— VISIONI — Conversazione con Silvia Mariotti

"Cerco di rendere possibile la traduzione materiale di qualcosa di non tangibile. Mi interessa indagare le possibilità che si sviluppano nella mente, nell'immaginario, e cercare di dare più aderenza possibile a queste visioni: sono reminiscenze che voglio rendere fisiche, e per fisiche intendo non solo superfici ma volumi, resti corporei che possano restituire nella memoria altrui di nuovo un’immagine, ma più personale."
10 Dicembre 2020
Boutade #2, 2020. Stampa inkget su carta cotone, 60 x 60 cm, veduta dell’installazione
Aria Buia (Diga di Santa Giustina), 2020. Stampa inkjet su carta cotone, 100 x 66 cm, Veduta dell’installazione

VISIONI — Conversazione con Silvia Mariotti 

Mauro Zanchi: De uma estrela à outra è – oltre a una storia di viaggi in Brasile (i tuoi e quelli di Giuseppe Ungaretti), di incontri, dialoghi, lettere, poesie e immagini misteriose di foreste tropicali – un libro in due parti, dove tu individui una complessità culturale e sociale veicolata in un territorio inteso come crocevia di molte popolazioni. Cosa hai colto in questo sottile rapporto tra due linguaggi, nella coazione tra visuale e verbale?

Silvia Mariotti: De uma estrela à outra è un libro che racconta di incontri, ritrovamenti, movimenti tangenti e sguardi lessicali. Le relazioni logo-iconiche sono emerse spontaneamente ma anche artificiosamente, con un andamento in effetti molto simile alla processualità artistica che sto mettendo in atto negli ultimi lavori. La possibilità di costruire un libro così è però, in effetti, nata in modo eminentemente consequenziale al rapporto che si è instaurato con Francesca Cricelli, laddove notavo che l’urgenza di mettere in relazione il mio viaggio brasiliano (esteriore e interiore, di processo creativo e maturazione individuale) con quello di altri italiani sbarcati a San Paolo mi aveva portata alle pagine dell’ultimo Ungaretti. Visuale e verbale mi sono dunque sembrati avvicinarsi nella scoperta della “natura” di un Paese così grande e difficile da cogliere nell’immediato, ma la cui indole è di farsi avvicinare con lentezza, attenzione, spirito indagatore e con un atteggiamento da traduttore. Franco Vaccari diceva che “abbiamo sempre più bisogno di comunicazione dove il coefficiente di autenticità sia massimo, e quando questa esigenza si fa pressante ci rivolgiamo istintivamente verso la poesia”. Sono la poesia delle immagini e quella delle parole che, argomentandosi vicendevolmente, mi hanno aiutata a trovare interstizi di senso e a sondarli.

MZ: Rispetto ai tuoi lavori precedenti cosa è emerso in questa serie di fotografie, in cui notturni e crepuscolari nature brasiliane dialogano con le immagini evocate dai versi?

SM: Di sicuro in questo caso è stata più immediata la connessione all’altro da me, che esperisce gli stessi luoghi che io ho visto e fotografato. Quando scelgo dei posti da fotografare, spesso si tratta di ambienti che hanno anche una forte connotazione storica, luoghi naturali di cui le vicende sono note. Generalmente non mi soffermo ad ascoltare o leggere testimonianze di chi li ha vissuti o, meglio, non mi è capitato in altre occasioni di trovare documenti che potessero essere l’equivalente delle poesie di Ungaretti. Nelle altre occasioni magari avevo letto testi storici, manuali di documentazione ecc. Nel caso di questa esperienza, non solo ho potuto entrare in contatto con un’altra lettura artistica, poetica, di questi stessi luoghi, ma ho anche avuto modo di colloquiare con una studiosa, che mi ha aiutata a entrare in sintonia con il sentire del grande poeta. Questo mi ha permesso di notare un senso di familiarità anche nella vastità infinita dei luoghi e della storia, per generare così un racconto personale e intimo.

MZ: Che immagini vengono veicolate dalle parole rispetto a quelle che si muovono con le fotografie?

SM: A differenza delle fotografie, dove utilizzo il dato reale di un luogo topografico per far sì che possa dar luogo a un processo di rielaborazione mentale attraverso spinte e suggestioni, le parole scritte (da qualcun altro) in qualche modo le sento più vicine alla possibilità di visualizzare (all’occhio dello spettatore, nel momento in cui le accosto ai miei lavori) dei mondi che io abito nella mia testa ma che non esistono in alcun luogo fisico. Le parole sono esse stesse immagini, si muovono autonomamente, generando codici visivi e connessioni effimere.

MZ: Cosa significa per te spostare la ricerca sulle immagini per mezzo di uno sguardo metafotografico?

SM: Il primo linguaggio che ho utilizzato come artista è stato quello pittorico e, in generale, non ho mai guardato la realtà con gli occhi di una fotografa. Mi interessa molto cogliere aspetti dei luoghi reali e la macchina fotografica mi permette di farlo e nello stesso tempo di veicolare l’immagine, enfatizzando componenti legate a una dimensione più intima: Sartre afferma con decisione che l’immagine non è una cosa, bensì un atto di coscienza. L’immagine dunque non si offre con la consistenza di un dato reale, ma si risolve in un processo intenzionale: è un rapporto i cui poli sono la coscienza e l’oggetto verso cui essa trascende. Metafotografico è quindi uno sguardo cosciente di andare oltre un linguaggio. 

MZ: Come hai attivato un processo di ibridazione tra scultura e fotografia, tra appropriazione della realtà ed elaborazione di un processo intuitivo?

SM: Volevo andare oltre la bidimensionalità dell’immagine fotografica, rendere l’esperienza dello spettatore più pervasiva e concreta possibile, dare l’opportunità di costruire un universo ancor più personale e insinuare nella mente altrui dei suggerimenti, degli indizi che non svelassero tutto e subito, ma che lasciassero intravedere altre possibilità. Apparentemente queste sculture sono forme indefinite, al limite tra realtà e finzione, sono porzioni di immagine che, da apparenza bidimensionale, faccio ritornare spazio reale attraverso un ribaltamento strutturale: ciò che nella foto è vuoto, con la scultura diviene pieno.

MZ: Come ti avvicini alla materia?

SM: Cerco di rendere possibile la traduzione materiale di qualcosa di non tangibile. Mi interessa indagare le possibilità che si sviluppano nella mente, nell’immaginario, e cercare di dare più aderenza possibile a queste visioni: sono reminiscenze che voglio rendere fisiche, e per fisiche intendo non solo superfici ma volumi, resti corporei che possano restituire nella memoria altrui di nuovo un’immagine, ma più personale.

MZ: Mi interessa molto approfondire come le ombre estrapolate dalla superficie e dalla indagine fotografica siano divenute volumi.

SM: Ho cercato di trasformare il limite della superficie in oggetti, ho pensato che gli spazi e le campiture delle immagini potessero tornare a essere qualcosa di concreto per occupare un vuoto: un vuoto che occupa uno spazio e via così, come in un continuo ribaltamento. Visualizzando le cromie degli scatti ho percepito un distaccamento delle forme che mi sono apparse come masse a sé stanti, proiezioni al di là di un piano. Questa costruzione mentale è stata immediata e senza dare un sovraccarico di significato ho cercato subito di produrre quelle impressioni con la stessa freschezza con cui sono affiorate nella mente, attenendomi all’unico dato reale e relativo, ovvero alla temperatura di colore, che poi è il dato che si registra attraverso la macchina fotografica e che possiamo regolare a seconda della qualità della luce. 

Silvia Mariotti, De uma estrela a? o utra, Milano, Boîte Editions, 2020
Silvia Mariotti, De uma estrela à outra, Milano, Boîte Editions, 2020, part. del volume Dialogo
Silvia Mariotti, De uma estrela à outra, Milano, Boîte Editions, 2020, part. del volume Dialogo

MZ: Quale enigma si è depositato nei Volumi notturni (2017)? Che dialogo hai innescato tra la massa oscura e la luce dei neon?

SM: L’ombra è da sempre testimone dell’esistenza, come l’opacità risiede nelle cose. La luce ci mostra superfici levigate, uniformi mentre le ombre costruiscono illusioni di colline, di scogli o di segreti. La molteplicità dei colori oscuri si contrappone all’unicità della luce che li genera, svelando strati di significazione che confluiscono nell’intercapedine tra visione e realismo. Si tratta fondamentalmente del rapporto che c’è tra la luce che ha generato quelle stesse ombre e le cose cui quelle ombre appartengono. L’enigma sta nell’ovvietà della visione, il tranello risiede nella banalità del processo.

MZ: L’esperienza del mezzo pittorico quanto è presente nelle tue immagini e nelle fotografie?

SM: Gli anni della mia formazione accademica li ho passati a dipingere, a sperimentare tecniche pittoriche; la cosa che più mi divertiva era lavorare sugli sfondi, avvicinarmi alla materia, creare texture che assomigliassero a dei paesaggi. Quando mi sono avvicinata alla fotografia ho impiegato del tempo a capire che avrei potuto idealmente unire i due linguaggi e cercare di creare una mia grammatica. Ritraendo luoghi naturali, allestendo diorami e simil scenografie, ho eliminato ogni possibilità di disturbo causato da inconsuete angolazioni o da deformazioni prospettiche. Chiudendo il raggio visivo ho limitato la percezione del luogo, cosicché l’oggetto non fosse colto nella sua piena apparenza. Questa scelta mi ha permesso di mantenere la pittoricità attraverso campiture astratte e colore tridimensionali, utilizzando come punto di partenza il linguaggio fotografico.

MZ: Dove stai dirigendo la tua ricerca attuale?

SM: Mi è capitata sotto gli occhi una bellissima intervista a Luciano Fabro su Flash Art dell’89 in cui, in occasione della sua retrospettiva a Rivoli, parlava in particolare di identità: “Credo che questa cultura dell’interiorizzazione, che è poi la cultura di tutto questo secolo, abbia fatto il suo corso. Non si tratta più di guardare dentro di sé ma di essere dentro di sé, in santa pace, creare gli strumenti per andare fuori, nel mondo”. E ancora: “È un momento molto buio e paradossalmente molto affascinante. Non ho niente da dimostrare, non sono garantito da niente, però continuo a volere e qualcosa succede”. Ecco, credo che questa presa di coscienza, questa volontà di far succedere le cose, sia fondamentale per poter indirizzare una ricerca, che nel mio caso, al di là dell’inclinazione, sta andando verso una dimensione più materiale e per certi aspetti più scenografica. Credo di poter stabilire un ulteriore distacco dalla materia fotografica, pur lasciandola viva nel lavoro, per dare più spazio alle tracce che l’immagine lascia.

MZ: Immaginiamo uno spostamento ulteriore verso l’oltremedium. Ipotizziamo che sia parte del volume mentale – o di una piú espansa proiezione immaginativa – che si crea al di fuori e al di là dell’approccio fotografico col mondo, oltre il momento colto in un determinato istante. Come immagini per te e per la tua ricerca futura questa possibilità di indagine?

SM: Ti rispondo nuovamente con le parole Luciano Fabro tratte da un’intervista di Giovanni Lista in cui scrive a proposito della scultura di Medardo Rosso: In Rosso lo spazio è una conseguenza della luce. La scultura di Rosso si crea a partire da una proiezione mentale e non da una realtà fisica. La costituzione metafisica dell’opera avviene tramite la luce e solo in seguito a ciò si pone il problema dello spazio. È affascinante riflettere sui processi di elaborazione mentali riguardanti gli artisti del passato come nel caso di Rosso, è estremamente disarmante cogliere la potenza poetica di tali passaggi, dove tutto sembra avvenire in maniera così naturale e immediata. Vorrei portare la mia ricerca in questa direzione ed essere in grado di veicolare una sintesi immaginifica aldilà del linguaggio.  

MZ: Quali sono secondo te gli artisti che attualmente utilizzano un approccio per aprire nuove possibilità in direzione di un processo e una pratica più espansi? 

SM: Ce ne sono diversi, ma per citarne alcuni penso al fotografo belga Dirk Braeckman. Le sue fotografie non si riescono a cogliere a prima vista, nel suo lavoro mantiene una scala di grigi scuri che stampa fuori fuoco, eliminando così parte delle informazioni, che, come lui stesso dice, tolgono l’essenza: è al confine tra occultamento e rivelazione, ricerca la raffigurazione dell’irrappresentabile. Ohan Österholm realizza foto a impressione, come se fossero esperimenti alchemici. Linda Fregni Nagler utilizza i vetri delle antiche lanterne magiche per produrre le sue fotografie. Infine non posso non citare Giuseppe Gabellone, che muove la sua ricerca proprio al confine tra scultura e fotografia, tra bidimensionalità e tridimensionalità, in cui la plasticità dell’oggetto artistico trova il suo apice nella sua immagine cristallizzata attraverso la fotografia.   

MZ: Quale viaggio hai messo in moto nel progetto della mostra Not a first Glance?

SM: La mostra Not at first glance è nata in collaborazione con la Galleria A plus A di Venezia, il Centro Internazionale per le Arti Grafiche e l’Istituto Muzeum di Lubiana. Sono stata invitata a costruire un progetto in totale libertà, con la possibilità di creare una collaborazione con il Centro. Ho cercato di raccogliere tutti gli aspetti della mia ricerca in una nuova produzione, ripercorrendo alcune tematiche legate alla realtà come nel caso di Aria Buia, fino al raggiungimento di una sintesi visuale in Gauzy Green. L’idea è stata quella di creare una sorta di viaggio mentale indagando luoghi fisici e tangibili, condensati nella storia, passando anche per luoghi immaginari, costruiti per mezzo di fotomontaggi realizzati attraverso il mio archivio di fotografie, come nel caso di Boutade; man mano che l’immaginazione avanza, ci si avvicina sempre più a un’astrazione dei paesaggi, in cui i colori della natura crepuscolare prendono forma attraverso la contrapposizione di luci e ombre, diventando così tridimensionali. Questo racconto visivo si muove all’interno di una dimensione estranea, quasi impalpabile, in cui i suoni di una natura selvaggia si diffondono e insinuano negli spazi e nei luoghi, dentro e fuori le immagini, grazie alla presenza di un video concepito come fil rouge di questo viaggio e che enfatizza l’atmosfera in cui il fruitore viene immerso. La mostra si compone di ambientazioni scenografiche ispirate alla natura e ai mondi a essa connessi: realtà e finzione si intersecano per dar spazio a una rilettura dei luoghi della nostra immaginazione, così paesaggi reali e dell’altrove cercano connessioni con la storia o semplicemente ci illudono di esistere. Questo percorso ci indica qualcosa che è ma può anche non essere, una dimensione che occorre scoprire con uno sguardo attento, con la cura di chi solo sa svelare lentamente le cose, suggerendo alterità profonde che non si possono cogliere a prima vista.

Not at first glance, 2020. Centro Internazionale per le arti grafiche, Lubiana, veduta dell’Installazione
Volume notturno (verde rame), 2020. Polistirene dipinto, neon, 90 x 21 x 57 cm
Volumi notturni, 2018-2019. Veduta dell’installazione, Galleria Bianconi, Ph. Bruno Bani
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