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LIVE WORKS 2023 | Centrale Fies

Nel fine settimana dal 30 giugno al 2 luglio, negli spazi dell’ex centrale idroelettrica di Dro (Tn) che ospita il Centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee di Centrale Fies, si è tenuto il consueto appuntamento annuale di LIVE WORKS Free School of Performance. Il programma di spettacoli e performance si configura come la […]

Centrale Fies – Yoojin Lee | Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Eoghan Ryan | Foto Alessandro Sala

Nel fine settimana dal 30 giugno al 2 luglio, negli spazi dell’ex centrale idroelettrica di Dro (Tn) che ospita il Centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee di Centrale Fies, si è tenuto il consueto appuntamento annuale di LIVE WORKS Free School of Performance. Il programma di spettacoli e performance si configura come la restituzione conclusiva dei progetti sviluppati in un anno di lavoro da parte dell* fellows della free school iscritt* nell’anno 2022: Bassem Saad e Sanja Grozdanić, Yoojin Lee, Eoghan Ryan, Alice Giuliani e Camilla Strandhagen, Teo Ala-Ruona e Artor Jesus Inkerö, Thalia Pigier, Endi Tupja, Soukaina Abrour. L* performer sono stat* ospitat* a Centrale Fies in più periodi di residenza succedutisi a partire dall’edizione di LIVE WORKS dello scorso anno. Il fitto programma dei tre giorni, a cura di Barbara Boninsegna e Simone Frangi con la curatela esecutiva di Maria Chemello, ha previsto anche la partecipazione di una serie di guest artists di caratura internazionale (Rabih MrouéLina MajdalanieMazen Kerbaj, Harald Beharie, Nkisi), arrivando così ad un totale di 28 artist* coinvolt*. LIVE WORKS rappresenta anche un’opportunità di scambio e di confronto per l* fellows che subentrano quest’anno e che presenteranno i loro lavori nell’edizione del 2024. L* performer in residenza nel 2023, selezionat* a seguito di una call internazionale, saranno Eloy Cruz Del Prado, Alessandra Ferrini, Liina Magnea, Melis Tezkan con Nil Yalter, Valerie Tameu, Mohamed Ali Ltaief. Alla loro esperienza formativa hanno contribuito, nel corso dei tre giorni, anche alcune lecture tenute da ricercatori e ricercatrici che si occupano di tematiche connesse al femminismo intersezionale e alla decolonizzazione. Sinthujan Varatharajah ha ricostruito le vicende storiche che hanno interessato la storia recente di Mogadiscio e del suo aeroporto, interpretato come un terreno di auto-determinazione della Somalia nella scena politica internazionale; Lola Olufemi ha analizzato il ruolo dell’immaginazione nella produzione culturale dei movimenti di rivendicazione dei diritti delle minoranze, mentre Francesca De Rosa ha parlato delle sue ricerche d’archivio in relazione al passato coloniale portoghese ed italiano. Questi affondi teorici e storici hanno portato ulteriori contributi alle riflessioni emerse dagli stessi lavori performativi programmati nella rassegna, dato che un filone di continuità emerso nell’arco del fine settimana è stata la discussione, o quantomeno l’evocazione, di temi politici secondo prospettive incentrate sul corpo, non eurocentriche e post-coloniali.

Centrale Fies – Alice Giuliani e Camilla Strandhagen | Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Harald Beharie | Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Teo Ala-Ruona e Artor Jesus Inkerö | Foto Alessandro Sala

Yoojin Lee in slowth (habitats)(yet) riflette in una sottintesa chiave anticapitalistica sulla possibilità di una riconciliazione con la natura e i “corpi” che la abitano attraverso un richiamo alla relazione simbiotica che si viene a creare tra i bradipi e un’alga che prolifera nella loro pelliccia. La performance ha avuto luogo nello spazio raccolto della Forgia, che comporta una stretta prossimità con lo spettatore. In uno scenario che trasmette una sensazione di decadenza post-umana per la presenza di un trabattello e di cavi elettrici dismessi, Lee mette in atto una sequenza di gesti lentissimi e improduttivi, che sottintendono una riflessione sull’accelerazione incontrollata della società contemporanea, nel mentre indossa una tuta abitata da microrganismi fotosintetici che cambia colorazione in base alle condizioni di luminosità. Se in questo caso è l’estrema lentezza a farsi gesto politico di resistenza al trascinamento rovinoso del capitalismo, Eoghan Ryan con Circle A attacca i sistemi di controllo dell’individuo caratterizzanti ogni sfera della società con una performance che segue il ritmo incalzante di una batteria, sopraelevata in modo assertivo rispetto al cortile in cui si svolge l’azione. Ryan e altri due performer, col volto coperto, si muovono a passo cadenzato su una grande A cerchiata, simbolo anarchico che si materializza in spazio fisico di contestazione del sistema: un tracciato percorso a ritmo di marcia e infine violato, segnando il ricongiungimento dello spazio scenico con quello del pubblico. In altri casi è il corpo esposto del performer a farsi spazio delle lotte. In And everything is as porous as a bodily crack la pelle di Alice Giuliani e Camilla Strandhagen è costellata di cicatrici, tracce reificate dell’assedio quotidiano del dolore prodotto da malattie croniche invisibili. La Spoon Theory proposta dalla scrittrice Christine Miserandino per spiegare metaforicamente la quantità razionata di energie a disposizione delle persone che soffrono di dolori cronici per compiere le più semplici attività quotidiane, come anche il riferimento alla sensazione, che le persone con disabilità sperimentano continuamente, di vedere il proprio vissuto prosciugato dai tempi morti richiesti per spostarsi da un luogo ad un altro, compongono il retroterra teorico di un lavoro radicato nelle esperienze personali delle performer. L* guest artist Harald Beharie porta invece in scena Batti Bwoy, il suo primo lavoro in solitaria e in prima nazionale a Centrale Fies. Il titolo si appropria di un’espressione offensiva usata per riferirsi agli uomini gay o con tratti femminei in Giamaica, un Paese che ha alle spalle una lunga storia di discriminazione nei confronti della comunità queer. Il corpo nudo di Beharie si offre provocatoriamente allo sguardo del pubblico assumendo su di sé tutto questo portato di odio e di stereotipi: posture di apparente sottomissione sono rielaborate in un linguaggio corporeo esplicito che buca lo sguardo dell’osservatore, ribaltando i rapporti di forza imposti dai sistemi di potere omofobi, fino a che l* stess* Beharie non si erge in tutta la sua altezza e ingaggia con il suo sguardo e con la sua presenza corporea il pubblico, in parte disposto proprio al centro della scena, non più “predatore” visivo quanto piuttosto “preda” di un corpo fisico e politico che vuole giustizia.

Centrale Fies – Endi Tupja | Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Bassem Saad e Sanja Grozdanić | Foto Alessandro Sala

Altri lavori si pongono come delle lenti tramite cui guardare alla Storia da prospettive programmaticamente dislocate. All the missing caregivers or Fascismo all’acqua di rose di Endi Tupja riesuma storie di donne albanesi in Italia in diversi periodi del passato recente del Paese, con un ponte tra il Ventennio e gli anni Novanta. Il pubblico è chiamato a partecipare disponendosi in plotone in file parallele e compiendo ripetutamente determinati gesti che alludono ai processi di omologazione del pensiero attivi a più riprese e in diversi contesti, dal regime fascista alla società di massa. Bassem Saad e Sanja Grozdanić, nella loro performance-lecture dal titolo Permanent Trespass (Beirut of the Balkans and the American century), denunciano invece l’incapacità delle discipline di ricerca storica di restituire la verità degli avvenimenti. Attraverso il richiamo a casi trattati dalla Corte Penale Internazionale concernenti il Libano e i paesi balcanici rievocano storie sepolte di prevaricazione occidentale, nella forma di monologhi travestiti da elogi funebri, ambientati in una sequenza di interni borghesi in un’epoca incombente di disfacimento. Con Borborygmus dei guest artists Rabih Mroué, Lina Majdalanie e Mazen Kerbaj, la tragica storia recente del Libano è un sottotesto da cui si riverbera una riflessione magnificata alla scala dell’esistenza. La pièce teatrale, già approdata in Italia nel 2021 al Festival delle Colline Torinesi, è un affondo nichilista fin dentro le viscere della natura umana (i “borborigmi” a cui allude il titolo sono i gorgoglii digestivi prodotti nell’addome). In uno scenario scabro – una scrivania, tre leggii, una fila di bicchierini, una chitarra – viene messo in scena un “requiem per i vivi” in più movimenti, avviato da tre metronomi che scandiscono il tempo grezzo della vita. Nel flusso consonantico della lingua araba i tre performer descrivono l’umanità gesto per gesto, con un’anafora spietata che sciorina le azioni più nefande reiterate dall’alba dei tempi (“…poi ci siamo annoiati, poi abbiamo stuprato, poi abbiamo seppellito. Poi abbiamo perseverato, poi ci siamo ritirati, poi abbiamo vendicato. Poi… poi abbiamo trucidato, poi abbiamo benedetto…”). I fogli da cui leggono sono poi accartocciati e gettati sul pavimento, ma grazie a dei piccoli motori nascosti cominciano a muoversi producendo un ronzio. Evidentemente sono verità scomode che non è possibile soffocare; raccolti in un sacco da spazzatura continuano a ronzare-gorgogliare ancora più forte. Poi viene il brindisi, dedicato, un sorso dopo l’altro, ai più svariati destinatari, da Rosa Luxemburg alla Palestina, ma i buoni auguri si estinguono presto: nel quadro successivo i bicchierini vengono calpestati fino ad essere frantumati, mentre viene pronunciata un’ode blasfema al vuoto che sta sopra tutti, l’assenza di senso in nome della quale l’uomo fa la guerra. A seguire un monologo sulla giovinezza e un altro sulla paura della vecchiaia incombente, una lista inesorabile di morti violente e naturali, un metronomo che dopo i borborigmi dell’umanità smette di scandire il tempo, segnando l’approdo del nulla.

Centrale Fies – Rabih Mroué, Lina Majdalanie, Mazen Kerbaj | Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Rabih Mroué, Lina Majdalanie, Mazen Kerbaj | Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Thalia Pigier | Foto Alessandro Sala