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New Photography — Conversazione con Laura Fiorio

Mauro Zanchi: Cosa rappresenta per te il termine “reinventario” e come lo hai veicolato nel tuo lavoro dedicato alle memorie della fabbrica di vetro Bormioli e a coloro che abitarono e vissero nei poli industriali attorno a cui si é sviluppato il quartiere San Leonardo a Parma? Laura Fiorio: Reinventare vuol dire rivisitare qualcosa, prendere […]

Laura Fiorio – Dale Dale A La Border, 2017 – Courtesy Laura Fiorio
Laura Fiorio – Dale Dale A La Border, 2017 – Courtesy Laura Fiorio

Mauro Zanchi: Cosa rappresenta per te il termine “reinventario” e come lo hai veicolato nel tuo lavoro dedicato alle memorie della fabbrica di vetro Bormioli e a coloro che abitarono e vissero nei poli industriali attorno a cui si é sviluppato il quartiere San Leonardo a Parma?

Laura Fiorio: Reinventare vuol dire rivisitare qualcosa, prendere possesso delle narrative di quella specifica situazione e farla propria, dandole il piú delle volte un nuovo, personalissimo significato. Molte volte reinventando si scopre qualcosa che era stato dimenticato, si ascoltano delle storie poco raccontate, si da un utilizzo diverso a qualcosa che era stato creato con altre intenzioni. 
Reinventario peró non é solo un immaginario reinventato, anche se qui ci si potrebbe giá fermare a fare diverse riflessioni. In reinventario é contenuta un’altra azione: quella di inventariare.
Una parola che ha un significato molto piú tecnico e metodico. Inventario é un’attivitá scrupolosa, certosina e ripetitiva, che necessita di una certa pazienza e precisione. Fa riferimento piú all’immaginario dell’archivio, della catalogazione, ma anche al gergo commerciale, é una lista che si riferisce alla disponibilitá di determinate merci, alla proprietá o ai beni mobili e immobili di un’istituzione. Un inventario ha piú la funzione di certificare, documentare, catalogare, legittimare. 
Mettendo insieme queste due azioni, apparentemente non compatibili, in una parola, questiono la relazione che possiamo avere con un’ereditá iconografica, e in particolare con l’immagine fotografica, che é allo stesso tempo documento e invenzione. Conio un termine un po’ irriverente, che esce dagli schemi e scardina la semantica istituzionale.
Ma soprattutto questiono la veridicitá di una storia dominante, aprendo la possibilitá a molte altre narrative parallele che si esprimono con differenti mezzi e linguaggi, con meno autoritá ma con la stessa competenza, ricchezza e validitá. Come vengono conservate determinate memorie e da chi? Che diritto hanno le persone a riappropriarsi di determinati spazi? 

MZ: Come hai intrecciato le testimonianze degli ex lavoratori, gli oggetti e gli scarti della fabbrica, e come hai tradotto formalmente tutti i dati che hai raccolto?

É stato un processo molto organico, fluido e spontaneo. Gli ex lavoratori hanno un’associazione che si chiama Medaglie d’Oro Bormioli, storicamente un titolo che veniva attribuito a chi aveva lavorato per 25 anni almeno nell’impresa. Il gruppo organizzava varie attivitá legate al tempo libero e al dopolavoro, e si era formato dopo una serie di lotte sindacali in cui i lavoratori chiedevano condizioni piú accettabili in fornace. Dopo che la fabbrica ha chiuso, l’associazione é rimasta e sono rimasti i rapporti di amicizia e solidarietá tra le persone che ne facevano parte. Hanno continuato a incontrarsi come facevano prima e ad organizzare iniziative insieme. Quando si é saputo che la fabbrica sarebbe stata abbattuta, si sono mossi per recuperare i beni mobili, gli archivi e i ricordi che erano contenuti all’interno dell’edificio, e hanno trovato un magazzino per conservare tutto ció, oltre che una nuova sede per l’associazione. Diciamo che effettivamente, il lavoro di raccolta e archiviazione delle immagini non l’ho fatto io, ma l’hanno fatto loro. 
Io mi sono comportata come una curatrice o una fotoeditor, ho fatto una selezione e ho messo a disposizione le mie capacitá per digitalizzare delle immagini e inventariare degli oggetti. E da lí é nato un po’ un corto circuito tra le varie attivitá che ha dato vita alla parte piú artistica e surrealista del progetto. 
Non considero comunque il progetto concluso, anzi il bello deve ancora venire: stiamo lavorando insieme al Gruppo Medaglie d’Oro e altre associazioni Culturali a Parma a  un’ipotetica proposta di allestimento per il percorso museale, e l’installazione concepita per il MuFoCo voleva anche essere una simulazione e una sperimentazione per testare varie strategie di narrazione nello spazio, con la speranza che i lavori di restauro procedano in fretta per realizzare il disegno e occupare lo spazio con un centro culturale e sociale per il quartiere San Leonardo.

MZ: Mi interessa specialmente approfondire la tua concezione di estendibilità del medium fotografico.

LF: Penso che la risposta a questa domanda risieda nella molteciplitá di applicazioni che puó essere data al medium fotografico come tale. Mi sembra interessante la discussione filosofica intorno alla fotografia come medium o apparato di percezione, e tutte le riflessioni che ne derivano. Io tradurrei la parola medium semplicemente come “mezzo”, come un mezzo di trasporto che si utilizza per intraprendere un viaggio. Nel mio approccio non pongo l’attenzione molto sulla destinazione o il risultato fotografico, né ho in mente bene la meta. Ho sempre usato la fotografia più come un mezzo che come un fine. Un mezzo per dare una forma alla mia curiosità che si dirama su vari temi, in vari aspetti della vita quotidiana e relazionale con le persone che incontro. Un mezzo per conoscere, osservare, analizzare realtà a volte problematiche che vanno guardate da punti di vista differenti per essere comprese a fondo. Allo stesso modo una fotografia, o una serie di fotografie a volte non basta per sviluppare una narrazione complessa, e per questo poi si ricorre ad altre strategie, installative, di materiali o performative, che possono essere più efficaci nel trasmettere l’esperienza o la percezione di quella particolare situazione. Per questo a volte, durante il viaggio, si cambia mezzo di trasporto, per conoscere altri posti ed arrivare a scoprire nuovi orizzonti, rallentare o accelerare a seconda delle necessità del momento.

Laura Fiorio – LaBorder Curios, 2017 – Courtesy Laura Fiorio
Laura Fiorio – La Border Curios, 2017 – Courtesy Laura Fiorio

MZ: Che ruolo hanno in Reinventario le fotografie delle pietre di vetro che hai trasportato nel territorio adiacente alla fabbrica di bicchieri? 

LF: Le pietre di vetro sono gli scarti della produzione industriale. Quando si colava il vetro in stato liquido per plasmarlo negli stampi, l’eccesso veniva raccolto in una vasca e una volta solidificato rimaneva un’enorme placca di vetro, detta “goccia”. Quando la vasca era completamente piena, bisognava svuotarla rompendo la goccia con il martello pneumatico, e gli enormi frammenti di vetro venivano eliminati. Proprio questi oggetti hanno attirato la mia attenzione, perché sembravano delle enormi pietre preziose, dei minerali fuori formato, di inestimabile valore ma che in realtá non valevano proprio nulla, almeno per il mero processo produttivo. Allo stesso tempo le Medaglie d’Oro hanno conservato molti di questi scarti, proprio per la loro qualitá estetica e di pura materia, senza una forma assegnata dal processo di produzione.
Mi é sembrato che questi oggetti potessero essere una bella metafora per descrivere un luogo che é stato e potrebbe essere molto importante per lo sviluppo della cittá, ma che é poco valorizzato e anzi abbandonato dalle istituzioni e dai privati che se ne dovrebbero occupare. Ma guardato con gli occhi di chi ne ha una memoria storica, o un bel progetto per il futuro, é un tesoro.

MZ: Cosa significa per te dinamizzare immagini “pietrificate” (nel senso che sono state fotografate e riprodotte su un materiale rigido), portarle in giro e documentare l’atto performativo attraverso il medium video? Cosa vuoi innescare in questi passaggi mediali, soprattutto alla luce della tua ricerca sul campo e con le memorie dei documenti e di chi lavorò nella fabbrica?

LF: L’idea é nata da questa riflessione sopra la molteplice lettura che si puó dare a un unico oggetto, dalla collettivitá di una memoria che viene conservata.  Queste riflessioni mi hanno dato l’idea di creare un personaggio che cammina all’interno della fabbrica, ormai abbandonata, per ritrovare una strada, o ritornare alle sue origini. Questo personaggio surreale ma allo stesso tempo molto concreto, la cui identitá é allo stesso tempo legata al luogo e anonima, permette di riesplorare lo spazio, ripercorrendolo con il proprio corpo. Questa passeggiata é stata per me anche un esercizio. Inizialmente avevo creato altri movimenti, creando piú espressivitá, ma in fase di montaggio ho deciso di mantenere solo questa passeggiata in loop anche perché secondo me sottolinea una certa costanza e caparbietá, che é un po quello che caratterizza i collettivi coinvolti nella lotta per la riappropriazione dello spazio.
Il fatto che il video poi sia circolare evidenzia il fatto che il processo é quasi infinito. Queste sono tutte cose che con una singola immagine non si possono trasmettere, per questo spesso termino documentando il processo in divenire e poi edito un video. 

MZ: Nei lavori precedenti a Reinventario come hai affrontato la trasformazione degli spazi urbani e dei loro abitanti?

LF: Ho sempre cercato di mettere in dialogo foto di architettura con ritratti, per poi spostarmi sugli interventi nello spazio pubblico o azioni performative, andando quindi proprio ad abitare alcuni spazi urbani che erano oggetto e soggetto della mia ricerca. 
Lavorando molto in maniera site specific, in dialogo e collaborazione con le persone e i luoghi, mi ritrovo molte volte coinvolta nelle attivitá politiche locali, partecipando in maniera attiva e mettendo a disposizione dei vari comitati fotografie per la comunicazione delle campagne piuttosto che documentando eventi o luoghi di interesse per un’azione comune.

MZ: Parleresti di uno dei temi ricorrenti nella tua ricerca, ovvero della “geografia umana”? 

LF: La geografia é uno dei modi di rappresentazione del mondo. Sottolineando il termine come geografia umana si riconosce la soggettivitá dello sguardo, e la consapevolezza che analizzando determinate realtá se ne escludono altre, quindi la geografia non é piú una scienza ma una narrazione. Nel mio lavoro fotografico, anche quando facevo foto di architettura, ho sempre avuto un interesse per gli ambienti abitati, le tematiche legate alla gentrificazione e all’espansione urbana, agli interventi sul paesaggio che condizionano la quotidianitá e lo stile di vita delle persone, le relazioni sociali e le abitudini.
Se la geografia é la rappresentazione ufficiale del mondo, giustificata con dati e mappe precise e scientifiche, sappiamo che la percezione e la realtá che si nasconde dietro queste rappresentazioni é piú complessa e diversificata. 

MZ: Nei tuoi progetti collettivi e partecipativi, come inneschi la costruzione di un immaginario comune attraverso i ricordi?

LF: Evitando l’esotico e lo straordinario, é automatico fare collegamenti con la propria vita di tutti i giorni o a gesti ricorrenti a livello sia locale che globale. Parlando di quotidianitá non si parla solo di gesti intimi, banali o rituali, ma anche di problematiche che hanno a che fare con il diritto alla casa, la gentrificazione, le frontiere e le difficoltá e le lotte condivise a da moltissime persone, che sono distanti geograficamente, ma che a ben pensarci sono molto piú vicine di quanto crediamo. 
La cultura orale, le storie e le conoscenze tramandate da generazione a generazione attraverso racconti personali fanno tutte parte di un immaginario comune che non viene comunemente valorizzato.

MZ: Arte pubblica e fotografia come veicolo di cambiamento. Che ruolo ha per te, ora, il medium fotografico, alla luce anche di un percorso che ti ha portato recentemente a considerare i tuoi progetti come una apertura verso una varietà di media e tecniche diverse?

LF: La fotografia negli spazi pubblici in genere é utilizzata per vendere qualcosa. Personalmente ritengo molto importante la riappropriazione degli spazi che dovrebbero essere bene comune ma vengono sempre piú privatizzati. Da sempre sono stata coinvolta nelle attivitá di collettivi politici che si occupano di azioni nello spazio pubblico e interventi spontanei, strategie che si trasmettono poi a livello artistico in movimenti  artistici come il muralismo, i graffiti, o la poster art. Lo spazio pubblico é un territorio meraviglioso in cui lavorare perché si presta a interazioni con persone  di qualsiasi tipo, da la possibilitá di esporre in qualsiasi formato ed é aperto, per ora a tutti. Lavorando nello spazio pubblico, si conosce veramente un territorio. 

Laura Fiorio – Reinventario, 2020 – Courtesy Laura Fiorio
Laura Fiorio – Reinventario, 2020 – Courtesy Laura Fiorio

MZ: Hai collaborato con ONG, presentato le tue ricerche ed esposto le opere in contesti sociali ed educativi e in spazi non comunemente dedicati all’arte. Che significato ha per te l’impegno politico in rapporto con la ricerca artistica?

Credo che il fare arte sia innanzitutto comunicare e raccontare, connettere e condividere piuttosto che creare un artefatto, o prodotto artistico. Fare cultura per me é anche farlo a domicilio, raggiungere persone che normalmente non andrebbero a vedere una mostra o a visitare un museo, perché non ne hanno il tempo, la possibilitá o semplicemente non ci pensano. Ma qui ci possiamo ricollegare al discorso sullo spazio pubblico, che se rioccupato da interventi artistici puó ritornare a essere una galleria a cielo aperto e aperta a chiunque.
Ho lavorato molto in progetti sociali, con persone marginalizzate (senzatetto, rifugiati, carcerati) e penso che il fare arte in questo contesto sia semplicemente una maniera per reinventare una situazione, non per riportare un’immagine di ma per crearla insieme. Soprattutto nelle attivitá con le ONG credo a un approccio orizzontale e di mutuo appoggio, mettendo tutti i partecipanti al progetto allo stesso livello. Solo cosi si danno a tutti la stessa visibilitá. La consapevolezza e la capacitá di auto raccontarsi é molto importante soprattutto in casi di persone fragili, perché solo cosí le narrative che appartengono loro possono essere autentiche e non manipolate in prospettiva stereotipata. 
Il fare assieme e non semplicemente osservare o raccontare da persona esterna secondo me é una maniera piu’ etica di sviluppare un progetto fotografico, per editarlo a piú mani rendendolo, nel suo piccolo, un po’ piu’ democratico. In un mondo carico di immagini, quali fotografie produrre, come, quante e perché diventa una questione etica. Chi ha il diritto di raccontare determinate storie? Rispondendo a questa domanda, e conoscendo varie situazioni in prima persona, molte volte mi sono risposta che la persona giusta non ero io.

MZ: Con quali opere hai indagato i cambiamenti delle strutture urbane, le transizioni, e le connessioni con le persone che abitano quegli spazi e architetture, sia a livello locale sia globale?

LF: Diciamo che le transizioni e i cambiamenti urbani, lo spostamento forzato o meno sono il filo rosso che ritorna in quasi tutti i progetti a lungo termine che ho sviluppato, in maniera individuale o collettiva. 

MZ: Come lavori con il materiale iconografico dagli archivi?

LF: Dipende dal contesto e dall’interazione con l’archivio stesso. E dipende da che archivio si ha a disposizione per lavorare. Ho lavorato con archivi di fotografi ufficiali, per esempio sulla frontiera a Tijuana, con l’archivio della cittá per fare poi delle riflessioni che partissero dalle immagini storiche sullo sviluppo urbano e delle politiche di frontiera. Ma ho lavorato anche con archivi fotografici personali o privati, come nel caso dei lavoratori della Bormioli, con foto perdute durante il terremoto de L’Aquila o con album della mia famiglia.
La ricerca iconografica e quindi l’interazione con gli archivi ha sempre fatto parte del mio processo personale per sviluppare un progetto, per conoscere meglio la storia di un luogo. Ultimamente le immagini di archivio e questo processo di ricerca ha cominciato a far parte del lavoro stesso, perché ho cominciato a mostrare di piú il processo in fase espositiva, anche riflettendo o giocando sullo status di fotografia come documento o finzione. A volte una sola immagine contiene molte storie che possono essere raccontate al riguardo e che mi interessa poi mostrare. Alcuni progetti, come ad esempio “Dale Dale a la Border” (un progetto performativo in cui abbiamo costruito un monolito/piñata per poi muoverlo in citte e alla fine distruggerlo) sono nati proprio da un’immagine.

MZ: Mi interessa approfondire la tua concezione di opera aperta a qualsiasi forma di partecipazione. Cosa rappresentano per te lo scambio e l’avvicinamento, nel rapporto tra oggetto e soggetto dell’opera, tra creatore e fruitore?

LF:  Per me fotografare parte dall’ascoltare. Sono molto lenta nel cominciare a scattare, quando comincio una ricerca, questa si sviluppa proprio sul posto e per farlo necessita di stimoli, interazioni, dialoghi, discussioni, scambi di punti di vista con altre persone che diventano spesso parte integrante del progetto. Molte volte quando sono invitata a fare un progetto in un posto che non conosco, richiedo di organizzare un workshop nel luogo perché come ogni buon ospite, mi piace per prima cosa portare qualcosa, e quindi mettere a disposizione le mie competenze per le persone che hanno voglia di uno scambio reciproco e di creazione collettiva. Capita poi che alcune persone si appassionano e ci si continua a frequentare, e a ragionare insieme su diverse tematiche legate al luogo. Altre volte utilizzo altre strategie per coinvolgere sconosciuti o passanti in differenti azioni e vederne le reazioni, o mi é capitato di installare fotografie in case private o in luoghi di passaggio dove le stesse persone ritratte o coinvolte nel processo di produzione delle immagini sarebbero state anche gli spettatori. Questo mi interessa per mantenere sempre una connessione con le persone coinvolte e per creare un sistema artistico piú capillare e accessibile, almeno per le persone che incontro e che quindi mi interessano. 

Laura Fiorio – Reinventario, 2020 – Courtesy Laura Fiorio
Laura Fiorio – Reinventario, 2020 – Courtesy Laura Fiorio
Laura Fiorio – Reinventario, 2020 – Courtesy Laura Fiorio