Portare il reale – quello che in comune per esso s’intende, poiché chi potrebbe da ultimo provarne l’esistenza? – dal piano dell’accadere a quello del racconto: per darsi la libertà di una sua ricomposizione nel tempo, nello spazio, nelle relazioni, e così rendere più manifesti alcuni degli innumerevoli e personali processi costruttivi di significato che di continuo agiscono in noi. In questa sua prima personale italiana – ospitata fino al 31 dicembre a Casa Masaccio (San Giovanni Valdarno), da lei considerata come il progetto più intimo sin qui realizzato, Rosa Aiello (Hamilton, Canada, 1987) si prova quindi con il difficile esercizio di evocare lo scarto tra ciò che avviene e la sua esperienza.
Preminenti nel carattere eterogeneo delle opere sono la concretezza dei singoli elementi – per esempio delle lettere di porcellana, alcune castagne, un calzino, un giornale: salvo poi rivelare un sistema complesso di accezioni – e le ricorsività formali, veri e propri ritornelli come lo stesso titolo FATE PRESTO. Il rapporto dichiarato con la narrazione, la mostra è tangente al prologo del romanzo in fieri Calypso’s Way, rimanda a una scrittura riflessiva, in cui ogni aspetto diviene strumentale alla meditazione interna; si sente il sapore dello stream of consciousness nell’incedere espositivo fatto di rimandi, ellissi, citazioni, balbuzie, fissazioni (non sono a conoscenza di studi in proposito ma sarebbe interessante approfondire le eventuali corrispondenze tra il flusso di coscienza, in quanto forma più acuta della creatività e meno protetta dalle convenzioni, con il concetto di follia, che poi è la questione se il modo di pensare di ognuno, per via dell’estrema specificità e difficoltà di condivisione all’esterno, non potrebbe essere considerato “alienato” rispetto alle regole di pensiero della società).
A ciò si aggiunge una componente biografica, un’affettività che appartiene tanto ai ricordi del passato quanto a una curiosità antropologica. Il rapporto con l’Italia, di sembianza contraddittoria poiché modulato insieme da appartenenza ed estraneità, corrisponde all’essere l’artista originaria calabrese, con frequenti ritorni nel paese, ma avere ricevuto interamente l’educazione in Canada. Ecco anche l’importanza della traduzione, dei suoi slittamenti semantici. Il titolo che in inglese assume un significato vago e curioso[1] – mentre in origine è frase di varia provenienza: i manifesti pubblicitari di svendita piuttosto che l’appello de Il Mattino a seguito del terremoto del 1980 in Irpinia – i vari “quadrati magici” sul modello antico del Sator, distribuiti nelle varie stanze, in generale la continua attività interpretativa stimolata nello spettatore.
A questo riguardo, dell’interpretazione, mi pare che siano riscontrabili due livelli di massima. Uno si riferisce, e già vi si è accennato, alle categorie di senso tramite cui costruiamo i significati del reale; se ne mette in rilievo il carattere di necessità e di rischio, poiché esse ci servono e allo stesso momento siamo anche noi a “servirle” come, per intendersi, avviene nel caso dei miti, delle tradizioni, delle ideologie. L’altro è attinente alla ricerca dell’artista, all’uso di cose di poco conto, trovate per accidente o recuperate, al metterle insieme e spingerle verso un senso che non è certo più quello di partenza. È come se vi fosse un disvelamento della prassi poetica, un mostrarsi generoso dell’artista agli altri.
FATE PRESTO, superata una difficoltà iniziale di ricezione, è una mostra che esprime intensità, grazie a un’attitudine sincera e a una resa formale del tutto attinente. Così chi guarda e ne fa esperienza, dapprima mosso da curiosità, poi preso da immedesimazione, giunge infine a penetrare in una dimensione di intelligente e viva emotività.
[1] Fate come destino e Presto in riferimento ai movimenti della musica classica
Intervista con Rosa Aiello / Pubblicata a novembre 2017 in occasione della mostra FATE PRESTO