ATP DIARY

Fantastico e macabro alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

In occasione delle quattro personali che lo scorso novembre hanno inaugurato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la redazione di ATPdiary ha intervistato Irene Calderoni, curatrice delle mostre di Andra Ursuta, “Vanilla Isis” e di Monster Chetwynd “Il gufo con gli occhi laser”. L’invito a quattro artiste completamente diverse nelle ricerche e nelle soluzioni formali – […]

Andra Ursuta,  Stoner, 2013 -  baseball pitching machine, 61 x 57 x 29,5 inches urethane rubber, concrete, cloth rocks, fence
Andra Ursuta, Stoner, 2013 – baseball pitching machine, 61 x 57 x 29,5 inches urethane rubber, concrete, cloth rocks, fence

In occasione delle quattro personali che lo scorso novembre hanno inaugurato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la redazione di ATPdiary ha intervistato Irene Calderoni, curatrice delle mostre di Andra Ursuta, “Vanilla Isis” e di Monster Chetwynd “Il gufo con gli occhi laser”.

L’invito a quattro artiste completamente diverse nelle ricerche e nelle soluzioni formali – Lynette Yiadom-Boakye, Rachel Rose, Monster Chetwynd e Andra Ursuta – ha generato tra le mostre un continuo alternarsi tra punti di coincidenza e punti di stacco. Come afferma la curatrice, si tratta di esplorare “un grande macabro e oscuro, il fantasmagorico dell’immagine”.
Nell’intervista che segue emerge il carattere irriverente e le diverse pratiche narrative che mostrano la peculiarità delle ricerche della Ursuta e Monster Chetwynd.

Monster Chetwynd “Il gufo con gli occhi laser” - Installation view - Fondazione  Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2018
Monster Chetwynd “Il gufo con gli occhi laser” – Installation view – Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2018
Monster Chetwynd “Il gufo con gli occhi laser” - Installation view - Fondazione  Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2018
Monster Chetwynd “Il gufo con gli occhi laser” – Installation view – Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2018

Lisa Andreani: Le due mostre che hai curato, sebbene si muovano su due registri diversi, condividono un aspetto grottesco e tragicomico. Mi racconti le affinità e il dialogo che le due mostre costruiscono negli spazi della Fondazione?

Irene Calderoni: Il programma inaugurato a novembre si articola su quattro mostre personali, quattro personalità di artiste molto forti che presentano altrettante visioni del mondo e del linguaggio artistico. È un equilibrio di differenze e corrispondenze, una composizione in cui si alternano assonanze e dissonanze, che risuonano in uno spazio capace di dare autonomia ma senza separazioni assolute.
Se dovessi identificare un tono ricorrente in tutte le mostre direi il gotico, come modalità di mescolare fantastico e macabro. Questo registro dà forma a una riflessione sulla qualità fantasmatica dell’immagine evidente nei lavori di Lynette Yiadom-Boakye e Rachel Rose, mentre nelle mostre di Andra Ursuta e Monster Chetwynd è il lato più oscuro e insieme ironico ad emergere con potenza. In queste due mostre si ride della morte, attraverso strategie che si basano su connubi improbabili di temi e registri, con un approccio che evoca il non-sense dadaista e l’umorismo nero surrealista.

LA: Affiancare le due personali nello stesso momento è una coincidenza? Quali motivazioni sottende la scelta di queste due artiste?

IC: L’invito alle artiste è arrivato dopo alcuni anni che seguivamo il loro lavoro, anche attraverso l’acquisizione di opere in collezione. Nel caso di Andra Ursuta in collezione è presente un gruppo di opere realizzate per la sua personale Magical Terrorism del 2012, che esplorava sistemi economici e ideologici attraverso la figura emblematica della cartomante zingara, cui dedicava una serie di paradossali monumenti.
Con Monster Chetwynd l’idea di collaborare si era sviluppata a partire dal suo progetto The Idol del 2015, nato da una committenza pubblica per la città di Barking, in Inghilterra. È una scultura e insieme una gigantesca e assurda area gonfiabile per bambini, un’opera-gioco che incarna al meglio il carattere fantastico e coinvolgente di Monster.
Le conversazioni con entrambe le artiste sono infine maturate nell’idea di un progetto monografico che si è deciso di presentare insieme.
Tornando al programma espositivo nel suo complesso, il genere non è stato un criterio di scelta dall’inizio, ma il fatto di presentare in contemporanea quattro artiste ci è sembrato interessante, poiché un’attenzione particolare verso il lavoro delle artiste donne rispecchia un orientamento della Fondazione fin dagli esordi, che ancora riteniamo importante.

Andra Ursuta,  Stoner, 2013 -  baseball pitching machine, 61 x 57 x 29,5 inches urethane rubber, concrete, cloth rocks, fence
Andra Ursuta, Stoner, 2013 – baseball pitching machine, 61 x 57 x 29,5 inches urethane rubber, concrete, cloth rocks, fence
Andra Ursuta,  Stoner, 2013 -  baseball pitching machine, 61 x 57 x 29,5 inches urethane rubber, concrete, cloth rocks, fence Photo by Uli Holz Courtesy Ramiken Crucible and Venus Over Manhattan
Andra Ursuta, Stoner, 2013 – baseball pitching machine, 61 x 57 x 29,5 inches urethane rubber, concrete, cloth rocks, fence Photo by Uli Holz Courtesy Ramiken Crucible and Venus Over Manhattan

LA: Considerando appunto i due risultati finali completamente diversi, credi che i linguaggi delle due artiste possano elaborare una risposta comune?

IC: Mentre ci sono aspetti del loro lavoro che si possono analizzare congiuntamente, credo sia più interessante mettere in luce le specificità, soprattutto in riferimento ai media utilizzati e ai temi affrontati. Andra Ursuta parte dalla realtà, da un universo di segni che appartengono a questo tempo e alle sue dinamiche. Lavora con oggetti e immagini che hanno un forte impatto, sia da un punto di vista fisico che simbolico. Il loro carattere violento sembra rivolgere una minaccia allo spettatore, come reso evidente da un’opera quale Stoner, una spara palle da baseball riconfigurata per scagliare pietre contro un muro dai chiari riferimenti umani. Un oggetto di svago diviene una macchina di tortura e supplizio, ed è ambivalente la posizione di chi osserva, tra voyeurismo e sgomento. Nello spazio espositivo l’artista ha posizionato una serie di cellulari, che si attivano casualmente facendo partire una suoneria che riproduce la canzone dei Sex Pistols Anarchy in the UK ma in versione in versione nasheed, il tipico stile musicale dell’Isis. Il lavoro fa leva sulle inquietudini della nostra epoca, sul senso di oscura minaccia incarnato in specifici simboli, oggetti e culture.
Dall’altra parte abbiamo l’universo creato da Monster Chewtynd, abitato da mostri, pipistrelli, bocche dell’inferno e gufi dagli occhi laser, ma dai toni decisamente più ludici, carnevaleschi. Il motore di tutto qui è la dimensione performativa, ciò che mette in movimento e in relazione attiva gli oggetti con delle narrazioni vissute. Il suo progetto è molto articolato, include opere pre-esistenti e nuove produzioni, e una delle figure chiave è quella di Calvino, il cui Castello dei destini incrociati ha ispirato una delle due rappresentazioni di marionette. I tarocchi, che nel libro di Calvino si offrono come dispositivo narrativo, abitano lo spazio scenico ma anche si offrono come metafora di un lavoro sulle immagini che è caratteristico di Monster Chetwynd. Ad esempio nei suoi quadri, opere che fondono diversi elementi, stratificando riferimenti iconografici e oggetti performativi, risulta fondamentale la logica combinatoria che anche nei tarocchi è alla base dei processi di produzione di senso.

LA: Prendendo in considerazione l’approccio affabulatorio di Monster Chetwynd, in particolare nella performance che ha eseguito con i suoi collaboratori, quale forma ha assunto il coinvolgimento del pubblico durante lo spettacolo di marionette?

IC: Come tipico del suo lavoro, la performance si è allontanata dal concetto classico di messa in scena di fronte a un pubblico per focalizzarsi sull’idea di celebrazione collettiva. Non si tratta necessariamente di una partecipazione attiva, quanto di una forma di contatto, di prossimità e condivisione di un momento. La dimensione improvvisata e l’estetica povera sono funzionali a costruire questo spazio condiviso, qui enfatizzato dalla componente musicale, la performance di una punk band che ha trascinato tutti in una festosa complicità.

LA: Corre qualche rischio la radicalità e l’ambivalenza in cui si muove la mostra Vanilla Isis, in particolare considerando l’appropriazione di forme punk, rap e metal in relazione alla propaganda terroristica?

IC: L’approccio di Andra Ursuta è decisamente irriverente, ma è importante sottolineare come l’oggetto della sua analisi non sia tanto l’estremismo religioso, quanto i destinatari della propaganda estremista, i giovani occidentali che vengono sedotti da questi messaggi e decidono di partire per la jihad con la superficialità con cui andrebbero a un concerto. Vanilla Isis è un termine usato negli Stati Uniti per riferirsi a questo fenomeno, che riguarda la nostra società e le sue dinamiche più che l’Isis. Lo spazio della mostra richiama una sorta di summer camp, un contesto di svago benché dal carattere decisamente lugubre, un luogo paradossale in cui ludico e bellico si fondono, in cui segni ed estetiche migrano da un contesto all’altro, e questo caos simbolico parla decisamente più di noi che di loro.

Lynette Yiadom-Boakye - A File For A Martyr To A Cause , 2018
Lynette Yiadom-Boakye – A File For A Martyr To A Cause , 2018
Lynette Yiadom-Boakye Switcher, 2013
Lynette Yiadom-Boakye Switcher, 2013
Rachel Rose, Wil-o-Wisp_Installation_IMAGE 03 copia
Rachel Rose, Installation image from Wil-o-Wisp (moiré Installation), 2018 – Courtesy of Philadelphia Museum of Art, 2018 . Photo by Tim Tiebout
Still from Wil-o-Wisp (Moiré Installation), 2018, by Rachel Rose © 2018 Rachel Rose
Still from Wil-o-Wisp (Moiré Installation), 2018, by Rachel Rose © 2018 Rachel Rose