Nel Padiglione Albania della 60° Biennale di Venezia si entra senza bussare e muovendosi tra le stanze che lo compongono, se ne esce con la duplice sensazione di aver invaso l’intimità di uno spazio abitativo che non ci appartiene, ma che ci ha accolto senza remore. È la casa milanese dell’artista Iva Lulashi (Tirana, 1988) e che il curatore, Antonio Grulli, ha voluto trasporre a livello planimetrico alle Artiglierie dell’Arsenale di Venezia. “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, leitmotiv di questa edizione della Biennale, trova qui la sua declinazione ponendosi a metà tra i due significati di “accoglienza” e “immigrazione”. Se da una parte il visitatore, lo “straniero” è a tutti gli effetti accolto all’interno della casa-padiglione, dall’altra l’artista stessa, nata in Albania e trasferitasi in Italia con la famiglia all’età di dieci anni, rientra a pieno titolo nella storia della diaspora albanese. Love as a Glass of Water, titolo della mostra, risuona come un invito a vivere l’amore e la sua sfera sessuale con la facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua: un’idea semplice nella logica esperienziale che si affacciava alle soglie del secolo scorso, la “teoria del bicchiere d’acqua” della pensatrice femminista Alexandra Kollontai, ma che risuona prepotentemente in una contemporaneità in cui il divario tra ciò che è libero e ciò che è ritenuto lecito oscilla ancora. Nelle tele – alcune realizzate per il Padiglione, altre risalenti agli anni passati – è costante la presenza di acqua, in varie forme: talvolta ne vediamo una reale raffigurazione, negli altri casi se ne ha semplicemente il sentore. Richiamando implicitamente l’iconico scenario veneziano, il richiamo all’acqua e alla sensazione di fluidità che ne deriva trasmette bene l’idea della mutevolezza delle relazioni umane e dei sentimenti che ne fanno parte, i timori a cui l’amore ci soggioga. Gli ambienti dipinti trasudano colore, si liquefanno al passaggio del pennello. Come se la testimonianza, o l’imminenza, dell’atto sessuale possa essere intuita dalla lubrica umidità sgorgante da quei corpi, prevalentemente femminili, in cui essi stessi si abbandonano, si contorcono, si immergono. Non è dato sapere se il momento erotico stia per accadere o sia appena terminato, ma ciò non è importante: l’intimità di un attimo rubato è tutto ciò che possediamo e tanto basta a renderci compartecipi. La stessa artista lo è stata prima di noi: se in una prima fase della sua pratica si era dedicata a ritagliare frame da film e video trovati in internet che trattassero il periodo di dittatura comunista albanese – come nella serie Qui Stalin piace ancora – ben presto il suo approccio si è rivolto ai prodotti pornografici e ha assunto una trama sempre più voyeuristica, che ci condiziona nell’osservazione.
Affacciandoci all’entrata del suo bagno, i nostri occhi vengono proiettati immediatamente sulla parete di fondo, scrutano oltre le spalle dei corpi che si stagliano in primo piano ne Il silenzio di latte (2021) ed entrano a far parte della loro tensione orgiastica. Ma il gioco di sguardi s’infittisce e raggiunge di sbieco le figure incappucciate in Su richiesta, guardò… (2024): i loro volti si volgono in direzioni opposte, non si osservano tra loro e ignorano chi li osserva. Tutto accade fuori dal quadro ed è lì che loro stanno vivendo realmente, come se, colte in flagrante, una cercasse di nascondersi e l’altra invece si rivelasse. Si percepisce in questo la volontà di una pittura che non vuole assolvere esclusivamente il compito di inquadrare un momento nella sua specificità spazio-temporale, ma che piuttosto, come il cinema – a cui Lulashi attinge –, segue una progressività che per natura contiene una narrazione, qui restituita attraverso una forma di sintesi e di interconnessione tra i dipinti. Forse sta a noi ricostruirne la trama? Scene idilliache come Bed of Light (2024) e l’erotismo esplicito di The Only Possible Subject (2024) rappresentano i due poli di un racconto che si risolve tra il finito e il non finito. Non solo a livello di resa pittorica, dove molte parti dei quadri sono volutamente lasciate incomplete nella loro astrazione. L’ambiguità di un momento che esita tra il fremito di un’eccitazione che attende di essere consumata e la contemplazione della quiete, a seguito dell’ultimo sussulto del fervore sessuale, coincide con l’incertezza di un sotteso irrisolto. Tutto ciò che dovrebbe rimanere segreto, nascosto, intimo, è invece riemerso improvvisamente, mettendoci in uno stato di spaesamento e inquietudine. È l’estraneo segretamente familiare che ci disturba. Freud lo chiama “il perturbante”, quel “non nascosto” che sembra qui coincidere con il suo contrario: il rimosso. Con Paler Than Grass (2021) e Amari rossori (2024) abbiamo le due facce di questa stessa medaglia, non solo visivamente perché nel primo la donna è distesa sull’erba frontalmente nella sua nudità e nel secondo si staglia come una sagoma di spalle in controluce; oltre a questo, le due opere rivelano una dicotomia d’intenti in cui il sesso non è solo una metafora, ma anche un atto rivoluzionario che ancora fatica a trovare una sua collocazione tra liberazione e repressione. Nelle opere di Lulashi ci riconosciamo finalmente in un riflesso alterato, un’immagine di noi che si manifesta al di là del nostro controllo.