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La terza personale dell’artista franco-algerino Neïl Beloufa da Zero… si realizza in un’operazione “immersiva”, “aperta” e stratificata. Beloufa – artista selezionato da Ralph Rugoff per la mostra May You Live In Intresting Time alla Biennale Arte 2019 – dimostrando una raison d’etre prossima a quella di Duchamp (che tale appropriazione avvenga deliberatamente oppure sia subita dall’artista non ne modifica il risultato) adotta una posizione laterale rispetto alle nozioni di bello e di brutto, di buono o cattivo gusto. Pur esistendo un piacere retinico sotteso – accedendo allo spazio espositivo non si può che rimanere colpiti dai colori neo pop e dalle narrazioni da flipper/video games degli assemblages proposti – questo si limita ad essere un mezzo introdotto dall’artista per porre al centro i processi generativi delle cose stesse. La produzione di Beloufa rende così testimonianza di come il confronto/scontro con una fagocitante società post-capitalistica dominata da merci, scarti, immagini e contenuti – in cui tutto è incerto, precario e simultaneo – possa generare nuovi dispositivi estetici. Tra intenzione e realizzazione l’opera torna così ad essere un “sistema” destinato ad interrogare il contesto in cui esso appare generato.
In cosa dunque l’opera d’arte dell’era digitale si distingue dagli altri testi iconici e non? Al cuore dell’estetica proteiforme di Neïl Beloufa immaginiamo possa situarsi l’esperienza di una “struttura” vissuta come interno ed esterno. Tale struttura non raggiunge né uno stato ideale/reale (substratum) né un portato linguistico (apparato), rasentando invece il meccanico, l’intrinseco e il seriale. La macchina messa a nudo (La mariée mise à nu di Duchamp vittima di un desiderio lancinante rimasto inappagato) diviene opera “esposta”, letteralmente scoperta e sviscerata allo sguardo consumistico dello spettatore. Ridotta a un assemblaggio di cavità, forme sinusoidali, prese d’aria, cavi e spine, la scultura-motore di Beloufa identifica la sua attrattività con la propria funzione. A ciò fa da contrappunto la ripetizione ossessiva dei numeri da 1 a 10, tracciati manualmente dall’artista su fogli A4: gli elementi fondamentali del pensare e dell’agire si susseguono sul piano geometrico in maniera potenzialmente infinitesimale.
Anche qualora la sua ricerca raggiunga una dimensione “pittorica”, essa non estingue la propria natura strutturale, ma anzi, se possibile, la mitizza nella forma del “billboards”. Il supporto oltre che rivelare una genesi composita e merceologica (dal Merzbau di Schwitters all’estetica della lamiera in Chamberlain) attuata in un panorama semiotico che oscilla tra “Learning from Las Vegas” (Robert Venturi, Scott Brown e Steven Izenour, 1972) e le atmosfere fluorescenti del cinema di David Lynch (Lost Highway, 1997), denuncia un’essenza potentemente strutturale. I totem luminosi che occupano lo spazio, prima di essere figurazione, ornamento o texture (difficile definirne più chiaramente la categoria) sono strutture dotate di una natura ibrida. Gli stessi collage bidimensionali esposti, pur costituendosi nuovamente come accostamento e giustapposizione di segni e superfici colorati, esistono in quanto applicati ad un apparecchio retroilluminato. Il titolo della mostra, La Morale della Storia, pare suggerire Beloufa, determina l’apparizione dei processi di massa in maniera immediata, seppur non di lineare interpretazione. Tale morale può così inscriversi nell’intreccio della fiaba e della fabula: l’apparente delicatezza della narrazione con cui Beloufa ci introduce alla mostra e che vede protagonisti degli umanizzati animali di varia specie – nell’ordine cammello, Fennec e formiche – trova riflesso nel coefficiente profondamente interrogativo e interpretativo delle opere presentate.
Neïl Beloufa – La morale della storia
Galleria Zero… Milano
Fino al 13 luglio 2019
Neïl Beloufa – La morale della storia | Zero… Milan
Text by Valentina Bartalesi —
The third solo exhibition of the Algerian-born French artist Neïl Beloufa appears an immersive, open and stratified action. Beloufa demonstrates a raison d’être close to the Duchamp one (it doesn’t matter that this appropriation is voluntary or not): he accepts to preserve a lateral position from the metaphysical concepts of beauty and unsightliness, of polite or unkind taste. Even if a retinal pleasure exists – entering the exhibition one is immediately attracted by the neo-pop colours and the “flipper/video games” aesthetic of the sculptures showed – it results in a sort of medium through which the artist turns out the generative process behind things. Neïl Beloufa’s production proves how the gathering/collision of a phagocytized post-capitalist society dominated by goods, wastes, images and contents – in which all is uncertain and simultaneous – could generate new aesthetic systems. Between intention and creation, the work of art becomes again an apparatus that unveils the social dynamics in which it was born.
How is the work of art different from other iconic and not iconic texts during the digital era? At the heart of Neïl Beloufa’s proteiform aesthetic, we imagine the “structure” as an inner and an external entity. This structure is neither ideal (substratum) nor linguistic (apparatus); it keeps close to the mechanical, the intrinsic, the serial. The machine stripped bare (The Duchamp’s Mariée mise à nu left desiring and sexually dissatisfied) becomes an exposed subject literally “for all to see” and “eviscerated” to the consumer gaze of the public. Reduced to an assemblage made of recesses, sinusoidal shapes, air intakes and plugs, the Beloufa’s sculpture-engine identifies its allure with its functionality. The series of numbers obsessively traced on A4 sheets of paper appears related to this research. The fundamental elements of thinking and human behaving – the numbers from 1 to 10 – keep happenings on a geometrical and limitless surface.
When Neïl Beloufa’s poetic reaches a pictorial dimension, it doesn’t lose its structural reality but, on the contrary, it gets mythologize. In this way, the support unveils a mixed and commodity-related genesis (from Schwitters’ Merzbau to aluminium sheet effect of John Chamberlain’s cars crushing) pitch in a semiotic panorama that fluctuates between “Learning from Las Vegas” (Robert Venturi, Scott Brown and Steven Izenour 1972) and the fluorescent atmospheres of David Lynch’s movies (Lost Highways, 1997).
The lightsome totems situated inside the exhibition space (completely darkened) are, first of all, structures with a hybrid essence, even if they demonstrate a pictorial and ornamental character. In the same way, the two-dimensional collages realized juxtaposing coloured surfaces and signs exist in virtue of a backlight device. La Morale della Storia, as Neïl Beloufa suggests, allows the appearance of mass processes. That moral could inscribe itself in the plot of the fairy tale: the apparent delicacy with which Beloufa introduces us to the exhibition – with an ethical fable of a camel, a Fennec and a flock of ants “humanised” – finds reflection in the interrogative coefficient of his works.
Until 23 July 2019