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Manifesta 12, ovvero la città sul palcoscenico

[nemus_slider id=”76342″] — Una piccola folla, internazionale, elegantissima e festosa si concentra nelle strade e nelle piazze assolate di Palermo durante i giorni di apertura di Manifesta 12. La città grazie al suo ruolo secolare di snodo mediterraneo e grazie alla natura porosa del suo centro storico si configura quale luogo ideale per ospitare una […]

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Una piccola folla, internazionale, elegantissima e festosa si concentra nelle strade e nelle piazze assolate di Palermo durante i giorni di apertura di Manifesta 12. La città grazie al suo ruolo secolare di snodo mediterraneo e grazie alla natura porosa del suo centro storico si configura quale luogo ideale per ospitare una mostra diffusa nel territorio e fondata su principi profondamente postcoloniali. Eppure il clima di grande entusiasmo che accompagna e nutre la manifestazione non basta a nascondere le incertezze sollevate dall’impianto curatoriale che si rivela a tratti fragile e in un rapporto di paradossale quanto involontaria competizione con il tessuto urbano. L’esperienza empatica e corporea di attraversamento della città, unita alla bellezza malinconica dei suoi palazzi in rovina e al clima diffuso di festività, sovrasta fino quasi a oscurarla l’intensità dell’esperienza offerta ai visitatori dalla fruizione delle opere.

La biennale, il cui titolo Il Giardino Planetario è tratto dagli scritti del botanico francese Gilles Clément, guarda al giardino quale luogo ideale in cui il sincretismo culturale e la coesistenza di infinite alterità si dimostra un fatto non solo possibile ma da sempre praticabile e radicato nelle tradizioni locali. La Veduta di Palermo dipinta da Francesco Lojacono nel 1875, viene scelta quale immagine emblema di Manifesta: nessuna delle piante ritratte dal vedutista palermitano è in realtà originaria della Sicilia, gli ulivi provengono dall’Asia, i pioppi dal Medio Oriente, gli eucalipti dall’Australia, e così via.  A definire l’essenza profonda del giardino, luogo nel quale s’incontrano natura e cultura, non sono tanto le radici delle piante che esso ospita quanto le rotte percorse dai semi che le generano. Una Manifesta quindi che si dimostra profondamente postcoloniale nella struttura così come nella selezione degli oltre cinquanta artisti invitati. Il garbo e l’intelligenza antiretorica con cui vengono raccontate la storia stratificata di Palermo e la complessa questione del Mediterraneo sono gli elementi di grande forza della mostra, che assumono importanza ancora maggiore se contestualizzati nel drammatico panorama politico-culturale italiano. Eppure fa pensare il fatto che giunta l’inaugurazione della biennale fossero pochissimi i palermitani a conoscerne l’esistenza e la natura, quegli stessi palermitani che solo tre giorni prima in centinaia si erano radunati invocando la riapertura dei porti e la fine della tragica vicenda della nave Acquarius.

La Veduta di Palermo, Francesco Lojacono, 1875 - Office for Metropolitan Architecture
l-k- La Veduta di Palermo, Francesco Lojacono, 1875 – Office for Metropolitan Architecture

Se nel tempo abbiamo imparato che a volte è rischioso e poco produttivo chiedere al mondo dell’arte un intervento diretto nella realtà e nella contingenza politica, la sovrapposizione di questi due avvenimenti solleva interrogativi circa il ruolo dell’arte, interrogativi tutt’altro che facili da risolvere e dei quali un’istituzione come Manifesta dovrebbe necessariamente farsi carico. La biennale assolve in parte a questo compito istituendo all’interno del Teatro Garibaldi un laboratorio che per tutta la durata della manifestazione ospiterà sessioni di incontri ed eventi performativi. Nei giorni dell’opening si susseguono una serie di panel che riflettono sul concetto di confine e che vedono coinvolti artisti e teorici, dai membri di Forensic Oceanography a Iain Chambers e Alessandra Di Maio, invitati per l’occasione da Invernomuto. Nonostante il teatro si prospetti quale fervente luogo di ricerca e discussione collettiva si ha l’impressione che l’impostazione accademia e rigidamente frontale dei talk escluda una reale possibilità di incontro e dialogo tra l’istituzione e il suo pubblico.

Il cuore di Manifesta è organizzato secondo tre nuclei di ricerca: Garden of Flows, Out of Control Room e City on Stage. Ciascuno di essi è poi declinato attraverso interventi disseminati in oltre venti sedi espositive. E forse è proprio nel ripetersi della corrispondenza serrata fra una specifica sede e un micro nucleo tematico che il dispositivo curatoriale rivela parte della sua debolezza. Manifesta, che si dichiara fluida e diffusa, torna in ciascuna delle sue sedi principali a raggrupparsi attorno a tematiche molto circoscritte delle quali le opere commissionate vanno, una dopo l’altra, a confermare la tesi. Lo spazio dedicato alla sorpresa e a un pensiero complesso e non necessariamente assertivo viene spesso a mancare o viene consegnato unicamente alla responsabilità degli artisti.

MICHAEL WANG, The Drowned World, 2018  Environmental installation Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist
MICHAEL WANG, The Drowned World, 2018 Environmental installation Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist

Garden of Flow è la sezione che racchiude l’elemento più fragile e al contempo quello di maggiore interesse dell’intera biennale. Nell’orto botanico le opere quasi scompaiono nel dialogo con le meravigliose specie vegetali da esso ospitate, le quali sembrano incarnare un modello di sincretismo culturale ben più forte e sostenibile di quello proposto dalla mostra. Di grande interesse è l’intervento di Michael Wang che, costruendo una scalinata in grado di superare l’alto muro di cinta dell’orto, offre al pubblico uno sguardo quasi fotografico su una porzione di panorama nel quale convivono vegetazione e architetture industriali abbandonate. Con Foreign Farmers Leone Contini restituisce una ricerca, lunga quasi un decennio, che lo ha portato a collezionare e studiare i semi utilizzati dalle diverse comunità di contadini stranieri attivi in Italia. Tali semi, come coloro che li trasportano, sono da sempre migranti e la loro presenza viva contribuisce a sovvertire silenziosamente i concetti di origine, provenienza e appartenenza nazionale. Contini coltiva un orto all’interno dell’orto e dispone un’ideale tassonomia dei suoi prodotti nelle antiche teche del Gymnasium.

La sezione ospitata da Palazzo Butera è invece una delle belle sorprese offerta da Manifesta. Il palazzo, affacciato simbolicamente sul porto e sottoposto a una ristrutturazione che ne mostra la struttura precaria e stratificata, accoglie alcune opere di grande respiro che riescono a riflettere con successo sull’idea di negoziazione tra identità differenti. Renato Leotta, con lirismo raro e garbato, traspone un giardino ideale all’interno di uno degli ampi saloni del palazzo, ricoprendone il pavimento con piastrelle di argilla cruda che recano i segni della caduta di numerosi limoni. Il duo californiano Fallen Fruit con Theatre of the sun tappezza le pareti con una carta dal gusto irriverentemente pop e produce una mappa, in distribuzione gratuita, che indica la posizione di centinaia di alberi da frutto disseminati nella città di Palermo, specificandone la provenienza –  naturalmente – non siciliana. C’è poi Maria Thereza Alves la quale, pur non avendo proposto uno dei suoi lavori più efficaci, potrebbe essere assunta a ideale nume tutelare dell’intera Manifesta. Una proposta di sincretismo (questa volta senza genocidio) è un omaggio, in forma di disegno su piastrelle in ceramica, al panorama vegetale e animale della Sicilia nel quale gli elementi “esotici” sono da sempre assimilati nelle tradizioni locali; la presenza ricorrente e fortemente simbolica dei pappagalli le permette poi una connessione con il nativo Brasile. Di natura più ambigua ma non meno interessante è il lungo video proposto da Melanie Bonajo, accompagnato dalla costruzione di un ambiente a metà fra una serra e il bordo di una piscina, che assume la funzione di platea. Nel video una teoria di diversi personaggi racconta frammenti di storie e svolge una serie di riti che avrebbero la funzione di mostrare il forte distaccamento della società occidentale dalla natura.

FALLEN FRUIT, Theatre of the Sun, 2018 Mixed media installation Dimensions variable Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist
FALLEN FRUIT, Theatre of the Sun, 2018 Mixed media installation Dimensions variable Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist
MARIA THERESA ALVEZ, Una proposta di sincretismo (questa volta senza genocidio) 2018 Mixed media Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist
MARIA THERESA ALVEZ, Una proposta di sincretismo (questa volta senza genocidio) 2018 Mixed media Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist

Out of Control Room è la sezione di Manifesta che più soffre della ripetuta sovrapposizione fra sede espositiva e singolo nucleo tematico, offrendo molteplici esperienze di mostra profondamente dichiarative e che lasciano poco spazio tanto al corpo quanto alle capacità ermeneutiche dello spettatore. All’interno di Palazzo Ajutamicristo si riflette sul concetto di confine e su quello di network, quale rete di potere smaterializzata, paradossalmente transnazionale e invisibile. John Gerrard riproduce, attraverso una video simulazione dalla straniante accuratezza, gli esterni di un grande edificio progettato da Google per custodire centinaia di server internet. Gli attivisti berlinesi The Peng! Collective regalano un sorriso installando nel cortile del palazzo una cabina telefonica con la quale contattare in maniera anonima i funzionari di diverse agenzie dei servizi segreti. Il dispositivo, corredato da dettagliate norme comportamentali a cui sottoporsi, si rivela un bluff quando dopo pochi istanti la comunicazione telefonica s’interrompe bruscamente. Rayyane Tabet – con un lavoro di grande forza narrativa e formale – rievoca attraverso moduli cilindrici dal gusto minimalista una porzione della Trans-Arabian Pipeline, oleodotto che collegava Arabia Saudita, Siria, Giordania e Libano, paesi dalle frontiere ora fortemente militarizzate. A fare da corollario una raccolta di fogli di carta intestata, ancora non compilati, rinvenuti dall’artista negli uffici abbandonati della compagnia petrolifera, la traccia fantasmatica di una colossale impresa umana distrutta dal cambiamento degli scenari geopolitici.

Palazzo Forcella de Seta ospita invece un frammento della mostra che racconta il Mediterraneo quale confine militarizzato, unendo storie e drammi di migrazione, mitologie anticoloniali e analisi documentaristiche del complesso presente interculturale. Il collettivo Forensic Oceanography propone una serie di video che con radicale freddezza analitica dimostrano quanto il ricorrente naufragio nel mediterraneo delle imbarcazioni di migranti sia un’azione indotta dall’Europa quale deterrente dei flussi migratori. Si tratta di un intervento che, a prescindere dal contenuto drammatico, fa discutere tanto del potere legittimante della biennale quanto dello statuto complesso di opera. In altre parole, quella proposta da Forensic Oceanography può davvero considerarsi un’opera d’arte?

Kader Attia, tra i nomi più attesi di Manifesta 12, propone un lungo film-documentario che riflette sul corpo post-coloniale e sulla sua repressione all’interno panorama europeo contemporaneo. The Soul of Salt di Patricia Kaersenhout è uno dei rarissimi lavori presenti nell’intera rassegna ufficiale a misurarsi con proporzioni spettacolari, risultando per questo una delle opere più condivise e riprodotte sui social network. La colossale installazione di sale, accompagnata da un video, sta a simboleggiare la leggenda caraibica degli africani volanti, schiavi che rinunciando a mangiare il sale riuscivano a diventare così leggeri da volare fino alla patria sospirata. I visitatori sono invitati a prelevare parte di questo sale e a scioglierlo nell’acqua «a simboleggiare il dissolversi del dolore del passato».
Una menzione speciale spetta a Baida, video di Taus Makhacheva esposto all’interno di Palazzo Trinacria, che raccoglie i consensi unanimi degli spettatori più sensibili e attenti. Di difficile sintesi, il video mostra frammenti di una performance mai realizzata che si sarebbe dovuta svolgere durante la scorsa Biennale di Venezia. Una barca capovolta nella laguna e i corpi affioranti di alcuni performer diventano il pretesto per una narrazione ironica e cosciente delle specificità del linguaggio artistico, in grado però di produrre un inno alla sopravvivenza antiretorico ed energizzante.

JOHN GERRARD,  Farm (Council Bluffs, Iowa), 2015 Video simulation Dimensions variable Photo Courtesy: Thomas Dane Gallery, London and Simon Preston Gallery, New York.  Collection Bernhard Chwatal, Vienna
JOHN GERRARD, Farm (Council Bluffs, Iowa), 2015 Video simulation Dimensions variable Photo Courtesy: Thomas Dane Gallery, London and Simon Preston Gallery, New York. Collection Bernhard Chwatal, Vienna
TAUS MAKHACHEVA, Baida, 2018 Video installation Dimensions variable Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist
TAUS MAKHACHEVA, Baida, 2018 Video installation Dimensions variable Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist

City on Stage, terza e ultima sezione della biennale, vuole rendere omaggio alla complessità di Palermo andandone a sondare e riattivare alcuni dei luoghi pubblici dalle potenzialità inespresse. Tra gli obiettivi più ambiziosi c’è quello di coinvolgere il quartiere ZEN in un processo di progettazione condivisa a lungo termine, esperienza non ancora del tutto avviata nei giorni di inaugurazione della biennale. Le opere raccolte in questa sezione, dislocate in molteplici sedi, fanno tutte i conti con le tradizioni e con la storia recente palermitana. I MASBEDO con Protocollo no. 90/6 guadagnano i consensi di pubblico e critica, producendo una della opere più iconiche dell’intera Manifesta. All’interno dell’Archivio di Stato, nel quale decine di migliaia di volumi non inventariati formano una serie di fragilissime sculture di carta, gli artisti allestiscono un colossale e misterioso video che ritrae una marionetta di legno animata da mani invisibili. Camminando nella sala si scopre, quasi mimetizzato tra i volumi, un vecchio documento che testimonia lo stretto controllo esercitato dalle autorità costituite sulla vita e sulla ricerca del regista Vittorio De Seta, a causa della sua vicinanza al movimento comunista. Il pupo si rivela allora essere un’allegoria dell’artista che ricerca e pratica la libertà a prescindere dai vincoli imposti dai sistemi di potere.

Yuri Ancarani produce un doppio lavoro video dal notevole impatto, nel quale vengono messe a confronto due forme diversissime di elaborazione del trauma collettivo: quelle legate al movimento anticoloniale haitiano e quelle relative alle stragi di mafia.
Anche i principali eventi performativi, connotati da un alto gradiente di spettacolarità, rielaborano fino quasi a colonizzarli alcuni riti della tradizione palermitana. Matilde Cassani propone una celebrazione pirotecnica della cultura barocca della città e Marinella Senatore – ricorrendo a un format ormai piuttosto consolidato – inonda le strade del centro storico con una folla multiforme di giovani cittadini, performer e visitatori. Più complessa e raccolta è invece l’azione proposta della giovane Nora Turato che, alternando fragilità e grande energia, mette in scena un lungo monologo nel quale l’omaggio alle donas de fuera palermitane – donne al tempo perseguitate dall’inquisizione – si mescola al racconto intimo e alla rielaborazione di elementi critici della teoria femminista.

NORA TURATO I’m happy to own my implicit biases (malo mrkva, malo batina), 2018 Performance, mixed media installation Perfomance photo by: Francesco Bellina Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist
NORA TURATO I’m happy to own my implicit biases (malo mrkva, malo batina), 2018 Performance, mixed media installation Perfomance photo by: Francesco Bellina Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist

Una breve ma doverosa postilla va dedicata al fatto che in una manifestazione fondata su principi radicalmente postcoloniali si registri una pressoché totale e preoccupante assenza di progetti in grado di interagire con la memoria difficile e velenosa del colonialismo italiano. Tra i pochissimi a farlo, con l’intelligenza e l’ironia che sempre li contraddistingue, sono i Wu Ming i quali presentano Viva Menelicchi!, un mappatura della città di Palermo alla ricerca dei luoghi che recano ancora la memoria e le cicatrici dell’impresa coloniale.

È difficile e forse poco produttivo cercare di raccogliere in una formula univoca le impressioni scaturite dall’esperienza di questa biennale tanto delicata e anti spettacolare quanto fragile. Forse la grande protagonista è proprio la città di Palermo che messa sul palcoscenico lo conquista fino quasi a battere per bellezza, energia e senso profondo del reale molte delle opere, degli interventi e delle mostre che la attraversano. La speranza è che la comunità di artisti, curatori e operatori della cultura tornati con entusiasmo in Sicilia per lavorare a Manifesta possa da essa trarre la fiducia, il sostegno istituzionale ed economico in grado di sostenere esperienze di ricerca sul territorio a lungo termine. Se questo non dovesse accadere la biennale si ridurrebbe all’ennesima tappa di un turismo del contemporaneo che, terminata la festa, si dirige frettolosamente verso la meta successiva, lasciando che la città di Palermo torni nella sua drammatica condizione di periferia del sistema culturale.

PENG! COLLECTIVE Call-A-Spy, 2016 – ongoing Installation Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist
PENG! COLLECTIVE Call-A-Spy, 2016 – ongoing Installation Photo: Wolfgang Träger Photo Courtesy: Manifesta 12 Palermo and the artist