Conversazioni con i Designer di Oggi
“Storie di designer” è una rubrica di interviste nata con l’obiettivo di dare spazio e visibilità ai giovani talenti del mondo del design. In un’epoca in cui la creatività si intreccia con le nuove tecnologie e le sfide globali, i giovani designer sono protagonisti di un cambiamento culturale e visivo che merita di essere raccontato. Attraverso queste interviste vogliamo esplorare le storie, le ispirazioni e le visioni di chi sta plasmando il futuro del design. Ogni intervista è un viaggio nel percorso formativo e professionale di questi creativi, scoprendo le influenze, i progetti e le sfide che hanno affrontato lungo il loro cammino.
L’obiettivo della rubrica è non solo quello di far emergere nuovi volti, ma anche di creare un dialogo tra studenti, le nuove generazioni di designer e il pubblico, offrendo uno spazio di confronto, riflessione e condivisione. Il design non è solo una questione estetica, ma è un linguaggio potente capace di raccontare idee, culture e prospettive uniche.
Seguiteci in questo percorso alla scoperta delle voci che stanno dando forma al domani. “Storie di designer” è una finestra aperta sul futuro del design, vista attraverso gli occhi di chi, con passione e innovazione, sta riscrivendo le regole del gioco.
Sara Benaglia: Chi è Cristina Celestino? Com’è nata la tua passione per il design? Come ti sei formata?
Cristina Celestino: Nasco in Friuli, un territorio di confine, una terra segnata dal lavoro e dalla natura dirompente. Sicuramente mi porto dentro i segni di questa terra, sia a livello emotivo e valoriale, che a livello estetico. Un professore illuminato al liceo mi aprì gli occhi sulla storia dell’architettura, da lì la scelta di studiare allo IUAV: la passione per il design è nata poi un po’ da autodidatta, sommando una curiosità sfrenata per le cose e una dedizione totale alla pratica della ricerca, all’amore che nutro per la materia, le cromìe e le geometrie.
SB: I tuoi progetti di design sono eruditi, lasciano trasparire un metodo di ricerca meticoloso e il risultato è un’estetica impeccabile e riconoscibile. Come hai strutturato il tuo approccio di indagine concettuale e materiale negli anni fino a raggiungere il rigore analitico che ti caratterizza?
CC: Leggo, studio e vedo moltissime cose. Non sempre il percorso progettuale si manifesta in maniera così chiara ed immediata, sono piuttosto le lunghe sedimentazioni a portare a risultati che spesso non intravvedo immediatamente. Potrei dire che una mia caratteristica è quella della trasversalità, della messa in discussione delle funzioni e delle estetiche, andando a creare dei piccoli corto circuiti sensoriali.
SB: Come ti relazioni con lo spazio quando inizi un progetto di design di interni? Ma soprattutto come scegli i materiali con cui operare? Ci sono elementi che non escludi mai da un tuo schema di lavoro?
CC: Una delle prime pratiche fondamentali è quello dell’ascolto: ascolto del luogo, inteso come storia dell’edificio e del territorio, e ascolto dell’immaginario e delle esigenze del cliente. Ritengo che questo processo sia del tutto naturale all’interno di una dinamica relazionale destinata a consolidarsi e a crescere nel tempo. I materiali e i colori si definiscono lungo il processo progettuale. Un buon esempio di quello che sto dicendo è un appartamento che abbiamo disegnato a Roma l’anno scorso, dove abbiamo dovuto tenere conto del peso di una certa aura romana, sommata all’anima nordica e ‘hygge’ dei proprietari. La casa manifesta molte cose diverse ma sopra ogni cosa esprime un equilibrio fra le diverse anime.
SB: La storia dei luoghi e la tradizione hanno un peso importante nelle tue scelte stilistiche e operative. In che modo il passato può essere reso contemporaneo? Te lo chiedo pensando allo spazio Pianca o al lavoro eccezionale che hai realizzato per Fornace Brioni.
CC: La nostra presenza difficilmente prescinde dal nostro passato. È per me un dato di fatto dover continuamente riprendere in mano segni appartenenti a momenti che ci hanno preceduto. Da li, però, il lavoro prende spesso pieghe più diverse, dal ribaltamento dei contenuti a elaborate rivisitazioni di estetiche. Il lavoro fatto con Fornace Brioni è stato proprio all’insegna di questo: abbiamo recuperato segni e codici del passato, appartenenti a architetture storiche presenti sul territorio e ispirandoci al mondo vegetale, intraprendendo una rilettura colta della storia del prodotto per esplorarne le potenzialità estetiche, liberandolo dalle connotazioni più retoriche e valorizzandone la forte e unica identità. Evocando il fascino dell’eredità rinascimentale del cotto, abbiamo lavorato in modo innovativo su geometrie, bassorilievi, dimensioni e combinazioni di formati, esplorando quel sottile confine che trasforma l’artigianato in design.
SB: Che relazione c’è tra canone concettuale e decorazione nel tuo lavoro?
CC: Trovo che il senso del progetto stia proprio nella perpetua relazione fra questi due ambiti, strettamente connessi e pertanto consequenziali. A volte è il concetto a precedere il segno artistico, ma in altri casi è l’intuizione di un decoro a scatenare la narrativa dell’oggetto.
SB: Mi piacerebbe saperne di più anche del tuo approccio al design di prodotto. Hai lavorato a lampade, tessili, arredi, accessori e superfici per pavimenti e pareti. Forse è soprattutto in queste ultime, ma anche in arredi come Parterre (2024), che emerge un tuo rapporto privilegiato con la geometria come rigore. Come strutturi il lavoro del tuo team attorno al design di un nuovo prodotto?
CC: Mi occupo di prodotto nello stesso modo in cui mi occupo di architettura. Come dico spesso, ho alcune ‘sane’ ossessioni: le geometrie presenti nelle architetture storiche ma anche in quelle urbane più recenti, le trame del mondo vegetale tout court, e la materia, tutta. Nell’affrontare un nuovo progetto per un prodotto ci riuniamo, facciamo una ricerca mirata e allo stesso tempo trasversale. La ricerca si occupa spesso del recupero di materiale iconografico, ma anche di testi di varia natura, tra cui anche la poesia. C’è poi un momento più solitario in cui lascio che queste informazioni prendano una qualche forma, un momento in cui disegno i primi segni dell’oggetto. In un secondo momento il team si riunisce nuovamente per una condivisione critica, da cui emergono solitamente molte cose. La definizione dell’oggetto finale si articola poi tramite studi tridimensionali e la ricerca del materiale giusto. Un lavoro corale, insomma.
SB: Qual è il ruolo di un Art Director? In che modo la cura è in grado creare, trasformare e far crescere una realtà produttiva?
CC: Il ruolo di Art Director non è troppo dissimile da quello di un regista. Si tratta di analizzare e valutare molti ambiti diversi, anche contemporaneamente, di mettersi in ascolto in maniera trasversale e di creare nuove relazioni. È per me un lavoro molto stimolante ad analitico, in cui la parte legata allo sviluppo estetico o all’iniezione di nuove idee viene in un secondo momento. Credo che in futuro la collaborazione interdisciplinare sarà fondamentale: il futuro AD potrebbe trovarsi a lavorare più strettamente con esperti di campi diversi, come la scienza dei dati, la psicologia e la sostenibilità. La collaborazione con specialisti in questi ambiti permetterà un approccio più olistico e aperto alla creatività, in cui le soluzioni di design non saranno solo esteticamente incisive, ma anche profondamente radicate nella comprensione umana e nella consapevolezza ambientale.
SB: Come ti relazioni alla storia del design italiano?
CC: Ci sono alcuni periodi specifici legati alla creazione e produzione del design italiano che mi stimolano molto, come ad esempio gli anni ‘70, con aziende come Saporiti e il design di Giovanni Offredi con il suo divano Onda, oppure Acerbis con Stoppino e la sua madia Sheraton. Mi capita spesso di includere nei nostri progetti di interni arredi, anche se poco noti o insoliti, che finiscono per diventare vere e proprie icone all’interno del paesaggio domestico, progettato su misura per ogni cliente.
SB: Il passato prossimo dei grandi nomi del design italiani è un’eredità importante, ma è anche un contesto in cui poche donne sono emerse. È questo un pensiero entrato nelle maglie del tuo lavoro, non dico a livello progettuale ma magari è una questione con cui ti sei confrontata seriamente nel momento in cui hai fondato il tuo studio?
CC: Non sono certa che essere una professionista femminile abbia in qualche modo plasmato il mio percorso o fondato le basi del mio studio. Sono una donna, un architetto, una mamma e moglie. Nella vita indossiamo tanti ruoli e questi elencati sono appartenenti alla mia storia. Ad esempio, Gae Aulenti è una figura di riferimento per me, ma soprattutto per la sua specifica qualità transdisciplinare e non tanto in quanto donna… 🙂