Claudia Santeroni h intervistato Simona Leggeri che ci racconta il perché di questa drastica decisione.
Claudia Santeroni: Simona, qualunque domanda, fatta prima di questa, sembrerebbe superflua, quindi ti chiedo brutalmente: come mai ALT chiude?
Simona Leggeri: Forse la risposta più immediata è che la cultura in Italia, se fatta da privati “normal people”, non può funzionare. I fattori sono diversi ma, alla fine, riconducono tutto a questo.
ALT è la visione di due imprenditori che pensavano che la loro passione per l’arte contemporanea e la fortuna di avere disponibilità economiche per permettersela, fosse da mettere a fattor comune, da mostrare a chi non avrebbe mai preso un aereo per volare a New York a vedere il MoMA o semplicemente non avrebbe mai pensato di visitare la GAMeC. La convinzione era, ed è, che i più non si avvicinano al contemporaneo, in nessuna delle sue forme, solo perché non gli vengono dati gli strumenti corretti per comprenderlo. I media di oggi, ma anche la scuola, non aiutano sicuramente, ma nemmeno le istituzioni artistiche o la critica che parlano solo ad un pubblico specifico e interessato.
ALT era un posto dove venivi coinvolto dall’arte, ne facevi parte, cenavi accanto all’orso di McCarthy o ascoltavi una conferenza tra gli stendardi di Cattelan e della Beercroft, i bambini facevano la didattica con le lettere di Boetti e merenda seduti sul tappeto di Mastrovito. Solo un privato che vive e conosce le sue opere permette ad altri di “usarle” così, e questo ha sicuramente incuriosito e avvicinato diverse persone alla nostra collezione e di conseguenza al contemporaneo.
I sogni però, troppo spesso, si infrangono su una realtà diversa, soprattutto quando le possibilità economiche si riducono notevolmente.
Per problematiche societarie i “muri” di ALT non erano più nella nostra completa disponibilità e riacquistare l’immobile era diventato un onere troppo gravoso per farlo da soli, soprattutto in virtù del fatto che lo Spazio, pur svolgendo un palese servizio pubblico, non è mai stato riconosciuto tale dal Comune con il quale si sarebbe dovuta firmare una convenzione d’uso all’apertura nel 2009. Non graditi (ma sinceramente non so per quale motivo), nonostante il tribunale avesse obbligato entrambi a un accordo e nonostante i nostri continui solleciti, il Comune ha nicchiato e ci ha chiesto la cifra esorbitante di € 600.000 per riscattarlo dalla funzione pubblica e farne quello che volevamo, anche un supermercato, per assurdo.
Avevamo trovato altri partner, visionari a loro volta, ma con questa incertezza, nessuno se l’è sentita di rischiare e investire soldi ed energia.
CS: La famiglia Leggeri colleziona da decenni. Avete accumulato centinaia di opere, tra cui alcune veramente voluminose, di alcuni degli artisti contemporanei più significativi. Dove verranno collocati ora i lavori?
SL: Molte delle opere al momento della scelta si trovavano a Roma per un’esposizione dal titolo da “Duchamp a Cattelan” realizzata nella splendida e prestigiosa cornice del Palatino; una mostra voluta da Alberto Fiz e dal Soprintendente Speciale per l’area archeologica di Roma Francesco Prosperetti, nella quale si voleva creare un connubio tra l’arte antica e quella contemporanea. Il Soprintendente ha perfettamente colto lo spirito dell’ALT, quello di avvicinare mondi così diversi tra loro: era sorprendente vedere lo stupore delle persone che entrando nello Stadio Palatino si imbattevano nella “Casa di Buster Keaton” (After Love n.d.r.) dei Vedovamazzei o nel luogo multi confessionale di Pistoletto.
Al momento, quindi, molte opere sono tornate non solo dal Museo ma anche da Roma e dai diversi prestiti e al momento sono ammassate a casa. Qualche grande installazione, grazie soprattutto all’esposizione di Roma, è stata richiesta da qualche importante Museo Italiano e stiamo valutandone dei comodati d’uso.
CS: Difficile pensare te e tuo padre, l’architetto Tullio Leggeri, lontani dall’arte: avete in mente di dedicarvi ad un nuovo progetto?
SL: Lontani dall’arte sarà impossibile, ma non so come e con quali sviluppi certi.
L’installazione al Palatino ci ha proiettato verso una nuova visione di ALT, dove il dialogo tra Arte e Territorio si è spostato dagli spazi fisici del Museo andando oltre. Stiamo lavorando su quest’idea, ma non aggiungo altro perché è in fase embrionale.
Continueremo, ovviamente, a prestare le opere e l’Associazione continuerà soprattutto nel campo della progettazione e della installazione delle opere d’arte, come è già stato fatto per il Teatro di Burri in Corso Sempione qualche anno fa e come stiamo facendo per la nuova opera di Pascal Marthin Tayou che verrà installata a City Life a Milano. Vorremmo, inoltre, mettere a reddito l’esperienza fatta in questi anni con la gestione della collezione e delle opere, proponendo un servizio soprattutto ai collezionisti compulsivi come mio padre, che archiviano poco e che si trovano ad un certo punto ad avere necessità di mettere ordine tra carte ed opere.
CS: Indipendentemente da tutto, il fatto che ALT chiuda è una perdita, ma la storia di questi anni è stata densa di eventi e appuntamenti. Ci racconteresti il ricordo più bello che hai di quanto è accaduto in questo spazio?
SL: Sceglierne uno è difficile. Il più emozionante è stato il giorno dell’inaugurazione con 3.000 persone che hanno visitato lo spazio nell’arco di una giornata. Ricordo gli occhi sorridenti di mio padre e lo stupore di chi non avrebbe mai pensato che il cementificio nascondesse un posto così magico.
Ma penso anche ai bambini che venivano per la didattica e poi trascinavano i genitori la settimana dopo per vedere l’ “Orso che fa la cacca” (n.d.r Paul Mc Charty), la balena (n.d.r. Claudia Losi), il fungo gigante (n.d.r. Carsten Holler) e altri ancora.
Ogni giorno ad ALT era speciale, perché lo spazio ogni giorno dava un emozione diversa, a seconda del tempo e dei colori che entravano dai lucernari, delle persone che lo visitavano, estasiate o inorridite, dagli allestimenti chiassosi o eleganti degli eventi privati, dalla musica che veniva suonata, dai bambini che raccontavano le loro opere.
Ci mancherà. Quello che è certo è che, qualunque cosa accada a quello spazio meraviglioso, nessuno ne possederà mai l’anima che noi siamo riusciti a scovarne dietro i muri impolverati del cementificio.