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Greta Schödl. Il tempo non esiste | Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Bologna

Quando Einstein riuscì a dimostrare che il tempo non era fondato su unilinearità e successività, bensì non esisteva affatto, essendo tutto insieme nello stesso momento, influenzò inevitabilmente il pensiero novecentesco. Basti pensare al senso di disintegrazione del Cubismo, o alla frammentarietà dell’individuo così ben indagata da Pirandello. La consapevolezza di una compresenza di tutto ciò […]

Greta Schödl, Il tempo non esiste, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Veduta di allestimento

Quando Einstein riuscì a dimostrare che il tempo non era fondato su unilinearità e successività, bensì non esisteva affatto, essendo tutto insieme nello stesso momento, influenzò inevitabilmente il pensiero novecentesco. Basti pensare al senso di disintegrazione del Cubismo, o alla frammentarietà dell’individuo così ben indagata da Pirandello. La consapevolezza di una compresenza di tutto ciò che era, è, e sarà, travalica la dimensione temporale della vita per insinuarsi in quella dell’arte di Greta Schödl (Hollabrunn, Austria, 1929). Il tempo non esiste (dal 26 gennaio al 17 marzo), non a caso, risulta essere una dichiarazione della stessa artista austriaca e dalla quale è stato tratto il titolo della sua mostra personale negli spazi di Palazzo Paltroni a Bologna, sede della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Curata da Silvia Evangelisti e Valentina Rossi, l’esposizione è il primo omaggio reso da un’istituzione cittadina nei confronti di Schödl, la quale vive e lavora nella città felsinea dalla fine degli anni Cinquanta. L’artista mette in atto una ricerca puramente ontologica: che cosa esiste? Qual è la natura dell’essere? Il mondo tangibile qui si interseca con quello intellegibile, composto da concetti, idee, principi astratti, dando forma a ciò che è percepibile con i sensi. È come se l’invisibile si servisse dell’elemento materiale per rivelare la vera essenza delle cose. Secondo un processo di platonica memoria, Schödl interpone tra le due dimensioni la parola, strumento primordiale capace di significare e rivelare la realtà per ciò che è. Puro “logos”. Substrato logico ingenerato ed eterno, esso scardina in sé i concetti di origine e fine, vanificandone ulteriormente la nozione di tempo attraverso l’impressione reiterata sugli oggetti della loro stessa denominazione. La coincidenza tra l’atto linguistico e la dimensione estetica trova il suo riscontro nel decorativismo crisografico, d’ispirazione secessionista, negli occhielli delle lettere. Intrecciando il processo artistico con il suo vissuto personale, lo stesso che l’ha anche vista prendersi cura dei propri affetti nel ruolo di madre e compagna, Schödl si lega agli oggetti della propria quotidianità e ne traccia l’esistenza in relazione alla sua vita, posizionandosi a latere all’interno di una critica femminista dell’arte che ha visto negli anni Settanta la riappropriazione del corpo femminile come soggetto e strumento di rivendicazione.

Greta Schödl, Il tempo non esiste, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Veduta di allestimento
Greta Schödl, Il tempo non esiste, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Veduta di allestimento

In uno scenario internazionale in cui artiste come Judy Chicago, Ana Mendieta, Carolee Schneemann, e molte altre, sfidano le convenzioni allora dominanti esplorando il corpo nella sua nudità e sessualità, Greta Schödl si cala interamente, come atto di denuncia, in quella dimensione da cui il panorama femminile cercava di discostarsi, fatta di oggetti e strumenti necessari al normale svolgimento delle attività casalinghe, risemantizzandoli. In opere come Ferro da stiro (1978) e Strofinaccio (2023), si assiste ad un rituale di nomina e ripetizione che rivela la profondità dei suoi legami personali. Preservando e trasmettendo la memoria delle sue stesse esperienze, l’artista travalica il proprio essere nel mondo restando connessa con le cose che la circondano nella sua dimensione puramente domestica. In Leinwand (1977), in italiano “tela”, la parola ripetuta racchiude un’area deliberatamente vuota, un rettangolo di quel supporto materiale che da sempre è spazio di creazione lasciato in potenza. La poesia visiva di Schödl si carica di un ermetismo così profondo che bastano un nome e una data, come in Firenze 1966 (1970), per evocare immediatamente la terribile alluvione che sconvolse la città. Ancora una volta il supporto dell’opera, la tenda del negozio fiorentino del marito Dino Gavina, testimonia il passaggio di un tempo, e in questo caso di un evento, vissuto dall’artista stessa, condensandone l’impatto personale e collettivo. Ma se la scrittura è la traccia del passaggio di un corpo, il corpo stesso diviene strumento tracciante della scrittura. È così che in Manomania (2010-2020), Schödl rende omaggio all’atto creativo in sé, in un tributo grafico in cui il vuoto del disegno di una mano è riempito dalla ripetizione della parola “Hand”. Qui si evoca la continuità e la prosecuzione dell’espressione artistica, che si tramanda di generazione in generazione attraverso l’uso (o il non uso) della mano stessa. Talvolta però sceglie di abbandonare la scrittura in favore di un approccio più gestuale, ricorrendo alla propria impronta. Come in Pollice (1999) e Senza Titolo (1970 – 1980), dove ricorre alla propria fisicità per imprimere la traccia del suo “esserci” nel mondo e al contempo della sua impermanenza. Conferendo alle opere un’immediatezza tattile che travalica l’uso della parola, evocando una primitiva traccia di passaggio umano, palpabile e visibile.

Greta Schödl, Il tempo non esiste, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Veduta di allestimento

Il corpo si inserisce anche all’interno di una dimensione più prettamente performativa, accompagnando l’artista nella sua ricerca durante gli anni Settanta e qui documentata attraverso una raccolta di fotografie d’archivio, alcune delle quali realizzate da Nino Migliori. In Tubo (1978) Schödl aveva portato in spalla l’oggetto da cui la performance trae il suo titolo, perdurando su di esso nella texture calligrafica dorata che caratterizza la sua poetica tautologica. Posizionata in Piazza Maggiore, dopo un breve tragitto dal suo studio in Via de’ Poeti, l’opera fu posta alla mercé del pubblico, che raccogliendovisi intorno si domandava sul suo significato. Romano Bertuzzi registrò di nascosto le diverse reazioni; e il materiale audio è qui presente in mostra per la prima volta: “Cos’è un tubo? Vorrei saperne il significato?”, “Non capisco un Tubo”, “Non mi importa un Tubo”, sconfinando addirittura nella politica “O, che non importa un tubo che hanno rapito Moro?”. Improvvisamente l’atto performativo diventa più di una semplice opera e assume il ruolo di catalizzatore per la riflessione e il dibattito pubblico, riportando la piazza alla sua originaria funzione di agorà, dove le persone si riuniscono per esprimere e confrontare le proprie idee. Due mesi dopo Schödl compie un’azione simile con Bidone (1978), connotato anch’esso dal tipico rituale di nomina e dalle classiche foglie oro negli occhielli delle lettere. Di nuovo l’oggetto è trascinato dall’artista e lasciato nella piazza alla libera interpretazione. Straßenpoesie (1980), invece, è stata una performance pensata per la città di Basilea: durante Art Basel l’artista utilizzò dei fogli di carta quadrati con all’interno un cerchio ritagliato che fungeva da “lente d’ingrandimento” per gli elementi rinvenuti lungo la strada. Un invito rivolto a scoprire l’inosservato, elevandolo a elemento poetico, a non andare oltre rispetto a ciò che s’incontra durante il cammino, a cogliere anche i dettagli più insignificanti, capaci di creare dei momenti di condivisione. Non a caso, infatti, ogni foglio di carta aveva impresso il timbro con l’indirizzo bolognese dell’artista, a cui una parte del pubblico ha risposto inviando delle lettere e centrando così l’obiettivo dialogico e partecipativo desiderato. Le tre performance sono state soggette ad un reenactment lo scorso 3 febbraio, in occasione di Art City a Bologna: alcune studentesse dell’Accademia di Belle arti hanno rimesso in scena le tre azioni contemporaneamente, replicandole fedelmente secondo le disposizioni date dalla stessa Schödl. Attraverso questa replica, l’artista utilizza ancora una volta l’atto ripetitivo come mezzo per esplorare una temporalità alternativa, una dimensione che, pur diversa, rimane immutata. “Il tempo non esiste”: non solo titolo della mostra, dunque, ma riflessione di un modus operandi che nella sua ciclicità abbatte la consequenzialità delle cose. E l’artista ci porge la chiave d’accesso a questo mondo atemporale grazie al suo sguardo sull’invisibile. Il mondo sensibile è visibile a chi è in grado di vedere oltre. E Greta Schödl lo è.

Greta Schödl, Il tempo non esiste, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Veduta di allestimento
Greta Schödl, Il tempo non esiste, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Veduta di allestimento