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LIVE WORKS 2024 | Centrale Fies

La rassegna ha portato in scena i lavori conclusivi della Free School of Performance per l'anno 2024. Temi comuni: il rapporto tra storia personale e storia collettiva e la forza inarrestabile della parola.
Live Works Summit 2024, Centrale Fies. Valerie Tameu | ph. Alessandro Sala – CESURALAB, courtesy Centrale Fies

Tra il 19 e il 21 luglio le porte dell’ex centrale idroelettrica di Dro (Tn), sede del Centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee di Centrale Fies, si sono aperte per la dodicesima edizione di LIVE WORKS SUMMIT: una tre giorni a cura di Barbara Boninsegna e Simone Frangi con la curatela esecutiva di Maria Chemello, dedicata alla messa in scena dell’esito dei progetti sviluppati dall* fellows della Free School of Performance, al termine di un anno di lavoro scandito da periodi di residenza collettiva e individuale con un attivo supporto curatoriale e produttivo. In occasione della rassegna ha avuto luogo il cambio di testimone tra l* fellows uscenti – Eloy Cruz Del Prado, Alessandra Ferrini, Liina Magnea, Melis Tezkan con Nil Yalter, Valerie Tameu, Mohamed Ali Ltaief – e quell* che subentrano per sviluppare le proprie ricerche in vista dell’edizione 2025: Tewa Barnosa, Klara Kofen, Hot Bodies | Gérald Arev Kurdian, Chōri Collective, Adam Seid Thair, Omar Gabriel Delnevo e Noha Ramadan. Il programma è stato arricchito dalla partecipazione di guest artist internazionali (Kae Tempest, Sammy Baloji, Sama’ Abdulhadi e Mohammed El Hajoui) e da una serie di lecture e talk tenute da ricercator* e attivist*, che hanno permesso di approfondire sul piano teorico e sociopolitico alcune tematiche centrali nel retroterra di riferimenti etnoculturali dei progetti performativi presentati. Ha aperto la prima giornata la poetessa e scrittrice Suhaiymah Manzoor-Khan, con una riflessione sulle implicazioni dell’essere oggetto dell’attenzione di osservatori altri, soprattutto per quanto riguarda chi professa la religione musulmana e le persone razzializzate. Il secondo talk è stato dedicato alla tragedia del genocidio palestinese; ne hanno discusso l’attivista Karem Rohana e la ricercatrice e sociologa Mackda Ghebremariam Tesfau’, con un intervento registrato di Francesca Albanese, relatrice speciale alle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. L’ultimo giorno la scrittrice, docente, drammaturga e performer Brigitte Vasallo ha esposto le metodologie e i risultati delle sue ricerche di natura etnografica e sociologica sulla progressiva scomparsa del mondo rurale e del suo patrimonio immateriale di pratiche e tradizioni. Dal 2020 è stata integrata nel progetto LIVE WORKS anche l’Agitu Ideo Gudeta fellowship, con l’obiettivo di sviluppare strumenti utili a contrastare le discriminazioni nel mondo della ricerca artistica performativa facilitando l’accesso di soggetti razzializzati; notizia di quest’anno è che da ora in avanti sarà realizzata in collaborazione con Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Palazzo Grassi. Altra novità di quest’anno è l’avvio di una collaborazione con la Consortium Commission fellowship di Mophradat, piattaforma dedicata all’arte performativa contemporanea del mondo arabo.

Live Works Summit 2024, Centrale Fies. Alessandra Ferrini | ph. Alessandro Sala – CESURALAB, courtesy Centrale Fies

Le performance della rassegna sono sempre connaturate dall’ibridazione dei linguaggi caratterizzanti l’ampio spettro delle arti performative contemporanee e sfruttano le diverse location offerte da Centrale Fies, le quali si caratterizzano per una ampia modularità dal punto di vista delle modalità di relazione tra artista e pubblico. Valerie Tameu in Time and again rende il proprio corpo il veicolo tramite cui riportare alla luce la memoria della propria famiglia, a partire dall’innesco rappresentato dagli attimi cristallizzati in un album di fotografie; queste sono evocate in absentia sul palcoscenico mediante una descrizione accurata delle scene e delle posture delle persone immortalate, volta anche a distillarne frammenti di emotività. Mentre su tre veli appesi sono proiettate in videomapping microespressioni animate tratte dalle fotografie dell’album, che sembrano così risvegliarsi dal limbo della memoria, la performer dipana una coreografia di movimenti che sono scaturiti da una propria reazione corporea alle immagini, influenzata in modo più o meno consapevole dalle pose, dalle distanze relative, dai ricordi personali e dal portato storico dovuto al fatto che si tratta di una famiglia afrodiscendente. L’intreccio tra storia personale e storia collettiva è il meccanismo narrativo attorno a cui ruota anche Unsettling genealogies di Alessandra Ferrini, lecture-performance fondata su una ricerca storica accurata relativa all’istituzione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e alle Biennali d’arte svoltesi durante il Ventennio come manifestazioni culturali intrinsecamente legate al regime fascista, che videro coinvolti allo stesso modo l’imprenditore e ministro delle Finanze Giuseppe Volpi Conte di Misurata e l’artista e politico Antonio Maraini; ma anche un affondo nelle proprie memorie familiari, motivato dal fatto che il nonno, la nonna e la pro-prozia dell’artista furono impiegat* come lavorator* domestic*, tra anni ’30 e ’40, proprio presso la villa fiorentina di Maraini. Ferrini alterna la lettura di alcuni brani da testi saggistici di settore, che restano fisicamente presenti in scena come se i rispettivi autori fossero idealmente degli attori che compartecipano alla narrazione, e tre lettere rivolte ai propri familiari, che, riportando alla luce un patrimonio orale di fatti ed eventi che legano le loro vite a quelle del padrone, invitano a riflettere sulla complessità delle vicende dei singoli di fronte ai grandi moti della Storia: ad esempio Bruno, marito della pro-prozia Ada, pur essendo di famiglia anarchica e affiliato al Partito Socialista, alla fine della guerra testimoniò a favore di Maraini, salvandolo di fatto da ritorsioni, forse per preservare il lavoro della moglie. Per quanto riguarda Volpi, basta la testimonianza di un operaio dei cantieri di Porto Marghera, che Ferrini cita da una pagina de “L’Unità” datata 1945, a dimostrare come già all’epoca fosse ben chiaro il suo passato di connivenza con il fascismo; nonostante ciò, ancora oggi porta il suo nome un prestigioso riconoscimento assegnato durante la Mostra del Cinema per la migliore interpretazione maschile. Il fazzoletto rosso che appare al collo di Ferrini alla conclusione della performance, appartenuto al nonno partigiano di cui riporta ricamato il soprannome “Pantera”, riafferma, al di là di ogni possibile occultamento storico, la centralità dei valori antifascisti e le responsabilità di chi collaborò attivamente con il Regime.

Live Works Summit 2024, Centrale Fies. Sammy Baloji | ph. Alessandro Sala – CESURALAB, courtesy Centrale Fies

The Concretely WE: Voices from within the camp di Mohamed-Ali Ltaief con la partecipazione di Lamin Fofana e Tarxun riporta alla luce altre voci rimaste sepolte per un secolo, vale a dire quelle dei soldati nordafricani coscritti nell’esercito francese durante la Prima guerra mondiale, e le riabilita come testimonianze di una storia dimenticata. Il lavoro è frutto di una ricerca condotta dall’artista nell’archivio di registrazioni audio realizzate dalla Real Commissione Fotografia di Prussia, oggi parte della collezione del Berlines Phonogramm-Archiv conservato presso l’Humboldt Forum di Berlino. Le registrazioni hanno tenuto traccia dei componimenti del soldato e poeta di guerra tunisino Sadok Ben Rashid, internato al campo di Wünsdorf dopo essere stato fatto prigioniero dai tedeschi, la cui identità è assunta in scena da Mohamed-Ali Ltaief, che recita una sua poesia e parla a suo nome rivolgendo la propria voce al corno di un grammofono sospeso al rovescio; l’effetto che ne risulta è l’ottundimento della voce, ma essa non cessa di parlare, evocando il ricordo della propria terra natia e denunciando lo sfruttamento coloniale. Per la messa in scena, l’artista si è ispirato anche all’opera teatrale Parallel Hands (1949) del saggista martinicano Frantz Fanon. Sulla stessa traiettoria di rilettura critica del passato coloniale dei paesi africani si pone Missa Utica del guest artist Sammy Baloji, un lavoro ibrido tra concerto e monologo teatrale in cui sono ripercorse le vicende che condussero all’evangelizzazione del Regno del Congo nel XV secolo e il conseguente coinvolgimento della Chiesa Cattolica nella tratta degli schiavi. In particolare, è messa a fuoco la figura del principe Kinu A Mvemba, battezzato con il nome di Dom Henrique, che su nomina di Leone X diviene nella prima metà del ’500 il primo vescovo indigeno del continente africano, con giurisdizione sull’antica città di Utica, situata nell’odierna Tunisia, dove però non giungerà mai. Il progetto di Baloji si ispira alla Missa Luba, una messa latina composta negli anni ’50 del secolo scorso dal missionario belga Guido Haazen a partire da canzoni congolesi tradizionali, che viene reinterpretata dai musicisti Barbara Drazkov e Pytshens Kambilo durante il monologo dell’attrice Bwanga Pilipili.  Se nei casi precedenti le traiettorie individuali si intrecciavano inestricabilmente con un quadro storico più generale, Eloy Cruz Del Prado propone con Good Job, Good Boy II (Sketch I) accentra lo sguardo sulla propria vita, presentando una auto-fiction che rievoca una serie di episodi che restituiscono le difficoltà di far emergere la propria identità queer crescendo in un contesto rurale. L’artista imposta un parallelo rispetto alla ricerca di validazione che avviene in molti contesti lavorativi; il trait-d’union è rappresentato dalla proiezione di alcuni spezzoni di un documentario girato dall’artista nel 2014, che segue il nonno e il suo mulo nel corso di una normale giornata di lavoro in campagna. Nel mentre le immagini scorrono, Del Prado cambia punto di vista narrativo, esponendo i rapporti di potere vigenti tra animale e padrone. Durante la performance l’artista indossa delle nacchere sulle scarpe, risemantizzando le tradizioni folkloriche locali con una coreografia di movimenti che reificano la presa di consapevolezza della propria identità di genere.

Live Works Summit 2024, Centrale Fies. Eloy Cruz Del Prado | ph. Alessandro Sala – CESURALAB, courtesy Centrale Fies
Live Works Summit 2024, Centrale Fies. Liina Magnea | ph. Alessandro Sala – CESURALAB, courtesy Centrale Fies

In altri lavori, la parola si svincola dalla ricognizione intima o analitica di una memoria personale, familiare o collettiva, acquisendo piuttosto una più autonoma pregnanza espressiva. In Ssassin’s Creed (Lady Says Stop), Liina Magnea, vestita come una poliziotta, si muove in preda ad un raptus da una tribuna all’altra del grande ambiente delle Turbine, mentre il pubblico assiste dal centro del palcoscenico, “proteggendosi” dietro a dei pancali di legno dai suoi movimenti apparentemente inconsulti e dalle frasi disarticolate inveite con rabbia. Il lavoro riflette sui deliri di follia che colpiscono le persone le cui posizioni di potere cominciano a vacillare e che per questo manifestano tendenze violente, convinte come sono del fatto di essere insostituibili e, allo stesso modo, di essere capaci di migliorare il mondo con le proprie azioni distorte. Un altro approccio può invece essere quello di preservare dalla contingenza della vita frammenti di conversazioni svolte con una persona cara, che è anche un modello di riferimento per il proprio lavoro, per poi riutilizzare tali registrazioni estemporanee come ossatura di un progetto. È ciò che accade in 8938th Song: with Nil Yalter di Melis Tezkan: gli audio degli scambi di battute con l’artista Nil Yalter restituiscono uno spaccato di umanità – i viaggi compiuti assieme, le esperienze di convivenza – da cui emergono come gemme preziose delle riflessioni intergenerazionali su temi come la lotta femminista, il concetto di casa, l’amore. Il titolo del lavoro allude al fatto che Tezkan raccoglie da sempre le canzoni più importanti della propria vita in una enorme playlist; il montaggio in tempo reale delle registrazioni, collegate da intermezzi musicali suonati dal vivo, mette insieme la 8938esima canzone della playlist, che ha Nil Yalter come coautrice. Ma è con l’esibizione dell* musicista e poeta Kae Tempest che la parola si libera definitivamente dal corpo e da ogni referente gestuale, sciorinandosi in un flusso di coscienza visionario: proposta in questa forma per la prima volta, la performance di Kae Tempest inanella e intreccia i testi di svariate sue canzoni/poesie in un’enunciazione serrata, che rappresenta forse la più pura espressione del genere della spoken word. L’esperienza che ne risulta è un viaggio esistenziale attraverso le contraddizioni del presente, le sfaccettature cangianti dell’io, la bellezza struggente delle piccole cose: “There are things I must record, must praise / There are things I have to say about the fullness and the blaze / Of this beautiful life”. Un invito allo stupore, a cercare le finestre accese nella notte, che in qualche modo si riverbera anche nell’installazione performativa Ardna (“La nostra terra”) di Mohammed El Hajoui, allestita nella struttura in legno delle Terme nel giardino della Centrale: un grande tappeto di cenere rossa, grigia e bianca, spolverata con estrema dedizione mediante un setaccio così da delineare dei motivi geometrici che connotano il tappeto come una kefiah, simbolo della resistenza palestinese. Al centro del tappeto si erge un ulivo, simbolo universale di pace. Qui si è consumato l’atto di chiusura della rassegna di LIVE WORKS, nella tarda serata di domenica 21 luglio: artist*, membri della crew e del pubblico hanno sollevato all’unisono le estremità del tappeto, in modo da convogliare la cenere verso la base dell’ulivo, che sarà piantato nel giardino di Centrale Fies. In questo modo, la cenere della resistenza nutrirà la pianta della pace.

Live Works Summit 2024, Centrale Fies. Melis Tezkan | ph. Alessandro Sala – CESURALAB, courtesy Centrale Fies
Live Works Summit 2024, Centrale Fies. Mohamed El Hajoui | ph. Alessandro Sala – CESURALAB, courtesy Centrale Fies