Il 14 gennaio è stata inaugurata la mostra personale di Giulia Parlato Diachronicles, ospitata dall’artist-run space Mucho Mas! Il progetto – sviluppato in collaborazione con Camera Centro Italiano per la Fotografia per FUTURES Photography 2021 – racconta l’assenza di memoria e il ruolo centrale che l’archeologia, la fotografia e il museo assumono nella fabbricazione della storia collettiva.
Sara Benaglia Quello che ci aspettiamo dalla fotografia “classica” è che con uno scatto essa congeli il passato. La tua ricerca, con particolare enfasi Diachronicles (2019-2021), affronta la creazione di una memoria, con errori e mancanze connesse. E tra le fotografie esposte da Mucho Mas! alcune si focalizzano proprio su falsi. Ci parleresti nello specifico di queste opere?
Giulia Parlato All’interno della mostra sono presenti sia falsi creati appositamente per il progetto che falsi storici. Il soggetto in Evidence n.4 è uno dei “pupazzi” di Mastressa, conservati al museo archeologico regionale A. Salinas di Palermo. È uno di una serie di falsi creati nella seconda metà del XIX secolo dall’archeologo Francesco Saverio Cavallari e il contadino Moschella e poi venduti a diversi musei spacciandoli per reperti dell’antichità.
SB Nella fotografia c’è una tensione tra fotograf* e macchina, che è trascinat* all’interno dell’immagine assecondando la meccanicità dell’atto, ma allo stesso tempo ha piena conoscenza della propria soggettività. Nella mostra Diachronicles hai concentrato il tuo lavoro su un approccio installativo, mostrando anche una sperimentazione di metodo, per cui la sezione archeologica della serie si apre al video e all’uso di lightbox. Cosa ti ha spinta ad esplorare questa dimensione del tuo lavoro?
GP È stata una decisione a cui si è arrivati insieme ai fondatori di Mucho Mas! – Silvia Mangosio e Luca Vianello – e Giangavino Pazzola, coordinatore del progetto che Camera ha intrapreso con Futures Photography. Questa era un’occasione per sperimentare nuovi modi di istallare il progetto e avere la possibilità di mostrare nuovi lavori, come nel caso dei lightbox. Abbiamo scelto di far dialogare video e immagini che approfondissero la parte archeologica, per creare un ambiente avvolgente che raccontasse in profondità uno degli aspetti del progetto, che è anche quello su cui lavoro da più tempo. Dalla mostra emergere l’anima del lavoro e crea come “un’entrata” che spero incuriosisca e spinga lo spettatore ad approfondire.
SB Ci parleresti del lavoro video che hai sviluppato per questo progetto?
GP The Discovery è un video loop girato in studio a Palermo, in collaborazione con il regista Claudio Giordano. Racconta il processo di scoperta e documentazione di frammenti di un vaso e un flash rivela per pochi istanti la scena. Il lavoro è stato ispirato da una frase contenuta in Austerlitz (2001) di W. G. Sebald (1944-2001) a cui faccio spesso riferimento quando parlo del mio lavoro e che nel corso degli anni mi ha aiutato a portarlo avanti: “our concern with history is a concern with performed images already imprinted on our brains, images at which we keep staring while the truth lies elsewhere, away from it all, somewhere as yet undiscovered”. Traducendo liberamente in italiano: “la nostra preoccupazione per la storia è una preoccupazione per immagini già eseguite e impresse nei nostri cervelli, immagini che continuiamo a fissare mentre la verità è altrove, lontano da tutto, da qualche parte non ancora scoperta”.
SB La scelta di utilizzare i lightbox riporta a una visione “orizzontale” dei reperti. Che oggetti sono e in quali occasioni sono stati ritrovati?
GP I due lightbox volevo ricordassero delle vetrine museali ma anche dei negativi in camera oscura, per interrogarsi sia su ciò che viene mostrato all’interno di un percorso espositivo, sia sul ruolo centrale che la fotografia ha avuto sin da subito nella costruzione della storia. Evidence n.6 raffigura i frammenti del vaso romano presente anche nel video, mentre Evidence n.7 raffigura frammenti di ossa umane. Entrambe le immagini sono state scattate come se fossero scansioni a raggi-X, per spingere a mettere in discussione la loro autenticità, proprio per questo non posso dirti dove sono stati trovati ☺
SB Nel video installato in Diachronicles è molto importante la luce che illumina l’immagine, capace di riproporre la relazione tra fotografia e archeologia moderna, ma anche la selezione per frammenti che vede la fotografia semplificare una narrazione storica. In che rapporto sta la fotografia con l’archeologia e la documentazione di prove in generale? La fotografia è ancora un banco di prova per la verità?
GP L’invenzione della fotografia e lo sviluppo dell’utilizzo di essa in campo scientifico va di passo con lo sviluppo dell’archeologia moderna, quindi la loro connessione è intrinseca e ha costruito e influenzato il nostro modo di relazionarci al passato. I resti, gli artefatti, i frammenti architettonici e il paesaggio urbano in continuo cambiamento ci aiutano a ricostruire ciò che ha già avuto luogo, e la fotografia è sempre stato il mezzo più intuitivo e immediato per far questo. Allo stesso tempo è importante rendersi conto che l’atto fotografico è soggettivo e limitante. Con Diachronicles volevo focalizzarmi sull’assenza di memoria e sulle problematiche di una ricostruzione per così dire oggettiva della storia. La domanda principale che pongo attraverso il mio lavoro è: “cosa è la verità?” e anche “è possibile averne solo una?”. Il potere mediatico delle immagini soprattutto oggi, spinge a riflettere sul fatto che a una storia corrisponde sempre un punto di vista.
SB In una precedente intervista facevi riferimento a un podcast “The Nearest Truth” con David Campany in cui egli discute della pericolosità delle immagini storiche iconiche nel rimuovere una visione storica d’insieme a favore di un dettaglio che cataloga il momento a discapito della complessità storica da cui emerge. Credi che questo problema “di sintesi” sia specifico della fotografia nello scegliere ciò che rientra e ciò che resta fuori dalla costruzione di un’immagine?
GP Si penso proprio di sì. La fotografia ha spesso alimentato preconcetti su diverse culture, classi sociali ed eventi storici. Bisogna pensare che è un mezzo che nasce come elitario e quindi ha restituito una visione del mondo limitata e limitante, che per anni non ha dato spazio a molti. Ancora oggi è un problema. E poi, come diceva Campany, la sintesi della storia attraverso le immagini tranquillizza perché ci aiuta ad incasellare gli eventi dentro categorie mentali, come si fa per esempio con gli artefatti dentro i musei. Penso che al momento ci si stia provando a discostare da questo modo di leggere il passato, in favore di una pluralità di background culturali e di linguaggi, ma le fotografie sono trappole da cui non si può uscire. Per questo chi fa questo mestiere penso abbia la responsabilità di comprendere a pieno il proprio punto di vista e sfidarlo con sguardo critico.
Giulia Parlato, Diachronicles
Mucho Mas!
Corso Brescia, 89 Torino
Fino al 27.02.2022