciste, che con la bibliografia e la psicogeografia non diventano altro che accenni, appunti, gesti. Una sorta di mappa concettuale per una possibile metodologia. Un pensiero contorto, ridotto a verso, ripetizione, appunto ossesso. Ma qual è il lascito della poesia? Qual è il suo effetto? E che cosa sarebbe il terrorismo in un mondo senza armi?
SB Come il parlare plurale di Porpora Marcasciano interferisce con il femminismo radicale (ma anche borghese) di Carla Lonzi?
GC Ecco, già il fatto che ti sia posta la domanda, significa che la bibliografia ha funzionato. Non è forse l’esperienza di Porpora un’opera d’arte? Secondo me sì, una in continua evoluzione. Sicuramente il linguaggio dell’una ha informato l’altra – e voglio immaginarmi anche un vice versa. Benché le loro siano state vite e circostanze completamente diverse, il processo emancipatorio di entrambe oggi serve a tutt*. Entrambe si sono impegnate a riformulare il linguaggio, perché si sono sentite che le parole che avevano a disposizione non le definivano.
SB Scritte sui muri hanno aperto orecchie in quarantena. Come vi interferisce l’ideologia tecnologica?
GC Di nuovo penso alle scritte sui muri come a dei gesti – ripetitivi, ossessivi – e segnali di presenza anonimi, che attivano un processo immaginifico del chi, del come e del quando. Una scritta compare e scompare, ci viene scritto sopra, non c’è gerarchia (se non nell’ambito dei graffiti, ma quello è tutto un’altra prassi in cui tendenzialmente non mi interessa inoltrarmi). Spesso faccio riferimento a, e cerco di adottare l’estetica della protesta: una cacofonia visiva che ha senso solo nel suo insieme. Penso all’anti-controllo del cesso del club, dove ognuna si cerca uno spazio per dire la sua, in modo spontaneo, a volte volgare, ma che comunque rimane una manifestazione gestuale (più che contenutistica) del desiderio immediato, della rabbia, una sintesi di un sentimento o un pensiero complesso. C’è più performance che tecnologia, proprio perché è un gesto che sfugge all’identificazione, non si sottomette a datazione e non porta riferimenti (se non il movimento) di coloro che lo tracciano.
SB Usi la fictioning per parlare del contemporaneo. Come il tuo posizionamento etico lavora il linguaggio che usi?
GC La cosa che ripeto (e ripeterò) è che non è l’arte ad essere politica, ma è l’individuo che è politicizzato. Il fictioning è un’occasione per testare tipi di linguaggi. Se la condivisione implica una trasmissione, allora entra in gioco la responsabilità, sia estetica che etica. Un lavoro – un testo, un gesto che sia – crea un precedente, per tutte le ragioni elencate finora. Non siamo mai fini a noi stesse, né tantomeno lo è quello che facciamo. Ogni occasione di condivisione pubblica non è altro che un modo per pensare insieme, al di là del gusto personale. Nel modello neoliberale in cui ci ritroviamo invischiate, il nostro capitale è quello che siamo e come agiamo nel mondo. Forse meglio non addentrarsi in questioni più complesse.
SB L’erotica del fare, nel piacere della condivisione, e l’abbandono della morale nella “rielaborazione della fabulazione” come dialogano con la perversione della “moneta vivente” di Klossowski?
GC Penso di aver risposto in parte nella domanda precedente. La fabulazione è un dispositivo aperto, una speculazione per il piacere di speculare. Il posizionamento plasma la fabulazione. Se la fabulazione è materia, il posizionamento è tecnica. La “moneta vivente” reintroduce il desiderio come potenziale produttivo, ma con il piacere come parametro fondante. Nell’economia del dono – della dépense bataillana e dello spreco – sia il fare che il condividere implicano una generosità che non richiede niente in cambio. Un piacere fine a sé stesso. La perversione stessa viene definita tale secondo parametri psichiatrici prestabiliti. Specialmente se relativa alla sessualità, la perversione diventa un canone morale. Nella mia fabulazione le possibilità rimangono aperte, è il posizionamento che le ribalta o le sposta. Anche solo pensando alla “moneta”, o alla valuta, al valore o che altro, il sistema è sempre imposto, sempre basato su una valutazione quantitativa, definita, materiale e chiusa. Ecco per riprendersi il piacere bisogna liberarsi del calcolo.
SB Chi è passAmontagne trio?
GC Non l* ho ancora conosciut*, abbiamo parlato solo al telefono, purtroppo. Due voci femminili e una fisarmonica, membri del coro dell’Arsuna’, della Val d’Ossola (la valle adiacente al lago d’Orta e al Sacro Monte), che avrebbe dovuto accompagnare la lettura del testo all’evento di apertura del 29 febbraio, con canti anarchici e di lavoro, in lingua occitana e in italiano. Peccato, saremmo riuscite anche a portare la valle a Milano, di nuovo in pluri-presenza. Ci stavamo accordando sul repertorio, poi si è fermato tutto. Non sarà stato il 29 febbraio, ma sarà.
SB Potresti parlarmi della tua collaborazione con Golrokh Nafisi?
GC Quando parlo di Golrokh Nafisi, parlo più di cervello appendice che di collaborazione, o di amicizia o di parentela. Molto di quello che penso e che faccio è frutto del nostro pensare assieme (anche qui in assenza, perché lei vive a Teheran e io a Roma, quindi riusciamo a passare insieme solo poche settimane all’anno, ma la comunicazione è costante). Il nostro lavoro più importante finora è sicuramente il manifesto contro la nostalgia, concepito in collaborazione anche con Ahmadali Kadivar, etnomusicologo per passione. Anche questo è un progetto che avrebbe dovuto viaggiare ed espandersi, ma si è fermato per cause di forza maggiore. Per il resto, oltre che lavorare, visto che non viviamo nella stessa città siamo spesso “costrette” a incontrarci da qualche parte, spesso in Medio Oriente, e ogni nostra convergenza diventa spesso materiale narrativo per il nostro lavoro. Molte delle mie parole o sono di Golrokh, o è l’unica che se le ricorda.
SB Come pensi che Ossesso continuerà ad esistere? Dopo il 19 maggio ci sarà una mostra?
GC: Per definizione l’ossesso non può smettere di esistere. In ubiquità si trasforma in altro, fino a che non riusciremo a rivederci e ad ubriacarci insieme (come nel testo dell’alter-opening – “…Era stato concepito tutto a puntino per non farci prendere dal panico, per celebrare piuttosto questo ventinove di febbraio. In alcune geografie possiamo permetterci di essere più spensierate che in altre. Allora abbracciamo l’ubiquità, ci facciamo voce, per ricordarci a vicenda che queste ore le avremmo dovute sprecare insieme.”). Ossesso apparirà e scomparirà, in ubiquità. Rifiutando la riconversione sul digitale, si farà archivio gestuale. Fino a che quel famoso fumogeno rosso non verrà acceso al Giambellino, accompagnato da un canto d’amore anarchico. Rimane l’intenzione primaria di vedersi e pensare insieme. “Chissà fino a quando ci impediranno di vederci? In ottemperanza dell’ordinanza. Eppure noi non ci saremmo occupati di intrattenimento, lo giuro. Il tempo intenso non si impiega, il tempo intenso contagia. Non ci fanno uscire di casa per prevenzione, in ragione dell’evoluzione epidemiologica. E se a trasmettersi fossero le nostre parole? La rivoluzione è un fiore che non muore. Questo ventinove di febbraio vi invito ad uscire vestite solo del vostro entusiasmo. Questo ventinove di febbraio fondiamo un culto esoterico, un partito, un movimento paramilitare, una pandemia che si arma di poesia e invade le strade. Benvenute nel XXX secolo, un secolo erotico.”