Nel turbinio di pennellate e colori sapientemente stesi sulle tele di Nazzarena Poli Maramotti si scorgono figure antropomorfe, elementi naturali, paesaggi raggruppati ai bordi di un universo dai toni naturali e opachi. Immagini provenienti da un mondo onirico che si sviluppa in molteplici direzioni, eliminando ogni principio di centralità. Le opere in mostra da AplusB (Brescia) fino al 23 giugno devono essere osservate lentamente per permettere alla sinfonia intrisa nel gesto pittorico di emergere. In ogni lavoro la tematica della pittura non sembra risolversi, ma al contrario, indaga potenzialità ed espressioni nuove. La ricerca pittorica di Poli Maramotti è rivolta verso il colore e il suo dispiegamento.
Seguono alcune domande all’artista —
Giulia Gelmini: Affrontare la pittura al giorno d’oggi è considerato un gesto coraggioso e ormai è diventata scelta inconsueta per gli artisti contemporanei. Installazione, video, performance sono ormai i medium più presenti negli studi d’artista poiché spesso si tende a vedere il gesto pittorico e ancora di più, il contenuto raffigurato, come un taboo di cui non si ha diritto di parlare. Cosa vuol dire oggi fare pittura? Quale significato ha per te e come lo affronti?
Nazzarena Poli Maramotti: Il dipingere non è stata una vera “scelta” quanto più un’azione istintiva. Durante gli anni di accademia ad Urbino ho effettivamente avvertito una pressione esterna che stimolava gli studenti a prediligere altri mezzi espressivi, ma dopo un breve excursus sono tornata sui miei passi. Questo periodo di “sperimentazione” mi ha aiutata a capire che la mia sensibilità era (ed è tuttora) più incline ad un approccio pittorico, e non per “ignoranza” o pigrizia ma per una tensione spontanea che non mi sono sentita di forzare verso altri lidi. Detto questo non escludo futuri esperimenti extrapittorici, cosa che in realtà sto in parte già facendo.
Mi piace molto la libertà di scelta attuale, in realtà. Penso che la commistione di influenze e mezzi espressivi sia molto stimolante, talvolta quasi abbacinante e disorientante data la sua vastità, le sue infinite possibilità. Orientarsi in questo oceano è un passo importante verso la maturazione artistica e, talvolta, si può scegliere di non vagliare tutte le possibilità che ci offre il mondo esterno. Definirsi pittore puro può forse risultare demodè ad un occhio esterno e calato nel mondo dell’arte contemporanea, ma piegarsi forzatamente alle richieste della critica e del mercato non credo giovi alla ricerca. Forse fare pittura oggi, rispondendo alla tua domanda, significa confrontarsi con una punta di scetticismo degli addetti ai lavori che, a parer mio, deve rimanere uno stimolo, un dubbio che rinnova sempre la riflessione riguardo il nostro percorso. Ciclicamente ci si interroga sulla morte della pittura, ma se ancora se ne sta blaterando, significa che c’è ancora qualcosa da dire.
GG: L’ispirazione per incominciare a lavorare viene nel tuo caso dal quotidiano o hai dei temi ricorrenti che stai analizzando?
NPM: Ho temi ricorrenti che trovano le loro radici nel quotidiano. Gli stimoli, come penso per la maggior parte degli artisti, prendono vie traverse e ci si manifestano anche e soprattutto mentre non si è in studio. Personalmente ho sempre trovato la storia dell’arte in sé un bacino incredibile di idee e spunti. Poi raccolgo immagini piuttosto varie che per composizione o forma o sensazione possono servirmi come appoggio durante la creazione del quadro. Col tempo e la pratica ho teso a staccarmi sempre di più dal modello che scelgo come rampa di lancio, il quale non gioca un ruolo fondamentale a dipinto terminato (salvo rari casi).
Da qualche anno la mia attenzione si è focalizzata in maniera particolare sul genere del paesaggio, il quale nel mio caso diventa terreno di indagine a cavallo tra una figurazione più classica e riconoscibile e un’astrazione delle forme (senza scomodare i termini specifici di “figurazione” e “astrazione” altrimenti ci toccherebbe aprire un capitolo molto più ampio e articolato). Poi c’è il tema (forse più che un tema è una questione) della rovina, del rudere, dell’acqua come elemento ricorrente, il ritratto che ogni tanto riaffiora come a ricordarmi la sua importanza. Ma ora sto solo citando le prime cose che mi vengono in mente.
GG: Che cosa vuol dire sperimentare in ambito pittorico? Cosa per te è una sfida quotidiana e come la affronti nel tuo lavoro?
NPM: La sfida quotidiana per eccellenza penso sia la tela bianca e la libertà che porta con se’. Lavorando siamo schiavi, anche e soprattutto in maniera inconscia, di meccanismi dettati dall’abitudine, e sperimentare è probabilmente tutto ciò che smuove la volontà di rompere queste convenzioni autoimposte. Questa pulsione può tradursi banalmente in un cambio di approccio al soggetto, alla palette coloristica, alla composizione, o anche alla tela stessa, al rettangolo di stoffa/legno/metallo/plastica. Ogni dipinto per me è una sfida, una lotta contro le mie abitudini, o alle mie paure di sbagliare, di non essere coerente. Sono tutti un piccolo salto nel vuoto e spesso mi ci vuole un po’ di tempo per capirli, per valutarne il valore all’interno della mia ricerca. Sono forse un po’ troppo ossessionata dall’idea di coerenza, ma forse anche questo sarà uno dei paletti che prima o poi sentirò l’esigenza di testare. Chissà.
GG: L’intervento non pittorico esposto in galleria è appendice di un discorso articolato attorno al tema del paesaggio. Come lo consideri in relazione ai dipinti? Come nasce e da quale esigenza?
NPM: Innanzitutto io considero l’installazione in galleria un intervento pittorico. I limiti che mi trovavo a “scavalcare” durante la sua ideazione erano, appunto, quello della tela stessa, della sua unità, ma anche quello della consequenzialità temporale del dipingere. Questa installazione, che si intitola Unterwasser come la mostra stessa e realizzata ad hoc per la parete sulla quale si trova, è strettamente connessa ai dipinti più classici presenti (e non presenti), sia per quanto riguarda la composizione, l’approccio al colore che il tema, il quale unisce in una voce corale tutte le opere in una riflessione diffusa e personale sul paesaggio.
L’opera Unterwasser nasce da uno “scarto”, inteso sia come movimento, come balzo laterale, che come resto. Lavorando per l’allestimento della mia scorsa personale in Germania all’accademia di Norimberga, punto di arrivo di un premio ricevuto nel 2016 dallo stato della Baviera, il Debütantenförderpreis, ho voluto creare pietre (elemento naturale ricorrente nei miei lavori) sulle quali poggiare le tele evitando così di appenderle a parete e “invitandole” sullo stesso piano dello spettatore. Le pietre in questione sono state fatte con materiali leggeri, come ad esempio il gesso. Durante le colate di gesso per ricoprire il nucleo e modellare la forma degli oggetti mi sono trovata a lasciare sulla plastica protettiva a terra degli scarti di materiale, i quali sono di fatto una “solidificazione” del mio gesto creativo. La casualità ha giocato un ruolo importante, insomma, e da subito questi resti mi hanno affascinata dandomi l’impulso a sondare il limite del telaio. A completare l’installazione ho scelto porzioni di tela dipinta, con cui ho potuto giocare nello spazio alla ricerca della forma finale, supporti di multistrato (forse appigli e residuati del mio legame al quadro) e nuove colature di gesso realizzate apposta che citassero gli stucchi di certe chiese barocche. Volevo che i diversi materiali dialogassero tra loro creando uno stato ibrido tra pittura e spazio, che non per forza si sente il bisogno di definire.