Ogni volta che salgo le scale di Palazzo Vizzani, sede di Alchemilla, mi sorprende un pensiero ricorrente: la sensazione di abbandonare il ritmo frenetico della città per entrare in una dimensione più intima e sospesa. Pur trovandosi nel cuore del centro storico bolognese, con il porticato che si affaccia sulla strada, il palazzo sembra chiudere fuori il rumore urbano. I suoni caotici della città svaniscono improvvisamente, lasciando spazio agli stucchi, agli affreschi e alle pareti arabescate. In un contesto così fortemente connotato è difficile immaginare una mostra di fotografia, eppure l’allestimento di Moraduccio (fotografo + soggetto) – visitabile fino al 21 dicembre – di Alessandro Trapezio (La Spezia, 1981. vive e lavora tra Bologna e la Lunigiana) e Italo Zuffi (Imola, 1969. Vive e lavora a Milano), curata da Antonio Grulli, riesce non solo a inserirsi con coerenza, ma anche ad amplificare la tensione narrativa delle immagini. Questi scatti, finora inediti, nascono da una collaborazione iniziata nel febbraio 2014 e fissata nel 2020 con la realizzazione di un libro d’artista, numerato e firmato in 100 copie. Il progetto è ancorato al corso del fiume Santerno, nello scenario dell’Appennino Tosco-Romagnolo tra Castel del Rio e Moraduccio, celebrando così un territorio caro agli artisti e al curatore. Se la città rappresenta il dominio dell’uomo sulla natura, l’Appennino restituisce l’immagine opposta, ovvero quella di un paesaggio che accoglie l’umano, ma al contempo lo supera, lo ingloba, lo ricorda come passeggero. Il lavoro cattura questa duplicità: le immagini non celebrano né l’idillio né il dramma della natura, ma la raccontano nella sua essenza mutevole, sfuggente, a tratti quasi indifferente alla presenza umana. L’idea iniziale nasce dalla volontà condivisa di realizzare dei ritratti fotografici di Zuffi scattati da Trapezio, eppure il progetto ha assunto una diversa connotazione in fase di realizzazione: non si tratta più di pura documentazione, ma di un atto di mediazione. Un incontro con il paesaggio e con l’obbiettivo fotografico che coglie l’effimero passaggio di un corpo diluito nella sua presenza.
C’è un tempo geologico che sovrasta quello umano e che resta insondabile nell’incompiutezza di un gesto di cui vediamo solo un frammento, come un fiore portato alle labbra, una mano che si appoggia alla terra, un passo che sfiora la roccia. Ma il tempo non è confinato nelle immagini; esso vive anche fuori di esse, condensato e stratificato nei dieci anni trascorsi tra quella giornata di scatti e il presente. È un “tempo proprio”, come lo definisce Trapezio, un tempo che non si limita a documentare l’istante, ma che si sedimenta come memoria e riflessione, attraversando lo spazio creativo, emotivo e relazionale dei due artisti. Il lavoro sposta quindi il baricentro dal prodotto finale al processo, che si nutre di attese e può deviare il suo percorso come un fiume. Ed è proprio il fiume e l’acqua che vi scorre, come irrequieta, a raccontare la sua fuga verso valle quasi in previsione di un evento imminente. Questo flusso incessante non è mai lineare: s’infrange, ribolle, s’insinua tra gli anfratti delle rocce, trascinando con sé frammenti di paesaggio, erodendo i contorni, rimodellando senza tregua quel letto antico. Attorno vi si abbarbicano le radici dei castagni e i tronchi, ricurvi e segnati, raccontano anch’essi una lotta contro la gravità, il vento e la corrente. È come se questi alberi cercassero di proteggere chiunque osi addentrarsi nelle insenature rocciose, porgendo un riparo che si offre come un respiro nella vertigine di una natura che domina. Le pose involontarie di Italo Zuffi invece sembrano evocare più una partecipazione silenziosa che una narrazione personale. Non c’è un racconto da seguire: si tratta di estratti, stralci di un ecosistema in cui il corpo si muove senza mai risultarne protagonista. Piuttosto, sono i corpi che si muovono nei vasti spazi delle sale espositive, circondati dalle immagini, espanse ad una scala che le rende nettamente più avvolgenti. Questa dilatazione visiva comporta per lo spettatore una vera e propria immersione che amplifica l’intensità delle fotografie, mettendo in evidenza non solo la componente performativa che le ha generate, ma anche la profondità dell’interazione con la natura. Ogni scatto è così un atto di resistenza alla linearità della storia e una testimonianza di un paesaggio che non appartiene all’uomo, ma che questi, con il suo corpo, sa attraversare e attraversarsi. E mentre la città resta fuori, con i suoi rumori e la sua fretta, il paesaggio dell’Appennino si offre in un silenzio eloquente, come una cartografia emotiva, una mappa di ciò che siamo e di ciò che potremmo diventare. È la verità di un incontro che è anche – in questo caso, soprattutto – un ritorno.