La nuova personale dedicata dalla galleria bolognese all’artista croato, come, d’altronde, l’intera esperienza di quest’ultimo, potrebbe essere riassunta da una delle Sentences (1971-1981) esposte per l’occasione: se questo foglio viene appeso in una galleria non è più un foglio ma un dipinto.
Suo malgrado, verrebbe da pensare ironicamente. Perché, nonostante la caparbietà con la quale Goran Trbuljak abbia cercato ripetutamente di abbattere la fortezza dell’“artista”, alla fine è arrivato a costruirne una tutta sua, estremamente diversa – questo è chiaro – da quella che ha bersagliato fin dai suoi esordi. Difatti, se la prima è fondata su determinate convinzioni, derivanti da uno specifico modo di intendere e vestire un certo status, la seconda è fondata, al contrario, sulle incertezze, sulle perplessità e sulle contraddizioni che scaturiscono da quello stesso modo di intendere e vestire tale status. Se la roccaforte dell’“artista” appare solida e indistruttibile, severa e solenne, quella di Trbuljak muta costantemente il proprio assetto, si sgretola e si deforma, confermando e confutando, allo stesso tempo, la propria ineluttabile instabilità.
A proposito di un artista che, attraverso le proprie azioni, ha sempre voluto suggerire – anche in maniera piuttosto giocosa – l’eventualità di un “non” davanti alla definizione che lo vorrebbe tale, non poteva scegliersi titolo più adatto per esaminare l’origine e lo sviluppo di una delle conformazioni che la sua fortezza ha assunto di frequente. 45 Years of Non-Painting mette in luce, per l’appunto, il rapporto che Trbuljak ha instaurato con la pittura fin dai primissimi anni Settanta, e lo fa attraverso un percorso contrassegnato da alcune delle Sentences che lo stesso ha ideato tra il 1971 e il 1981 – frasi dattiloscritte che, seppur non appartenenti alla sfera della pittura, risultano utili a comprendere il clima entro cui viene concepita.
Il viaggio entra subito nel vivo con i celebri Sunday Painting (1974-2014) e Monday Painting (1974-1983), indicativi rispetto a quanto si diceva sullo status di “artista”. Già da questi lavori, infatti, si intuisce l’instabilità della fortificazione eretta da Trbuljak: se, nel caso del primo, i gesti pittorici realizzati sulla vetrina di un negozio di belle arti – perché di gesti si tratta sempre quando si parla dell’esperienza di Trbuljak – effettuati in corrispondenza di una tela sorretta da un cavalletto e fotografati dal punto di vista dell’artista, si configurano come dei tentativi di raggiungere la superficie del supporto – tentativi puntualmente cancellati dal proprietario del negozio – nel caso dei secondi, l’azione di raschiare il colore dalle teche di plexiglass che proteggono la tela coincide, invece, col tentativo opposto di salvaguardarne l’integrità, e insieme quella dell’immagine di colui al quale è affidato l’onere/onore di poterla “violare”.
Perfino quando l’artista riesce finalmente a impossessarsi del supporto pittorico, questo viene utilizzato in tutte le maniere, eccetto quelle che ci si aspetterebbe convenzionalmente: si finisce per osservare, dunque, un Hand-held painting (1992), lavoro che Trbuljak ottiene dalla fusione di una tela e di una tavolozza; un Dropwise from behind. 10 drops of color for stamps dripping through a hole on the back (1982), un Painted from side (1988) oppure un Untitled (sprayed from the side) (1988-1992). E, come se non bastasse, dopo aver conquistato la tela, Trbuljak se ne allontana nuovamente, adoperandola soltanto in maniera indiretta: nascono, così, gli Easel Paintings (2016-2018), dipinti realizzati per mezzo di un marchingegno, da lui stesso ideato, composto da un cavalletto e da un treppiede – a livello espositivo, il lavoro, infatti, è formato sia dalle pitture, che dalle fotografie di questo strumento.
L’artista e Trbuljak sembrano vestire, pertanto, panni diversi: i due, infatti, pur condividendo lo stesso corpo, ambiscono a esiti e situazioni completamente differenti. E tale lotta intestina, risolta molto spesso nei termini di un accordo giocoso e autoironico, trapela soprattutto dalle opere che riportano le iniziali del loro autore, gtgt (2018) e gtgt IV (2018): realizzati ponendo due tele l’una di fronte all’altra e utilizzando un pennello dalla doppia punta, questi lavori innescano numerosi dilemmi circa il tema dell’autorialità – qual è la sigla dell’artista e quale quella di Trbuljak? Quella rossa o quella blu? Lo stesso si potrebbe dire di Big Composition IX (2021) e della serie di Small Composition (2020), presenti sempre nella seconda sala della galleria, sebbene in questi casi la riflessione sul tema dell’autorialità sfoci in quello sull’iperproduzione – questione calda in seno all’arte contemporanea, affrontata da Walter Benjamin già negli anni Trenta del Novecento. Una sintesi dell’intera ricerca di Trbuljak sembra fornirla, invece, la serie di sculture intitolate Sketch for sculpture (2019): il groviglio di pennelli, imbuti e tavolozze, retto da una tela a mo’ di piedistallo, se, da un lato, allude al complicato rapporto che lo unisce alla pittura, dall’altro rimanda alle difficoltà che l’artista deve affrontare nel momento in cui decide di districarsi nell’ingarbugliato mondo dell’arte – il tutto filtrato, naturalmente, dalla tipica vena giocosa e umoristica.
Come per l’artista Kutsch dell’omonima prosa di Robert Walser contenuta nella raccolta Storie che danno da pensare (2007), il quale appartiene a quella schiera di “persone che si possono ritrarre fedelmente solo facendosi beffe di loro”, Trbuljak ha adottato il medesimo modo dell’autore svizzero per immortalare una volta e per tutte il suo essere artista. Del resto, come riporta in una delle sue Sentences, se questo non è un dipinto allora io non sono un pittore: a chi spetta stabilirlo?
Goran Trbuljak – 45 Years of Non-Painting
Dal 12 febbraio 2022 al 2 aprile 2022
P420, Bologna