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Negli spazi della Fonderia Artistica Battaglia di Milano, è in corso fino al 18 maggio la mostra personale di Gianni Politi intitolata 2017, anno che è stato per l’artista importante per motivi personali e professionali.
La mostra è una sorta di autoritratto o di esplicita consapevolezza di autosufficienza: oltre al titolo, ci sono i suoi tatuaggi resi tridimensionali attraverso il bronzo (e giocoforza ingranditi), ci sono le sue ex tele che diventano camicie da uomo cucite da un sarto (che sembrano avere la taglia di Politi), ci sono altre sue vecchie tele che sono state forate al centro secondo forme astratte attraverso le quali emerge un’altra tela di vernice nera che fa da base a quella forata.
2017 è anche la riconferma e riprova di quello che è stato definito già in relazione al suo lavoro: si tratta spesso di un riciclo artistico, di un riutilizzo di resti, di un’ecologia del passato che non viene mai buttato via, ma ripreso e come ricalcificato per dare luce a nuove ossa. Anzi, questo gusto si esaspera nei confronti di ciò che contorna la pratica pittorica: bozzetti, schizzi, rimasugli sono talvolta più interessanti agli occhi di Politi rispetto alle opere finite. È lui stesso a dire: “Gli scarti astratti che giacevano spontaneamente sul pavimento, i foglietti usati come appoggio per i colori, le carte da spolvero, tutte quelle superfici su cui erano rimaste impronte, segni del tempo e dell’usura, mi piacevano di più delle opere alle pareti”.
E poi si aggiungono anche i suoi tatuaggi, che diventano poi i ganci su cui sono appese le camicie. Un biografismo autosufficiente, non più volto ad un nucleo famigliare come era successo nelle tele nate attorno alla figura del padre, ma come strabordante dal suo corpo, che diventa matrice delle camicie che gli vengono cucite addosso, ma anche delle sculture bronzee.
Può darsi sia questa una mostra ‘fisica’ per la forte presenza di cose epidermiche, o forse erogene, come i buchi neri che spaccano al centro le tele vive.