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Spazio, pensiero, progetto. Una conversazione con Giuseppe Pietroniro 

“Lo studio è la parte fisica del mio pensiero, il luogo in cui tutti i pensieri, alla fine, 
si solidificano, acquisendo una forma. Lo studio diventa un processo,
 continuo, dove elaboro e progetto qualsiasi cosa. È come un grande monitor, su cui sono raccolte delle informazioni che via via saltano fuori”. Giuseppe Pietroniro

La pratica di Giuseppe Pietroniro si focalizza sulla ricerca attraverso lo spazio e all’interno di esso. L’utilizzo di materiali e tecniche disparate ha consentito all’artista di non legarsi in maniera esclusiva ad un unico medium, per poter cristallizzare una pratica che prende avvio dal processo e dal progetto, aprendosi a molteplici prospettive. In occasione della presentazione al MAXXI di Roma della monografia edita da Silvana e curata da Giuliana Benassi (13 marzo, 2025), abbiamo intervistato Pietroniro per farci raccontare in modo approfondito della sua ricerca sullo spazio e del valore che la scenografia e la ricerca possiedono nella sua pratica sperimentale. 

Angelica Gatto: Cominciamo dall’inizio. Ho sempre vissuto con una certa apprensione le interviste; cerco sempre di prefigurarmele, di pensare a quell’incastro perfetto di domande da fare: spregiudicate? indisponenti? analitiche? Tendenzialmente, fallisco nelle aspettative che mi prefiguro. Forse perché le domande perfette non esistono. Se sposto la mia prospettiva, e assumo quella della lettrice, mi sembra che accada tutto il contrario di ciò che agogno: l’intervistatrice mi sta tradendo, ostenta le sue abilità di interrogazione, mentre io desidero leggere un non so che di confidenziale e autentico. L’intervista è qualcosa di intimo, uno spazio liminale.
Chi è Giuseppe Pietroniro? Da quale punto partiresti per raccontarmi di te, della tua pratica artistica – ammesso che le due, l’arte e la vita, siano per te due aspetti distinti dell’esistere. 

Giuseppe Pietroniro: Pensando alla sensazione di cui parli in questa tua prima domanda – l’incertezza, la difficoltà – potrei risponderti a mia volta con un quesito: cosa significa definirsi? Sono gli altri che poi, in fondo, ti definiscono, attraverso ciò che sei, ciò che fai. Una definizione potrebbe proprio consistere in questo; definirsi è un’espressione linguistica o simbolica utilizzata per individuare un concetto. Vivo all’interno di un contesto specifico, faccio determinate cose in dialogo con quel contesto, al cui interno accade ciò che ha a che fare con l’arte, e l’arte stessa. Mi muovo in questo contesto e sono esattamente ciò che faccio e questi due aspetti – l’arte e la vita – sono la faccia della stessa medaglia. Non è possibile che io possa essere separato e distante dal mio processo, vivo costantemente ciò che faccio, e la riflessione sul lavoro è sempre improntata al mio quotidiano, perché fa parte di esso. È un percorso di pensiero l’impianto della mia pratica – avendo alle spalle un linguaggio che definirei come la mia architettura di lavoro – le idee possono arrivare in qualsiasi momento della giornata, mentre sto facendo altro, per esempio. L’idea arriva e, successivamente, trova uno spazio per svilupparsi trasformandosi in qualcos’altro. Non mi ritengo un impiegato dell’arte. Vivo costantemente la mia esistenza di artista, a tal punto che lo studio diventa un’estensione del pensiero, un’estensione fisica del mio pensiero. C’è una cosa che mi rassicura, alle volte, cioè il fatto di ritenermi un po’ nomade, di non avere un luogo di appartenenza, di essere sempre esterno a qualcosa; che poi, guarda caso, il lavoro che faccio è un lavoro all’interno del quale ciò che conta è il punto di vista; vengo dagli studi di scenografia e per me l’idea rinascimentale del punto d’osservazione rimane un aspetto centrale della modalità di osservare. Questa non appartenenza, mi fa sempre assumere un punto di vista privilegiato, dall’esterno, capace di darti un distacco attraverso cui poter organizzare la tua vita, e dunque l’arte.  Forse non è un caso che una mostra come “Le tribù dell’arte” di Achille Bonito Oliva abbia avuto su di me un impatto forte, formandomi nella concezione di uno spazio mobile, un concetto su cui ho realizzato una serie di lavori, per esempio “Relax ?” (2002), un modulo abitativo mobile. 

Risonanza, 2011, 500 x 200 cm, acciaio spazzolato e legno, Fondazione Merz, Torino, Courtesy Pietro Faruffini, ph Simona Cupoli
Relax_, 2002, 120 x 100 x 90 cm, resina, tecnica mista e video, Courtesy Giampaolo Abbondio, ph Archivio Pietroniro

AG: Ci siamo incontrati la prima volta nel tuo studio qualche tempo fa, credo siano trascorsi un paio di anni. Lo ricordo come uno spazio di vita in cui il tempo ha sedimentato un po’ ovunque, come del resto è consueto che accada. Il tuo studio è uno spazio di vita, molto organico, hai le tue cose lì.  Come in una grande centrifuga, bozzetti, progetti, disegni, maquettes, installazioni, si avvicendano sistematicamente, ma senza un preciso intento espositivo, cronologico. O forse mi sbaglio?

GP: Lo studio è la parte fisica del mio pensiero, il luogo in cui tutti i pensieri, alla fine, si solidificano, acquisendo una forma. Lo studio diventa un processo, continuo, dove elaboro e progetto qualsiasi cosa. È come un grande monitor, su cui sono raccolte delle informazioni che via via saltano fuori. La presenza di bozzetti, progetti, disegni e maquettes rappresenta una testimonianza del mio processo artistico e di riflessione. E si configura come una costante della mia processualità.
Lo studio è anche il luogo dell’ozio: l’ozio è una parte creativa; l’ozio e l’errore sono due aspetti fondamentali del mio processo. Quell’ordine di cui parli, che parte dall’entropia, genera un equilibrio, tanto che lo studio, per me, arriva a replicare esattamente questo processo entropico, consentendomi, al tempo stesso, di ritrovare l’ordine nei pensieri e nelle cose quando, tutto, al suo interno, è processato, affinando così l’osservazione.

AG: Mi ricordo che la mia prima impressione fu, in quell’ambiente così carico ma severamente ordinato, di un caos razionale e lucido. In quel momento eri alle prese con alcune tele alle quali avevi lavorato negli ultimi anni, e il catalogo, di cui parleremo più avanti, era ancora in fase di elaborazione. Mi sembra quasi di poter intravedere una relazione molto stretta tra questa dimensione spaziale e un certo peso-valore che lo spazio possiede nel tuo lavoro, ma non come unità di misura data.  In alcune serie di lavori, per esempio, le architetture spontanee e la dimensione dell’abitare sono qualcosa che sembra avere una linea di ricerca e una semantica ben precisi. Mi racconteresti come sono nati questi segmenti di lavori? Da dove è partita, per poi svilupparsi, la tua riflessione?

GP: La prima immagine che compare nel mio libro è un disegno del 1988; credo che richiami l’educazione avuta al liceo artistico. Negli anni del liceo, alcuni docenti avevano impostato parte della lezione sul disegno architettonico contemporaneo. Mi sento molto vicino a quel modo di leggere la realtà e lo spazio, è una cosa che mi è rimasta di quegli anni di formazione giovanili. Mi interessano i volumi. L’idea di questo processo nasce dal non avere spazi a disposizione per articolare, nello spazio, il pensiero, e quindi di dovermeli costruire, di immaginare delle installazioni, degli ambienti, in dialogo con l’interno, ma anche con la natura. I modellini nascono da questa esigenza e da un altro aspetto, molto importante, che è quello ludico. Questo mi dà la certezza di poter pensare in una certa direzione, mi dà una direttrice di pensiero. L’aspetto ludico e il senso di perdita di controllo – quando segui più l’istinto che la ragione – è ciò che un po’ guida l’artista nel momento creativo. Non si può controllare tutto, nel momento in cui si perde il controllo si entra in dialogo con un’altra parte di sé, con l’inconscio. L’idea di immaginare uno spazio come un teatro è ciò che più mi affascina. Ho iniziato a conoscere Roma dai suoi strati storici, dalle architetture che si vanno a fondere in tempi diversi. Roma è una quinta completa, lo dimostrano le facciate delle Chiese. Frequentare questa città ha condizionato la mia riflessione sullo spazio, tempo e immagine. Il desiderio di realizzare ciò che fondamentalmente si desidera avere. Dal mio punto di vista, l’aspetto scultoreo è caratterizzante del nostro quotidiano. Viviamo dentro delle sculture: un palazzo, una casa, sono delle sculture abitate. Tutto questo ha caratterizzato e caratterizza il mio modo di percepire lo spazio e di disegnarlo. I modelli che hai visto, li immaginavo, e questo lo facevo pensando a dei grandi spazi – ne ho prodotti talmente tanti che alla fine è diventato un corpo di lavoro, come una partitura musicale: capace di emettere un silenzio meraviglioso, assordante, e di diventare un paesaggio. La pittura è arrivata dopo una mostra fatta al MACRO (“È come se nulla fosse”) nel 2015, a cura di Costantino D’Orazio. In quella occasione, ho realizzato un intervento installativo geometrico sulle pareti, in uno spazio molto grande. La conseguenza, nello specifico, di quel processo di lavoro si è trasformata in una nuova esperienza, indagando la pratica della pittura come medium con l’idea di rappresentare spazi prospettici sovvertiti, nel tentativo di costruire decostruendo. 

AG: Se dovessi, incautamente, dare una definizione chiara e univoca della tua ricerca, credo che potrei incontrare alcune difficoltà. Possiedo una certa perplessità per la tendenza, più o meno diffusa, a chiudere qualcosa entro certi stilemi, categorie, marcature di pensiero. Mi sembra che possa togliere la libertà del pensiero – a chi scrive – e la libertà di smentire qualcosa fatto in precedenza ha chi “fa” arte. Come ti definiresti? 

GP: L’utilizzo di diversi materiali, nella mia ricerca, è strettamente legato alla necessità, contestuale, di impiegare un certo materiale che accompagni la mia sperimentazione su cosa sia un contesto spaziale, e su ciò che accade nello spazio. Ci sono diversi passaggi, tutti interconnessi e consequenziali. Tutti gli elementi che utilizzo sono funzionali. Mi definirei come un direttore d’orchestra che, nella sua profonda conoscenza della musica e della composizione, durante il concerto, decide come variare, mantenendo però la stessa radice testuale. Il direttore d’orchestra deve coordinare tutti gli strumenti, metterli insieme, così come un bravo cuoco mette insieme i vari ingredienti di una pietanza. C’è una figura, però, che mi seduce ancora di più, che è quella del prestigiatore. L’artista è un prestigiatore, e un grande bugiardo, con una frase che rubo a De Dominicis. Abbiamo delle visioni, creiamo opere che sono frutto della nostra immaginazione, qualcosa di molto distante dalla realtà ma in sintonia con la nostra realtà di artisti. Nel sapere di essere un prestigiatore, l’artista sa anche di essere un grande illusionista. Se l’arte non è mistero, non sorprende, mi chiedo quale sia la sua funzione. Penso che l’arte – che per me non possiede soltanto la funzione di informare, ma anche, e soprattutto, la capacità di sedurre – in questo momento abbia perso il suo potere immaginativo e immaginifico. Non so se questo posizionamento derivi da un mio romanticismo, e dal sentirmi, in fondo, ancora legato al Rinascimento. Percepire che qualcosa ci attrae, genera una grossa magia. Mi viene in mente appunto Magritte, un grande prestigiatore che ha sabotato tutto, illudendoci.  

Segno, 2011, Ø 220 cm, vetroresina, Courtesy Galleria Cardi, Milano, ph Simona Cupoli
Bilboard, 2003, 120 x 180 cm, C-print montata su alluminio, Courtesy Conzato-Ronchi, ph Luigi Di Crasto

AG: Il tuo catalogo, edito da Silvana e curato da Giuliana Benassi, racconta quasi trent’anni di ricerca. È chiaro, sfogliandolo, che sia nato da un dialogo molto stretto con la curatrice – ma credo di poter dire, anche da un rapporto di continuità con tutti coloro che hanno redatto i loro contributi critici. Mi sembra che questa dinamica – corale, in ascolto, plurivoca – ti sia totalmente congeniale. Non so, credo sia un’impressione istintiva, nata dalle nostre conversazioni sporadiche. Com’è stato lavorare a un catalogo così denso? 

GP: Riconoscersi in una comunità – artistica, di amici – significa conoscere sé stessi, rivedersi. Genera una forza individuale, una resistenza, nell’ambito della quale il racconto del fallimento, dell’errore, e non del successo, diventa salvifico. Attraversare la città, farlo insieme, è attraversare il tempo, soprattutto quando uscire da questi tempi difficili è diventata cosa non semplice. È anche una spinta a proseguire nel lavoro artistico, è energia che ricarica. Il libro racconta parte del mio lavoro prendendo avvio da una parola chiave, lo spazio. Lo spazio dialoga con il tempo e il tempo regola il contesto. È un libro concepito come spazio, e che ha col tempo lo stesso rapporto che possiede la comunità artistica a cui sento di appartenere, nel suo passaggio attraverso la città: attraversa il tempo, in qualche modo gli resiste. Il libro non segue un andamento cronologico, ma è stato, piuttosto, concepito pensando a dei film, come “Pulp Fiction” o “Natural Born Killers”, e al loro montaggio. Ho pensato quindi al tempo, come a un tempo dilatato, che mi consentisse di costruire un dialogo con gli autori, a partire da un determinato progetto. Il libro fa un po’ il punto, è un raccordo non soltanto di ciò che hai fatto, ma anche dei pensieri da cui sei partito. Vederlo al completo mi ha fatto comprendere meglio il mio punto di vista sul lavoro e il mio personale rapporto col tempo, un tempo non cronologico ma espanso, in cui tutto ciò che ho fatto rappresenta vari momenti collegati tra loro. È un libro aperto.   

AG: Cito un passaggio del testo di Giuliana Benassi in apertura al catalogo: “Ettore Spalletti e Joseph Kosuth sono stati i due artisti che Pietroniro ha frequentato e presso i quali si è formato, tra il liceo e gli anni successivi. Entrambi vicini a una riflessione di carattere metafisico, seppur approdati a traguardi diversi, hanno in qualche modo segnato il pensiero dell’artista favorendo una vocazione all’essenzialità del colore e della forma oltre che alla logica tautologica. Se però volessimo individuare un “maestro spirituale del Novecento” di Pietroniro, allora dovremmo menzionare René Magritte, le saboteur tranquille, per la corrispondenza tra dubbio e realtà che caratterizza le sue opere”. Spalletti, Kosuth, Magritte, c’è un filo rosso che li lega, nella tua memoria?

GP: La riflessione di Kosuth sulla realtà per me è stata molto importante; lui parlava sempre di realtà, della capacità, fondamentale per un artista, di restituire la propria realtà. Spalletti, ancor prima, mi faceva disegnare come una foglia si attaccasse al gambo, quindi non tanto disegnare una natura morta, quanto piuttosto osservare il dettaglio, anche infinitesimale. “God is in the details”, come ripeteva spesso Kosuth. Non c’è alcuna possibilità di essere approssimativi, quando ti esponi sì dettagliato, perché nel momento in cui esponi l’opera esponi te stesso. Kosuth mi ha insegnato la capacità di concentrazione sulla lettura della storia e del contesto, e soprattutto una cosa: di non correre. Guarda caso, Spalletti mi faceva fare dei disegni con una matita sottilissima, con un segno quasi impercettibile, nel tentativo di rallentare l’immagine. Due contesti diversi, due esperienze estetiche diverse, mi hanno insegnato la stessa cosa: stare attento ai dettagli, al pensiero, alla riflessione. Magritte è stato il primo a sabotare l’idea di immagine e linguaggio, attivando immediatamente il processo di riflessione. “Ceci n’est pas une pipe” di Magritte, per esempio, mi fa pensare a quando Kosuth diceva di guardare bene la realtà, per poi trasformarla. Magritte ha captato in modo analitico, preciso, un momento, uno stralcio di realtà, poi trasposta. 

AG: Cominciamo di nuovo dall’inizio. Se dovessi scegliere tre opere, o tre progetti, per raccontare del tuo lavoro, quali sceglieresti? 

GP: Il lavoro fotografico, iniziato nel 1999, mi ha connotato; è stato il primo lavoro in cui ho messo in scena lo spazio, e il vuoto. Un altro lavoro è “IN-Stability” (2006), le pareti a dondolo, perché è stato un lavoro dettato da un’urgenza e una necessità, anche personali. Sentivo molto forte quella instabilità che poi avrebbe portato al 2008, al crash finanziario. Infine la roulotte, “Relax?” (2002), il primo lavoro in cui ho pensato alla pittura senza dipingere, ispirato a Roma e a Giorgio De Chirico. Quando ho visto il catalogo completo, mi sono letto, e ho visto in “Relax?” un lavoro che mi caratterizza in quell’essenza nomadica di cui parlavamo all’inizio. Un nomadismo di pensiero, che non mi fa mai stare fermo. 

Cover: Consolle, 2011, 210 x 110 cm, legno, argento e stampa fotografica, Courtesy Galleria Cardi, ph Roberto Apa

IN_Stability, 2021, 350 x 250 x 10 cm, acciaio cromato, Courtesy Archivio Pietroniro, ph Fabrizia Basile