Atpdiary intervista Société Interludio, spazio per l’arte contemporanea con sede a Torino, per parlare del loro approccio condizionato da due visioni completamente diverse: quella curatoriale di Stefania Margiacchi e quella artistica di Paul De Flers.
Il dialogo tra i due fondatori del progetto dimostra l’onestà intellettuale della messa in discussione reciproca e di una programmazione espositiva che genera sempre delle conversazioni ad ampio raggio, sia tra gli artisti invitati e i “proprietari di casa” sia tra le rispettive ricerche.
Lisa Andreani:Tre mostre, tre stati e strati diversi sono emersi: qualcosa di delicato e fugace, una possibilità di evaporazione o seconda uscita, una luce molto forte, accecante nel mentre di un buio quasi cupo. Cosa vi ha condotto a tracciare questi tre punti nella vostra programmazione?
Stefania Margiacchi: Intendiamo una mostra collettiva come un intermezzo entro cui l’artista può lasciare un’idea della propria ricerca. Non ci interessa il quadro appeso alla parete: ci interessa che quel quadro appeso sia lì perché inserito in un hic et nunc, perché punteggiatura di un discorso più ampio, sia riguardante l’artista stesso che il contesto, la mostra collettiva appunto. In questo senso le tre mostre che abbiamo ospitato (Fragile, Vie di Fuga e L’Abbaglio) sono tanto variegate tra loro quanto le ricerche degli artisti invitati fino ad ora. Riconosciamo sempre dei fil rouge tra le sensibilità, le ricerche e i lavori degli artisti che invitiamo a lavorare insieme ma questo non significa riconoscere una similarità tra gli artisti stessi. Questo perché riconosciamo in Société una pluri-direzionalità della ricerca artistica.
Paul De Flers: La resa della mostra dipende molto dall’interazione con gli artisti. Suggeriamo spesso interventi site specific o, comunque sia, di riflettere sul luogo. Per cui ogni mostra si tinge per come gli artisti usano questa libertà. Certi hanno deciso di adattarsi a questa realtà intima e privata, altri di travolgerla. È un grande piacere per noi vedere lo spazio cambiare a seconda delle mostre tanto da diventare irriconoscibile e così protagonista anch’esso delle mostre.
LA: Il progetto di societè nasce dall’unione di una voce curatoriale e una artistica. Come si raggiunge il compromesso o la visione è sempre unitaria? Come individuate gli artisti che volete coinvolgere?
SM: La pratica curatoriale e quella artistica sono le colonne portanti del progetto Société Interludio. Questo fa sì che Société sia un ibrido connotato da svariati elementi che convivono – più o meno armonicamente. Alle volte si trasforma in un paradosso, altre invece assume sembianze più equilibrate. Questo perché, innanzi tutto, io e Paul abbiamo visioni molto distanti: questo ci porta ed essere perennemente in discussione ma allo stesso tempo allena la nostra capacità critica. Nella “costruzione” delle mostre, invece, per adesso ci siamo sedimentati in racconti corali. Tutto è scritto, dall’inizio alla fine, con gli artisti invitati. Solitamente individuiamo un primo artista, che ne invita un secondo che a sua volta ne invita un terzo (almeno questo è stato il modus operandi delle prime tre mostre) sempre, chiaramente, nel dialogo e nel confronto costante tra tutte le parti.
Se lo svolgimento, una volta individuati gli artisti, di solito è sempre molto lineare, la parte più complicata è proprio decidere con quale artista iniziare a dialogare. Raramente ci lasciamo prendere dai colpi di fulmine: ci piace lasciar sedimentare la conoscenza della persona e del lavoro per capire quanto sia infatuazione e quanto amore. Per questo il lavoro più intenso e più stimolante è quello che sta sotto: quello fatto dai primi incontri, dagli studio visit, dai dialoghi o discussioni sulle ricerche e sulle opere degli artisti.
PDF: Per quanto riguarda gli artisti che scegliamo, la cosa è molto semplice: sono gli unici punti in comune tra i nostri gusti molto diversi. La nostra visione è diversissima nell’ideare le mostre a monte. Invece, a valle, quando abbiamo scelto gli artisti che convincono entrambi, la scelta delle opere e dell’allestimento si fa molto naturalmente e andiamo molto d’accordo.
LA: Cosa significa adattare uno spazio già connotato dai suoi caratteri abitativi a diverse possibilità espositive? Come lavorate con questo display già presente?
SM: Direi molto stimolante. Credo che da questo punto di vista, una delle osservazioni che più abbiamo apprezzato recentemente è stato il fatto che in molti hanno notato come uno spazio, apparentemente monotono, in realtà si lasci facilmente plasmare dalle diverse suggestioni che ogni volta modificano il luogo. Era il nostro intento sin dall’inizio e devo dire che, soprattutto con le ultime due mostre, ci siamo riusciti. Credo che la sfida sia quella di continuare ad interrogarsi sullo spazio e cercare di spingere sempre verso nuove frontiere questo suo valore di incessante cambiamento, stando però sempre attenti che questi tentativi di ri-disegnare lo spazio, questi display dentro i display, non fagocitino i lavori e le attenzioni del pubblico.
PDF: Cerchiamo di rendere lo spazio un vantaggio e non un vincolo. Certi artisti giocano con questa natura ibrida di spazio privato ma aperto al pubblico; come nella mostra Vie di Fuga dove Davide Mancini Zanchi che ha allestito opere alle finestre per aprire lo spazio verso l’esterno. O al contrario Sebastiano Impellizzeri che, realizzando ad hoc un paravento, ha giocato con l’idea dello spazio intimo e dell’appartamento vissuto.
La luce è sicuramente quello che ci permette di dare variazione al display molto presente dello spazio espositivo. Ad esempio, ne L’Abbaglio (la mostra attualmente in corso), l’illuminazione diventa un elemento che ci permette di dividere lo spazio in modo radicale, creando così un abbaglio visivo che iperbolizza il senso delle opere in mostra. Così, soprattutto nel secondo ambiente, si crea una crisi nell’occhio: le opere (la foto Brilla di Valentina Furian, il video super8 L’Oiseau du Feu di Calori&Maillard e il lavoro site specific di Davide Sgambaro So Long and thank you for the fish) si rivelano lentamente, auto-svelandosi nella forma e esplicandone così il contenuto.
LA: Parlate di intermezzo nel vostro statement, di uno stato mediano in cui collocate la vostra ricerca di spazio dedicato all’arte. In quali artisti che avete esposto questo si è reso più visibile?
PDF: Interludio è da intendersi per noi come l’intermezzo che ci permette di prendere il tempo di vedere le mostre con calma, in un contesto particolare. Quindi questo intermezzo rende possibile il vedere evolvere le opere nel corso della mostra.
Il convivere con le opere, da questo punto di vista, fa sì che ci siano tempi diversi di scoperta. Direi che Giulio Saverio Rossi e Andrea Barzaghi sono due pittori che lo simbolizzano di più, perchè i loro quadri prendono importanza e valore col passare dei giorni, perchè la loro pittura è meditativa e delicata, nella tecnica o il significativo. Le stesse Geografie Temporali di Sophie Ko, che si mascherano come stratificazioni terrose ormai solidificate, in realtà sono in continuo mutamento. Ed è così che quei lavori lentamente cambiano ogni istante. Sono cambiamenti quasi impercettibili nel quotidiano ma ricordo che, a mostra finita, notammo con Stefania che il lavoro era diventato una cosa altra e noi avevamo assistito a questa trasformazione giorno dopo giorno.
SM: Collegandomi a quanto detto da Pol, credo che la bellezza di convivere con delle opere ogni giorno e di lavorare con artisti molto diversi tra di loro, sta proprio nel fatto che la percezione del lavoro stesso cambi proprio perché, in un certo qual senso, lo scopri un po’ di più ogni giorno.
Nella prima mostra, Fragile, il lavoro di Paolo Inverni Panorama (Aug.-Oct. 2018) cambiava ogni giorno ed ad ogni ora, in dipendenza di come la luce esterna illuminava la struttura in plexiglass della scultura che a sua volta produceva un’ombra sulla parete (e sul lavoro stesso).
L’intera casa, con il lavoro site specific alle finestre di Davide Mancini Zanchi per la mostra Vie di fuga, prendeva toni (e suggeriva atmosfere) sempre diverse. Ogni tanto, con la luce che filtrava dalle trame delle tele di juta, sembrava di essere in una chiesa e i quadri-finestre assumevano le sembianze di vetrate.
La serie Fluidi di Giulio Saverio Rossi sono mutati nei mesi in cui hanno convissuto a Société grazie all’utilizzo sulle tele dell’ossido di ferro, come anche, nell’attuale mostra in corso, la lastra di ottone di Davide Sgambaro Una cosa divertente che non farò mai più #1 ha visto da prima perdere la lucentezza tipica del materiale per poi vedere una lenta ma progressiva ossidazione della materia.
Le foreste di Andrea Barzaghi, grazie alle sue pluralità pittoriche, attraverso una convivenza e una ripetuta osservazione, rivelavano ogni volta una gamma di sfumature in più. Nelle stesse mappe di Sebastiano Impellizzeri si aprivano, tra le campiture della tavolozza del pittore, nuove vie e nuovi luoghi da scoprire.
Société Interludio è un progetto ideato e diretto dalla curatrice Stefania Margiacchi (1990) e dall’artista Paul de Flers (1988).
Spazio per l’arte contemporanea, si trova al piano nobile di un palazzo del primo ‘900 in Piazza Vittorio Veneto.
I luoghi espositivi sono fortemente connotati da un pavimento alla veneziana che suggerisce una vita passata di abitazione domestica, adesso a completo servizio delle esigenze richieste dalle arti visive.
Intermezzo di altre stanze, porzione di luogo, Société Interludio vuole essere un lungo intervallo artistico che ogni operatore e/o fruitore si ritaglia dal suo vivere quotidiano per l’attento osservare.