
La Pelle. E gli occhi. Quelli che creano, sono e attraversano l’immagine: i primi dell’artista, i secondi del soggetto e gli ultimi dello spettatore. Una mutua e complessa relazione di sguardi intercetta quello che Luc Tuyman (Mortsel, 1958) definisce “autentica falsificazione” e che, in assenza di termini adeguati, descrive un lavoro per immagini dove memoria e tempo hanno la stessa dignità compositiva della pennellata.
Cioè La Pelle, la prima personale italiana dell’artista belga, sembra costruirsi come un atlante per immagini dove ogni tela è uno sfondamento estetico su tempi e contesti spesso disallineati dalla contemporaneità; ogni soggetto è la rappresentazione diafana di perturbanti citazioni o topoi ricorrenti, e ogni emergenza di senso è solo un pallido indizio per decodificarne la complessità.
Le opere di Tuymans si costruiscono infatti sulla frattura tra significante e significato, estetica e iconologia. Cioè posizionano la propria narrazione di senso in quel preciso limbo che, tra percezione e comprensione, fa di ogni ritratto, natura morta e immagine diagnostica un dispositivo storico stratificato di non-immediata comprensione, un documento di riferimenti specifici, il deposito di una memoria individuale il cui trauma è collettivo.
Gli occhi di Tuymans hanno scelto cosa guardare e come conservare una moltitudine di immagini mediali, fotografie o film still. Hanno deciso quali di queste immagini ridipingere, “falsificare autenticamente” o ri-mettere-in-scena.


Nuovi soggetti nascono nel tempo di una giornata, al massimo due, traducono l’essenza di ciò che i loro originali sono stati e sigillano i loro Segreti (1990) nella campitura degli occhi. Chiusi come quelli del primo ritratto in mostra, eloquente metafora della pittura che nasconde l’identità dei suoi soggetti, o vacui come quelli di chi ha visto troppo.
Nei loro volti impenetrabili sarà impossibile riconoscere i tratti dell’architetto nazista Albert Speer o la somiglianza con l’Intellettuale fiammingo (1995) Ernst Claes. Sarà impensabile associare l’urlo afono di Twenty Seventeen (2017) a una delle tante scene di una popolare tv serie brasiliana. Non si riconoscerà Reinhard Heydrich, il macellaio di praga, dietro gli occhiali dell’uomo nel quadrittico Die Zeit (1998), o si farà fatica ad abbandonare i pochi appigli che spingono a riconoscere il viso dell’artista nel primo piano diagnostico di Der diagnostische IV.


Se l’operazione neanche è necessaria, il ricorso allo sguardo è imprescindibile e gli occhi dei dipinti di Tuymans son sempre un indizio di senso. Fissi, diretti, evasivi. Inquietanti e bestiali, inquisitori o interpreti della reale ossessione di essere osservati. Robotici e onnidirezionali, come quelli di un bambino severo ed educato. Vuoti; mascherati dietro montature riflettenti o sfumature troppo annacquate. Sono una membrana, la pelle che custodisce segreti.
La pittura ha sempre ricordato le potenzialità immaginifiche che si annidano tra il vedere e il conoscere e Tuymans ha forse l’obiettivo di ricordarcelo: lo sguardo su queste immagini è seducente e inquietante; si posa sulle poche informazioni che emergono dalla loro matrice estetica costringendo a osservarla ritardando la conoscenza. La comprensione, d’altronde, è il lungo risultato di un movimento percettivo tra quello che pensiamo sia e quello che in effetti è, quando gli occhi oscillano tra il senso di un’immagine e la sua realtà.
Luc Tuymans – La Pelle
A cura di Caroline Bourgeois
Palazzo Grassi, Venezia
24.03.2019 – 06.01.2020








