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Practices as an Intersection in a Fragile Environment — Intervista a Claudio Zecchi

[nemus_slider id=”73200″] — Claudio Zecchi è un curatore indipendente la cui ricerca è incentrata ad indagare la relazione tra arte e spazio pubblico. Dal 2014 porta avanti Practices as an Intersection in a Fragile Environment, piattaforma di dibattito itinerante tesa a comprendere, in uno stato di nomadismo culturale, nuove visioni e letture della sfera pubblica […]

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Claudio Zecchi è un curatore indipendente la cui ricerca è incentrata ad indagare la relazione tra arte e spazio pubblico.
Dal 2014 porta avanti Practices as an Intersection in a Fragile Environment, piattaforma di dibattito itinerante tesa a comprendere, in uno stato di nomadismo culturale, nuove visioni e letture della sfera pubblica analizzando il rapporto reciproco tra le pratiche – artistiche, curatoriali e istituzionali –, il territorio e le comunità locali. Il progetto ha preso avvio a Milano, presso la Fabbrica del Vapore, per poi spostarsi a New York ospitato da Residency Unlimited (2015), al New Art Exchange di Nottingham (2016) e infine a São Paulo all’interno del programma di ricerca offerto dal centro culturale PIVÔ (2017).
Da qualche settimana Zecchi si trova in residenza in Giappone, presso gli spazi di TOKAS – Tokyo Arts and Space, per sviluppare il quinto capitolo di questa ricerca.
> Performative practices – Supercommunity (Practice #5_Tokyo)

Di seguito un approfondimento col curatore —

ATP. Qual è il percorso che ti ha portato ad elaborare il progetto Practices as an Intersection in a Fragile Environment e quali sono gli obiettivi di questa piattaforma multidisciplinare?

Claudio Zecchi. Il mio percorso di curatela parte da un progetto di arte pubblica – Cantieri d’Arte / La Ville Ouverte – nel quale ho lavorato dal 2006 al 2013 assieme a Marco Trulli. Dopo circa sette anni, e con il cambio delle condizioni economiche globali che hanno condizionato non poco il precedente approccio al lavoro, nonché altre esperienze curatoriali come ad esempio la 16a edizione della Biennale del Mediterraneo (Errors allowed, Ancona, 2013) che ho avuto il piacere di co-curare con un gruppo di curatori internazionali (Charlotte Bank, Alessandro Castiglioni, Nadira Laggoune, Delphine Leccas, Slobodne Veze/Loose Associations (Nataša Bodroži, Ivana Meštrov) e Marco Trulli), ho sentito l’esigenza di cambiare spostando il precedente approccio, basato principalmente sulla commissione e la produzione di lavori nello spazio pubblico, verso una progettualità più “leggera”, discorsiva e prevalentemente di ricerca empirica fatta sul campo, decidendo di spostarmi io stesso nei diversi territori.

ATP. Potresti parlarci della tua metodologia di ricerca? In particolare, lavori in modo programmatico e quindi hai già deciso quanti e quali temi vuoi trattare e in base a questi scegli i territori in cui sviluppare queste indagini, oppure le tematiche che affronti emergono di volta in volta e sono legate alla città e alla comunità con cui andrai a lavorare?

CZ: Il grande tema che indago è sempre quello del rapporto tra arte e sfera pubblica, anche se il focus preciso lo capisco nel momento in cui sono nei territori, mettendomi in ascolto e osservando i luoghi, le dinamiche che ad essi sottendono e le pratiche dei professionisti con cui dialogo. Il progetto è sempre il risultato di mesi di conversazione in loco con artisti, curatori, ricercatori, istituzioni e comunità, con lo scopo di dissotterrare e incentivare la presenza di spazi di pensiero critico e potenziali outcome generati dal discorso stesso. Se vuoi una scusa perfetta per indagare quella che potremmo definire come l’economia delle relazioni.
Per questo motivo esiste una metodologia comune a tutti i capitoli finora affrontati ma non può esistere un format, un modello univoco. Questi vengono anzi ridiscussi di volta in volta cercando di rinegoziare i confini della pratica curatoriale e indagare nuovi linguaggi. Non è un caso che questo progetto, nei precedenti quattro capitoli, abbia affrontato tematiche diverse che si sono risolte, anche formalmente, in maniera sempre diversa.
Cerco sempre di non anticipare troppo la ricerca ma di lavorare il più possibile direttamente sul posto non vincolando le condizioni di partenza verso una direzione che possa generare scelte predeterminate, anche perché tutto quello che puoi pensare accada, in realtà non accade mai. Devi andare nelle città, ti devi dare del tempo, che è il tempo della ricerca, della scoperta, dello smarrimento, il tempo di dare forma alle cose e poi, se riesci, tiri fuori dei risultati.
In questo senso io sono un attivatore, lascio anche che il processo mi sfugga un po’ dalle mani proprio perché, come ti dicevo, non mi interessa lavorare su formati precostituiti. Mi prendo il rischio e la libertà di fallire. Per me questa è una cosa molto importante, dal punto di vista metodologico. Finora i quattro temi che ho trattato hanno anche avuto un’oggettivazione finale anche se questa non è necessariamente un’ossessione.
Questa è un’eventualità che chiaramente genera delle problematiche anche dal punto di vista del sostenimento economico del progetto, perché è evidente che quando non offri la certezza di un outcome per chi ti sostiene diventa complicato. Per fortuna chi lo ha fatto fino a questo momento (come la BJCEM sin dall’inizio, e più recentemente il network inglese UK Young Artists, o ancora Ramdom) l’ha fatto anche sulla scorta di un credito di fiducia nei miei confronti.

Chim Pom, Black Of Death, “So see you again tomorrow, too” 2016 Courtesy of the artist and MUJIN-TO Production, Tokyo, photoKenji Morita
Chim Pom, Black Of Death, “So see you again tomorrow, too” 2016 Courtesy of the artist and MUJIN-TO Production, Tokyo, photoKenji Morita

ATP. Ci puoi raccontare brevemente delle tappe passate di questa tua ricerca?

CZ: Il primo episodio di questa ricerca si è sviluppato a Milano presso la Fabbrica del Vapore vicino al quartiere Isola. In questo contesto ho indagato il rapporto tra arte e attivismo, attraverso una lecture performance dal titolo Rises and falls of art politic del duo di artisti croati Fokus Grupa; la proiezione del film The Infiltrator dell’artista palestinese Khaled Jarrar; una riflessione ad ampio respiro sul tema dello spazio urbano con il Gruppo A12 e la curatrice Francesca Guerisoli. Infine ho realizzato, in collaborazione col collettivo Isola Art Center, che all’epoca stava sviluppando un progetto dal titolo Isola Utopia, un tavolo di discussione con gli attivisti della Fabbrica occupata RiMaflow sul tema delle utopie concrete, coordinato da Bert Theis.
A New York invece ho fatto un ragionamento che si è tradotto in tre diverse panel discussions sui ruoli dell’artista, del curatore, delle istituzioni e sui modelli istituzionali. Queste hanno visto la partecipazione di Gabriela Albergaria, artista portoghese che allora viveva a NYC, e Andrea Nacciarriti artista italiano allora vincitore del premio NY e in residenza presso l’ISCP. Poi con Todd Shalom (Elastic City), Ayelet Aldouby (Xlerateart), Alice Mallet (curatrice indipendente) e Alessandro Facente (curatore indipendente presso Artists Alliance Inc.) abbiamo affrontato il tema del curatore; infine con Sebastien Sanz de Santamaria (co-fondatore di Residency Unlimited e co-fondatore di Rate my Artist Residency) Joy Glidden (manager culturale), Angelo Bellobono (fondatore di Atlasnow) e Marco Antonini (curatore indipendente e allora direttore di NURTUREart) abbiamo ragionato sul tema dei modelli istituzionali.
L’anno seguente, a Nottingham, mi sono concentrato sul tema del linguaggio lavorando per tre mesi con professionisti (artisti, curatori, direttori di istituzioni) e alcune piccole comunità di quartiere della città. Alla fine dei tre mesi mi sono reso conto che in queste conversazioni si ripetevano costantemente alcune parole. Ne ho deliberatamente selezionate tre – linguaggio, long vs short term e condivisione – attorno alle quali ho inventato un gioco con delle regole ben precise, chiedendo a tutte le persone con le quali avevo dialogato fino a quel momento di giocare nel corso di un evento pubblico che si è tenuto presso il New Art Exchange. Successivamente è stato anche pubblicato un libro dal titolo Public Sphere: Process and Practices realizzato insieme a Roberto Memoli.

Infine il progetto realizzato a São Paulo. Qui il tema non poteva che essere quello della città nelle sue coordinate architettoniche e urbanistiche. São Paulo è una città veramente complessa (come tutto il Brasile in questo momento), una città talmente presente che, come mi diceva Tuca Vieira, uno degli artisti che ho coinvolto, ovunque tu sia sei al centro, ne sei sempre circondato. Non ne puoi sfuggire e difficilmente riesci a collocarti. Questo la rende una città illeggibile che non può che essere restituita attraverso una visione disarticolata e frammentata. Come dice il titolo di questo capitolo, preso a prestito da una mostra di Mauro Restiffe del 2012 presso l’Instituto Moureira Salles di Rio de Janeiro São Paulo, Fora de Alcance (São Paulo, Out of reach), è una città imprendibile.
Così, ho deciso di restituire una città priva di certezze, fatta piuttosto d’eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze e controsensi. Per farlo ho lavorato con circa una ventina di professionisti tra artisti visivi, curatori, ricercatori urbanisti, architetti, giornalisti, collettivi, antropologi e sociologi producendo un bulletin pubblicato da Droste Effect in cui i vari interventi (foto, testi, manifesti ecc.) sono stati messi insieme come una specie di collage nello stesso ordine cronologico in cui mi sono arrivati.

Se nei primi due capitoli il titolo del progetto è stato Practices as an Intersection in a Fragile Environment e il nome della città che lo ha ospitato, il terzo e il quarto hanno preso due titoli diversi. Per me il titolo funge da grande cappello sotto il quale questa ricerca si sta concretizzando: si tratta di un titolo lungo, che non si risolve in una battuta, e che ti costringe a fermarti e rinegoziare la nozione di tempo, non più il tempo del consumo immediato, ma un tempo lungo che poi è quello proprio della ricerca. Un titolo così articolato ti costringe a leggere, è un modo per dire qualcosa sin dall’inizio, obbligandoti a ragionare sulle singole parole.

Gruppo A12, Swing, Installazione, Fuoriuso, Pescara, 2000, Courtesy the artist
Gruppo A12, Swing, Installazione, Fuoriuso, Pescara, 2000, Courtesy the artist

ATP. Ci puoi parlare di come lavori con gli artisti ma anche con le comunità locali che di volta in volta coinvolgi nella tua ricerca?

CZ: Una cosa fondamentale è che in questo progetto si parte sempre dalle pratiche e dai lavori degli artisti o degli altri professionisti con cui instauro delle dinamiche di dialogo e non c’è mai un ragionamento che parte in forma predeterminata dall’astrazione, dalla teoria. Come ti dicevo sono un attivatore…

ATP. Sei da poco arrivato a Tokyo per un nuovo episodio della tua ricerca. Cosa succederà nella capitale giapponese tra febbraio e marzo?

CZ: Sono arrivato da poco (inizio febbraio) a Tokyo, dove sarò ospite degli spazi di TOKAS – Tokyo Arts and Space per il programma interno di ricerca, ma ho subito cominciato a lavorare con gli artisti e le istituzioni locali.
Qui mi concentrerò sull’artista come generatore di processi di lavoro partecipati (che in alcuni casi diventano anche condivisi), molto sentiti soprattutto dopo il disastro di Fukoshima del marzo del 2011, benché non esista una linea di demarcazione così netta ma piuttosto un’atmosfera.
Gli artisti che ho finora coinvolto sono: Chim↑Pom, Tsubasa Kato, Ishu Han e Tetsuro Kano. In maniera, e con tempi completamente diversi, il loro lavoro genera, produce e richiede partecipazione. Altri artisti che ritengo interessanti e che vorrei coinvolgere in futuro, come ad esempio Takayuki Yamamoto, che attiva la partecipazione attraverso processi educativi sperimentali, vivono in questo momento all’estero.
Nel frattempo continuerò ad utilizzare il mio blog come strumento di documentazione e riflessione sulla mia ricerca qui a Tokyo, ma spero di poter pubblicare presto un ragionamento più strutturato o delle interviste.

Tsubasa Kato, Black Snake, Video, 2017, Courtesy MUJIN-TO Production and The Artist
Tsubasa Kato, Black Snake, Video, 2017, Courtesy MUJIN-TO Production and The Artist
Tuca Vieira, Atlas Fotografico, Mapa-indice, 2016, Photo Courtesy The Artist
Tuca Vieira, Atlas Fotografico, Mapa-indice, 2016, Photo Courtesy The Artist