The Tail End of the Tale è la quarta personale di Patrizio Di Massimo negli spazi della galleria t293.
Attraverso un nuovo corpus di dipinti a olio, specificamente concepiti per la mostra, l’artista indaga il confine sottile tra realtà e fantasia con una vera e propria mise en abyme, una narrazione nella narrazione, che dilata i confini di spazio e tempo, rendendoli discontinui e permeabili.
Ambienti domestici, figure familiari all’artista, personaggi ibridi a metà strada tra mondo animale e umano, si alternano davanti agli occhi dello spettatore come in un carosello patinato in cui i colori acidi e le campiture piene definiscono i profili marcati di quell’universo che Di Massimo esplora da tempo. Inizialmente legato al video, all’installazione e alla performance, l’artista ha scelto di privilegiare la pittura come medium elettivo, e con essa il ritratto – genere assai prestigioso nella storia della pittura occidentale e non solo – appropriandosi di un lessico personale e assolutamente riconoscibile, senza mai essere ridondante.
Navigando gli interstizi tra realtà e finzione, l’artista rimanda a un universo fittizio che lascia intravedere una variabile infinita di narrazioni. È uno storytelling implicito, pronto a esplodere nei dettagli degli interni, nella descrizione di uno spazio psichico, dei soggetti e delle loro pose. Dai momenti di spensieratezza che caratterizzano la vita familiare – senza celare le tinte fosche che vi si annidano – alle difficoltà della genitorialità e al riferimento a un’intimità che non teme di coprirsi di erotismo – spesso ponendo in questione i consueti ruoli di genere – Di Massimo assume su di sé una molteplicità di punti di vista.
Il
dipinto che dà il titolo all’intera mostra, The Tail End of the Tale, è
una conversation piece, ammantata di surrealtà, in cui l’artista
rappresenta se stesso e la propria famiglia come fossero i protagonisti di una
novella per bambini: il topo, la volpe e la civetta si scambiano sguardi tra
loro e vengono ritratti durante un momento di gioco, si mimetizzano e
confondono con il racconto, arrivando a mutare la loro fisionomia per ritrovare
una dimensione in cui i profili netti svaniscono e la fantasia prende il
sopravvento.
In Tea Time, ambientato in un interno descritto con dovizia di
particolari – dal tappeto decorato al mobile dipinto -un uomo rivolge i
propri piedi al soffitto, poggiando la testa sul pavimento, con gli occhi
chiusi: indugiando sulle pieghe dei pantaloni, sulle zone d’ombra e i
chiaroscuri dell’incarnato, sulla posa scomposta, Di Massimo ritrae ancora una
volta un’atmosfera sospesa e surreale, intenta a carpire un nesso di
straordinarietà persino negli aspetti più ordinari.
Se alcuni riferimenti possono essere rintracciati in Otto Dix, George Grosz e Christian Schad, è anche vero che Di Massimo spinge la propria ricerca sul medium a forzare i limiti del referente tradizionale declinandolo con un lessico personale conturbante che oscilla tra onirismo e inquietudine.
Amici, artisti, creature ibride e misteriose, bambini carpiti nell’intensità del guizzo vivace dei loro occhi sono i personaggi che popolano l’universo di Di Massimo, un microcosmo perturbante in cui la finestra, presenza costante in molti dei dipinti in mostra, è un’apertura sul mondo/sui mondi, è il MacGuffin attraverso cui lo spettatore percepisce la propria intima identità voyeuristica. A una realtà ristretta e fin troppo reale, Di Massimo contrappone così una costruzione espansa e una fantasia ben orchestrata, nitida e pungente.