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La frenesia catartica nella pittura di Cecily Brown al Museo Novecento di Firenze

Trenta opere, di cui molte inedite, di una delle più grandi pittrici contemporanee viventi, sono attualmente esposte nella sala al piano terra del Museo Novecento di Firenze.Inaugurata durante la scorsa Florence Art Week, la mostra di Cecily Brown (Londra, 1969) Temptations, Torments, Trials and Tribulations è visitabile fino al 4 febbraio 2024. Dopo aver esposto […]

Cecily Brown, Run Away Child, Running Wild, 2022-23, signed, dated verso oil on UV – curable pigment on linen, 210.8 x 154.9 cm | © Cecily Brown. Courtesy the artist and the Thomas Dane Gallery

Trenta opere, di cui molte inedite, di una delle più grandi pittrici contemporanee viventi, sono attualmente esposte nella sala al piano terra del Museo Novecento di Firenze.
Inaugurata durante la scorsa Florence Art Week, la mostra di Cecily Brown (Londra, 1969) Temptations, Torments, Trials and Tribulations è visitabile fino al 4 febbraio 2024. Dopo aver esposto al Metropolitan Museum di New York, la pittrice inglese si fa ora protagonista nel museo fiorentino offrendo una personale riflessione pittorica sulla classica iconografia della lotta tra Sant’Antonio abate e i demoni. Punto nevralgico da cui si dipanano le singole opere in mostra è una tavola fiamminga tardo-quattrocentesca, della quale è qui esposta una copia di collezione privata, e il cui disegno della lotta del Santo è ripreso da un’incisione di Martin Schongauer. Stando ai racconti di Vasari e Condivi persino Michelangelo si è cimentato sulla stessa incisione in una tavoletta a lui attribuita e che attualmente si trova al Kimbell Art Museum di Fort Worth in Texas, ponendo non casualmente Brown in una remota connessione con la città di Firenze. Sebbene i dipinti siano stati realizzati appositamente per Firenze, questi si rifanno a sue litografie precedenti che si trovano qui ad aprire lo stesso percorso espositivo. Non è la progressione cronologica a scandire il loro succedersi; piuttosto esse si affiancano secondo un processo di interiorizzazione dell’artista che contribuisce così alla selezione di quelle componenti figurative che emergeranno dal magmatico agglomerato di colori delle grandi tele esposte nella sala successiva. La serie delle otto litografie omonime Proof State from Untitled I and/or II (2014), dimostra quanto la ricerca dell’artista sia profonda e progressiva, stratificata nelle diverse fasi di produzione dal momento che ognuna rappresenta uno stato più avanzato rispetto alla precedente.

Cecily Brown, The Temptation of St. Anthony (After Michelangelo), 2010, watercolour, gouache, ink on paper, 31.1 x 23.2 cm | © Cecily Brown. Courtesy the artist and the Thomas Dane Gallery

Figure animali e floristiche si mescolano alle vibranti tracce di colore che culminano nei più strutturati Untitled I e Untitled II. La medesima logica è applicata ai disegni preparatori e permea strutturalmente le sue opere pittoriche, con un approccio che sfida la percezione univoca e invita gli osservatori a esplorare interpretazioni multiple. Nel nucleo dei quattro disegni omonimi Untitled (2010), l’immaginario dell’artista si sottomette ad una costante trasformazione simulando il complesso funzionamento della memoria umana: i ricordi, come le figure, sono evocati piuttosto che esposti e i contorni ritirati affiorano come lontane reminiscenze indipendenti da confini temporali rigidi.
Il tratto della matita o dell’acquerello si configura come una compenetrazione nell’irregolarità che trasforma lo stesso disegno in una narrazione visiva in costante allontanamento dalla perfezione mimetica, abbracciando piuttosto la sottigliezza delle liminalità e il dissolvimento dei segni sulla carta. Nei dipinti di Cecily Brown, l’effetto di un vortice di colori e materia sembra confondere la percezione dello spazio: l’artista smembra e mette in disordine i piani spaziali, per poi riassemblarli in una struttura ipnotica, spontanea, sfuggente. Come quando si passa del tempo in una stanza buia e, improvvisamente, si è colpiti dalla luce: allo stesso modo, l’occhio ha bisogno di tempo per discernere i dettagli celati tra le varie sfumature di colore, tra le pieghe stesse della pittura. In The dying ember (2021-2023) la sovrascrittura pittorica appare come un groviglio cromatico che sembra evocare il turbamento fisico dantesco di Paolo e Francesca. Una “conversazione” senza soluzione di continuità è quella che si viene ad instaurare tra la pittrice americana e la tradizione rinascimentale italiana, e che non si esplica nella banalità della replica citazionistica e delle riproposizioni nostalgiche di modelli figurativi adattati all’estetica contemporanea.
“Gli antichi maestri”, come li definisce l’artista, sono qui evocati piuttosto che presentati. All’interno dello spazio espositivo e in quello pittorico l’ambivalenza ironica dell’assenza-presenza di modelli figurativi passati permette di individuare tracce di memoria sotto forma di astrazioni fisiche. Osservando bene The aspiring subordinate (2023) è possibile scorgere una figura antropomorfa la cui posa plastica sembra voler ricalcare in chiave contemporanea uno dei venti Ignudi di Michelangelo nella Cappella Sistina.

Cecily Brown, The aspiring subordinate, 2023, signed, dated verso oil on linen, 73.7 x 58.4 cm | © Cecily Brown. Courtesy the artist and the Thomas Dane Gallery

È con la storia dei corpi che Brown assembla la propria. Il corpo agisce come un mezzo di comunicazione tra diverse epoche, tra un passato non nettamente definito e un presente intriso di suggestioni storiche. Così le tele si fanno progressivamente sempre più esuberanti, energiche, convulse. L’intensa frenesia catartica presente in opere come Just my Imagination (Running away with me) (2022-2023) e Run Away Child, Running Wild (2022-2023) è paragonabile ad una danza visiva le cui gesta liberatorie sono assimilabili ai balli popolari del sud Italia, come la taranta. In Cloud Nine (2022-2023) come si evince dal titolo che richiama un celebre modo di dire inglese sull’essere estremamente felici, l’opera vuole essere un’esperienza di estasi sensoriale ed emotiva che trascende i confini della realtà quotidiana, portando lo spettatore in un regno di pura soddisfazione estetica. I’m Gonna Make You Love Me (2022-2023) è il preludio per I want a Love I Can See (2022-2023), in cui Brown sembra dare tregua ai suoi turbamenti in favore di un più controllato uso del colore e di una rappresentazione dell’amore capace di sintonizzarsi con il presente attraverso la metafora della vista. Tanti piccoli occhi sono disseminati sulla superficie della tela: un amore che si riesce a vedere è un amore che si riesce a toccare. È fisico, e rappresenta quell’hic et nunc oraziano che è capace di spegnere “l’utopia del corpo”, placandolo dalle sue sofferenze e offrendogli una possibilità di compiutezza e presenza. È l’amore che permette al corpo di esserci ed è attraverso di esso che i turbamenti cessano di esistere. Body with vulva (2023) nel Camerino di Bianca Cappello in Palazzo Vecchio diventa così l’apice di questa ricerca dell’artista: il corpo femminile, intravisto nel parossismo frenetico dei colori, crea un legame semantico con l’ambiente circostante. La stanza stessa, che un tempo custodiva i segreti della nobildonna fiorentina, ora diviene parte integrante del dipinto, che si fonde in armonia con l’atmosfera che lo circonda. L’artista attraverso la storia di Sant’Antonio abate e dei suoi tormenti fisici inflitti dai demoni, esplora così le tribolazioni, le ferite e il dolore che gli uomini hanno da sempre patito. Una metafora universale di resistenza e ascesi spirituale. 

Cecily Brown portrait Photo- © Mark Hartman