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Daniel Gustav Cramer. Nineteen Works | SpazioA, Pistoia

19 attivatori di ricordi suggeriscono una narrazione frammentata e ondivaga, facendo convergere in uno stesso luogo e in uno stesso tempo tanti momenti passati della vita dell'artista.
Daniel Gustav Cramer, Nineteen Works, 2024, veduta della mostra a SpazioA, Pistoia | Photo credits: Camilla Maria Santini. Courtesy: The artist and SpazioA, Pistoia

Queste parole svaniranno”. Un avviso che è a tutti gli effetti una dichiarazione poetica. Così si chiude il testo di sala della mostra Nineteen Works di Daniel Gustav Cramer (Neuss, 1975) presso la galleria SpazioA di Pistoia, aperta fino al prossimo 19 luglio. Un compendio di frasi che ferma sulla carta il flusso dei ricordi legati alle opere esposte e che si dispiega ai miei occhi come un racconto visivo, fatto di suggestioni, reminiscenze e riflessioni, suddiviso in diversi momenti, paragrafi  di una vita – quella dell’artista – in cui i diciannove lavori esposti appartengono ad un processo perennemente “in corso”. La serie qui portata avanti da Cramer, dal titolo Works, tenta di racchiudere la frammentarietà dell’esistenza umana attraverso la compenetrazione di attimi fermi nel tempo a cui ognuno sente di appartenere. Le opere sollecitano il nostro apparato di ricordi, in costante relazione con una natura che è viva e viene vissuta. È come se tutto ciò che l’artista ha visto e catturato in luoghi diversi del mondo voglia essere qui restituito nell’eterna compresenza in cui le cose accadono. Un archivio del passato in cui il “tutto” è stato, è e sarà nello stesso identico momento. Sulle pagine del libro Untitled (Nachts) (2024), disseminato in diversi volumi per lo spazio della galleria, incomincio a leggere di un uomo che fa oscillare sterpaglie ardenti sulla cima di una montagna durante la notte. Sta vegliando sui compagni dormienti intorno a lui. Il mondo appare come un vasto accampamento sotto un cielo freddo, dove ogni anima trova riposo sulla terra. Eppure, lui è sveglio. Uno dei custodi, trovando l’uomo che agita il legno acceso, gli domanda perché stia vegliando. “Uno deve vegliare”, dice, “Uno deve essere presente”. Penso che sia grazie al suo “esserci” nel mondo in quel momento che l’uomo diventa testimone della propria esistenza e di quella altrui. La storia si sposta a Rügen, nel Nord dell’Europa, dove bianche rocce calcaree punteggiano la costa (54.5731° N, 13.6621° E, 2024). Emergono dal mare come sentinelle silenziose di un tempo remoto che non ho vissuto, ma di cui percepisco il riverbero: l’eterno ripetersi del suono delle onde che s’infrangono sulla pietra. Mi ricorda le estati in Sicilia, un ricordo che si manifesta ulteriormente grazie alla presenza in mostra delle stesse bianche formazioni calcaree sulla costa della Scala dei Turchi (37.2900° N, 13.4728° E, 2024). Guardo i diversi frammenti di pietra riposti in due contenitori neri e non noto differenze, sembrano condividere una storia comune di trasformazioni lente ma inesorabili, nonostante essi siano stati distanti migliaia di chilometri per millenni. Adesso sono qui, vicini, testimonianze mute di un tempo che evade la scala umana. Inizio a credere ad un ordine naturale di tutte le cose. Inizio a credere di farne parte anch’io.

Daniel Gustav Cramer, Nineteen Works, 2024, veduta della mostra a SpazioA, Pistoia | Photo credits: Camilla Maria Santini. Courtesy: The artist and SpazioA, Pistoia

Mi volto e mentre leggo che il sole sta sorgendo sulla Death Valley, un coyote solitario segue il suo percorso tra le dune desertiche, supera un piccolo insediamento e prosegue verso la catena montuosa del Tucki, per poi scomparire. Allo stesso modo, continuo a leggere, una volpe a Berlino sta attraversando Derfflingerstrasse,alla luce dei lampioni che ne illumina il movimento (Fox & Coyote, 2024). Cramer era lì (quindi è già successo?) testimone casuale, custode – come lo stesso dell’inizio della storia, penso – di quei momenti effimeri. Ha visto il coyote e la volpe; il bianco della neve indurita sulla fredda strada berlinese ho come l’impressione che gli ricordi, in qualche modo, le rocce calcaree di Rügen e della Scala dei Turchi. Mi torna in mente una notte simile: ero a Berlino, stavo giocando a palle di neve con degli amici, faceva freddo. Improvvisamente una volpe ci taglia la strada. Si ferma giusto qualche secondo per guardarci, come per giudicarci di quella nostra goliardia infantile, per poi fuggire tra le macchine parcheggiate. Mi piace pensare che potesse essere la stessa volpe che ha visto Cramer. In fondo, mi chiedo, perché non dovrebbe? La sensazione che ci possa essere un cortocircuito di esperienze personali mi assale. Vedo una cornice, un foglio con delle linee verticali e orizzontali che si incrociano formando dei rettangoli vuoti sulla carta. Leggo che si tratta di una riproduzione di una delle tante pagine fatte di soli meridiani e paralleli che circoscrivono chilometri quadrati di acqua. È ripresa dalla prima cartografia dei mari che collegano i continenti, “Dell’Arcano del Mare”, pubblicato a Genova nel 1645 (Untitled (Mare), 2015). Penso a quante pagine ci vogliano per racchiudere l’intera distesa d’acqua del globo. Qualche decina? Un centinaio? Non avrei mai creduto che un libro potesse farmi sentire così minuscola. Immagino di sfogliare quell’atlante e di ritrovarmi improvvisamente sulla stessa isola del Mar Cinese in cui è stato Cramer, lontano dalla città ligure. Qui l’artista ha scattato una fotografia, una madre scimmia che riposa all’ombra di un cedro, stringendo tra le braccia il suo cucciolo (Monkey (with infant), 2009). Come quella volta in Croazia, quando ha visto due nuotatori seguire la linea della costa, l’uno vicino all’altro. Le loro bracciate nell’acqua sembravano sincronizzarsi con il ritmo naturale del tramonto. Cramer li vede allontanarsi, ha il tempo di scattare una sequenza di fotografie (Tales 110 (Ribarska, Bol, Croatia, August 2021), 2024). È attraverso la ripetizione di immagini simili che emergono le trame nascoste della vita quotidiana. Mi ricorda uno dei tanti flip-book della mia infanzia: le immagini consequenziali, molto simili tra loro, cambiavano gradualmente da una pagina all’altra e, se viste in rapida successione, sembravano prender vita. Non posso fare a meno di notare – quasi banalmente – come il mare sia a tutti gli effetti il riflesso del cielo. Azzurro contro azzurro di giorno. Nero su nero la notte. E se fossero fatti della medesima sostanza? Talete dice che è la Terra a stare sopra l’acqua, elemento per lui primordiale. O almeno così mi sembra di ricordare dai miei studi liceali. Ecco che quegli stessi meridiani e paralleli si infittiscono nella mia testa sempre più.

Daniel Gustav Cramer, Monkey (with Infant), 2009, C-print su carta Kodak Archival, montata su alluminio, cornice, cm 61 x 50,8 x 3.6 | Photo credits: Camilla Maria Santini. Courtesy: The artist and SpazioA, Pistoia
Daniel Gustav Cramer, Tales 110 (Ribarska, Bol, Croatia, August 2021), 2024, 14 C-prints con cornice, cm 27 x 22 x 2.3 cad. | Photo credits: Camilla Maria Santini. Courtesy: The artist and SpazioA, Pistoia

Improvvisamente è come se li vedessi restringersi esponenzialmente, creando un intricato reticolo simile a una carta millimetrata (An Evening Sky, 2024). Da sempre solo cielo su sola acqua. “Cosa siamo noi uomini in confronto?”, mi domando. “In media un metro e sessantacinque centimetri”, sembra rispondere ironicamente Cramer con un’asta di ottone di quell’altezza posta in mezzo allo spazio (Our Average Height, 2021/2022). Sono alta poco più dell’asta; improvvisamente mi rendo conto ancora di più di quanto sia assurdo che nella brevità della nostra esistenza, sia essa temporale e spaziale, deteniamo il potere di interferire con l’infinita vastità della natura. Quando essa è in grado di inghiottirci nel solco della linea che noi chiamiamo “orizzonte”. Come quando alla fine della Seconda guerra mondiale, su un’isola segreta chiamata Okunoshima, uno stabilimento di produzione di gas velenoso venne distrutto. Gli uomini lasciarono l’isola e alcuni conigli, allevati per esperimenti, fuggirono dalle loro gabbie e sopravvissero. Senza interferenze umane significative e con una bassa presenza di predatori, i conigli sopravvissuti prosperarono, dando origine a una grande comunità. L’uomo, per sua prassi, ne fece invece un’attrazione turistica, e Cramer fa riferimento a tutto questo con una fotografia di grande formato (Okunoshima, 2023). Ho come la sensazione di quanto poco importi alla natura della nostra esistenza. Non ha bisogno di noi per proseguire il suo corso. Ci illudiamo che essa possa essere per noi una fonte inesauribile di possibilità, nel nostro costante egocentrismo, nell’imperterrito tentativo di plasmarla a nostro piacimento. Vedo la sfera poggiata a terra che Cramer ha sepolto a Merrion Square come un simbolo di questa illusione: un oggetto creato dall’uomo, nascosto nella terra, invisibile ma reale, che esiste indipendentemente dalla nostra percezione o dal nostro desiderio di controllo (XVI, 2014). Uscendo dalla galleria lancio un’ultima occhiata alla mostra attraverso le vetrate e per poco non mi rendo conto che alla base di uno di questi pannelli di vetro, quasi posta sulla strada, c’è una sfera simile (CVII, 2024) ad altre piccole sfere disposte attorno all’asta a misura umana (CVI, 2024; XCVII, 2023; LXXV, 2022). Sorrido, riflettendo sulle tracce che sentiamo il bisogno di lasciare nel mondo, oltrepassando la mera forma reverenziale di un’arte confinata a spazi sistemici e museali. Diventa evidente come ogni piccolo frammento di tempo contribuisca a formare un tutto a cui siamo inevitabilmente connessi. 

Daniel Gustav Cramer, Nineteen Works, 2024, veduta della mostra a SpazioA, Pistoia | Photo credits: Camilla Maria Santini. Courtesy: The artist and SpazioA, Pistoia
Daniel Gustav Cramer, Nineteen Works, 2024, veduta della mostra a SpazioA, Pistoia | Photo credits: Camilla Maria Santini. Courtesy: The artist and SpazioA, Pistoia