Intervista a Marinella Senatore | Queens Museum, New York

"Ho lavorato con 80.000 persone dal 2006 ad oggi, e qualcosa l’ho capita, non ho bisogno di spacciarmi da psicologa per affermare che c’è una grande solitudine. Le persone hanno bisogno di sentire che appartengono a qualcosa, che esiste una dimensione dove vengono incluse."
1 Giugno 2017

Marinella Senatore segna una nuova importante tappa della sua carriera con la mostra Piazza Universale/ Social Stages presso Queens Museum di New York a cura di Matteo Lucchetti.
La grande antologica newyorkese, che ha presentato al pubblico americano le opere più significative della sua carriera è stata accompagnata da un’ enorme performance corale:Protest Forms: Memory and Celebration: Part II, che ha coinvolto più di 300 persone, tra professionisti e non. In questa intervista l’artista ci parla dei suoi progetti futuri e si racconta, affrontando quelli che sono i temi più importanti e urgenti della sua ricerca.

Simona Squadrito: Quest’anno è molto fortunato per te e suppongo ti abbia dato non poche soddisfazioni, non mi riferisco solamente alla mostra Piazza Universale/ Social Stages presso il Queens Museum di New York, ma all’intera programmazione che ti terrà impegnata per tutto il 2017.

Marinella Senatore: Sì, è un anno molto fortunato e pieno di soddisfazioni, ho avuto la possibilità di lavorare con dei musei e team curatoriali con i quali desideravo da tempo collaborare. La mostra al Queens Museum, curata da Matteo Lucchetti, ha comportato un lavoro enorme, anche se ho cominciato l’anno sapendo già cosa sarebbe stato questo 2017. Va bene così, anche se non ho avuto un attimo di pausa. Dopo New York sono andata direttamente in Portogallo, ho inaugurato una mostra alla Fondazione Eugenio de Almeida e organizzato una vera e propria Processione che ha coinvolto moltissimi cittadini. Inoltre ho inaugurato una mostra nella galleria che mi rappresenta a Lisbona, Pedro Cera e poi sono subito partita per la Francia per il progetto organizzato “The school of Narrative dance, Paris” al Centre Pompidou di Parigi. In concomitanza con questo progetto a cui tengo molto, sto preparando una mostra e una performance pubblica prevista per il 22 giugno, alla Kynsthaus di Zurigo. Gli impegni sono veramente tanti. Ho appena collaborato con The Blank Contemporary Art di Bergamo, un progetto sulla sagra, una performance che ha coinvolto DJs e gruppi folk che hanno cantato brani di resistenza ed emancipazione sociale appartenenti alla tradizione bergamasca ma non solo. Inoltre presenterò nell’ambito di Documenta, a Luglio, la School of Narrative Dance a Kassel, con una performance/workshop che coinvolgerà il pubblico, ancora una performance pubblica in forma di Prata a Copenaghen, un Grant che mi porterà sei mesi a Dresda (ritorno in Germania dopo un po’ di tempo) e nella cittadina inglese di York, sto già da tempo lavorando con il museo locale per una mostra che aprirà a settembre, anch’essa frutto di un premio, infine un progetto teatrale in Sicilia e una biennale di architettura curata fra gli altri da Hanrou Hou in Cina.

S.S: Pensi che questo grande interesse per il tuo lavoro dipenda dal fatto che le tematiche che affronti sono sentite come delle urgenze legate alla nostra contemporaneità?

MS: Si, Simona, assolutamente sì. Sono temi attuali e urgenze direi quasi sociali, che sia le comunità che le istituzioni hanno bisogno di approfondire. Stare insieme, e come farlo, è uno dei grandi punti a mio avviso del dibattito non solo artistico ma sociale, che coinvolge moltissime sfere del pensiero e della vita quotidiana, e ovviamente la cultura non può non confrontarsi con tutto questo. Lo richiede la contemporaneità ma soprattutto le persone e in maniera sempre più evidente. Sono cose che dico da anni e non solamente io, ma ora è chiaro a tutti e bisogna trovare diversi modi per coinvolgere le comunità e agevolare la partecipazione dei cittadini (che sicuramente è una delle risposte ma non l’unica), nonché una esperienza a livello museale e creativo, non escludendo il pubblico di non addetti ai lavori. Ci si chiede, appunto, se la partecipazione può essere una risposta adeguata alle istanze della contemporaneità, e ovviamente io credo di sì, ma il dibattito è ben più ampio ed urgente, penso siamo arrivati al punto in cui non possiamo più fare a meno di pensarci e bisogna confrontarsi con questo. Le grandi istituzioni lo stanno facendo, ma la grande sorpresa è che iniziano a farlo anche le gallerie private. Io, solo per farti un esempio, quest’anno ho iniziato a collaborare con due gallerie nuove e mi accingo ad avere altre due rappresentanze, e cerco di portate anche in luoghi di business questo dibattito. È il pubblico che lo chiede, e a mio avviso moltissimi artisti attraverso le loro pratiche ne stanno analizzando i limiti, le potenzialità e anche le modalità possibili, ancora una volta non sto parlando solo del pubblico del mondo dell’arte, che francamente trovo una riduzione pericolosa e per quanto mi riguarda poco interessante, ma è la cittadinanza intera che chiede qualcosa alla cultura. Io ho iniziato questo tipo di progetti partecipativi, comunitari, coinvolgenti, che mettessero in discussione processi didattici, autorialità e processualità, nel 2006, contro tutto e tutti, non è stato facile proporre questi progetti nelle gallerie così come nelle istituzioni. Adesso è molto facile, ma in Italia non è così scontato, ho trovato i miei riferimenti altrove prima che nel nostro Paese, ma questi sono dati interessanti, non significano necessariamente qualcosa di negativo. È chiaro che negli Stati Uniti o in U.K. io ho potuto lavorare in questa modalità con molta più facilità, e del resto, gli artisti che mi interessavano all’epoca e anche adesso, provengono da tali rete, è una questione anche di tradizione, l’arte povera in Italia continua ad essere il riferimento anche delle nuove generazioni, sono cose importanti da osservare, ma ancheda decidere, come recita una canzone di protesta folk che amo molto, “da che lato ti posizioni”. Nel mio lavoro c’è – e sempre ci sarà – una parte non controllabile che all’inizio poteva persino intimorire un’istituzione che doveva necessariamente cambiare qualcosa nel proprio protocollo, investire sui propri dipendenti, riarticolare le modalità di fruizione e il proprio protocollo. È stato bellissimo fare queste esperienze, la flessibilità dei centri d’arte è per me vitale ormai.

Io ho lavorato con 80.000 persone dal 2006 ad oggi, e qualcosa l’ho capita, non ho bisogno di spacciarmi da psicologa per affermare che c’è una grande solitudine. Le persone hanno bisogno di sentire che appartengono a qualcosa, che esiste una dimensione dove vengono incluse. Nei progetti che porto avanti, ognuno è un protagonista e non un impiegato come spesso accade in tanta arte pubblica che io francamente non amo molto. Lo scambio nel mio lavoro non è mediato dal denaro. A New York è difficile che qualcuno partecipi senza essere pagato, eppure in Protest Forms: Memory and Celebration: Part II, la performance che apriva la mostra Piazza Universale/Social Stages al Queens Museum, il denaro non è stato il movente, e con me hanno lavorato anche dei professionisti eccellenti, come il gruppo di danzatori di Martha Graham, Black Lives Matter, cantanti d’opera cori, gruppi di teatro che potevo solo sognare di coinvolgere. Abbiamo affrontato insieme ore e ore di discussione, tutti volevano capire perché facevamo questa cosa, quale era il senso. Alla fine il progetto è diventato enorme, hanno partecipato più di 300 performer e un pubblico di circa 7000 persone, è stata davvero epica e tutti hanno dato il massimo, perché una volta capito il senso e interagendo costantemente con me, non era possibile fermare quel flusso di energia, erano al museo tutti i giorni e la performance è durata molto più del previsto alla fine, oltre due ore!

Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages - Installation view - Queens Museum di New York © Marinella Senatore

Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages – Installation view – Queens Museum di New York © Marinella Senatore

SS: Il progetto newyorkese è uno dei tuoi lavori più grandi, non è così?

M.S: Sì, io quest’anno ho compiuto quarant’anni, ed ero a New York con alle spalle quasi 20 anni di lavoro duro e ufficialmente 15 di carriera. Il Queens Museum mi ha voluto dedicare una mostra che in parte è una retrospettiva ma che contiene dei nuovi lavori: una mostra gigantesca che è stata accettata benissimo in America. È un riconoscimento importante per la mia carriera e per la mia vita, visto che amo moltissimo gli Stati Uniti e i miei amici più cari vivono lì. Sono sempre felice di lavorare a New York, e amo follemente la California.

S.S: La mostra al Queens Museum è stata programmata durante la presidenza di Obama, cosa è successo con l’arrivo di Trump?

M.S: Fortunatamente non è stata cancellata con il suo arrivo, quello che è successo, però, con il suo insediamento, è che sono stati “temporaneamente” bloccati i fondi alle istituzioni, non solo al Queens Museum ma a tanti altri musei. Noi siamo riusciti a portare avanti il progetto grazie al sostegno di tanti privati che hanno voluto contribuire, anche la Quadriennale di Roma lo ha fatto con grande generosità, per esempio. Le tematiche affrontate con la performance Protest form memory celebration part II sono veramente attuali, mi riferisco, ad esempio, alla questione della “white supremacy”, l’emancipazione, l’empowerment, la cultura folk, le dissonanze linguistiche, le forme di protesta e la loro estetica fortissima (ho avuto la fortuna di incontrare esponenti dei Black Panthers, Young Lords, Black Lives Matter… questi sono incontri che ti cambiano la vita, letteralmente). In America non è visto di buon occhio se un bianco decide di occuparsi della questione nera, inoltre e con l’elezione di Trump, la ghettizzazione va sempre peggio, anche quella della comunità latina.

S.S: Quando è iniziato l’intero progetto Protest form memory celebration e quali saranno suoi ulteriori sviluppi?

M.S: Questo progetto ha avuto inizio con la Quadriennale, dove ha avuto luogo la prima parte e si concluderà il 22 giugno alla Kunsthaus di Zurigo. Questa performance è internante, legata ai canti di resistenza e arriva in America in un momento in cui non si parla d’altro, per questo ho rischiato di incorrere in una diffidenza enorme, ma così non è stato. Con me hanno lavorato perfino le Black Panther, che mi hanno raccontato a lungo cos’è stata New York e l’America, hanno partecipato alla performance anche i nativi americani, così come erano presenti diverse comunità e movimenti da quelli femministi ed ecologisti, a poeti ed attivisti: l’intervento di Carlos Aponte- Young Lords per esempio, musicato da un danzatore di tip tap, è stato da togliere il fiato.

S.S: Sai Marinella, non è un caso che io mi sia avvicinata alla tuo lavoro, infatti, a mio avviso è intimante legato – quasi come se tu gli abbia dato forma – a un mio ambito di ricerca. Mi riferisco alla teoria sviluppata dal filosofo russo Bachtin sulla polifonia, sul concetto di carnevale e sull’idea russa di chiesa: la sobornost’. La sobornost’ vuole significare una “comunità di anime non fuse tra loro”. Per farla breve, il filosofo propone un’idea di collettività e di partecipazione che viene a delinearsi di volta in volta, la partecipazione è qualcosa che va negoziata all’interno di specifici progetti. Inoltre questo concetto di comunità include necessariamente quello di individualità. Gli individui, infatti, si riuniscono in un progetto che è in grado di garantire l’esistenza delle singole individualità.

M.S: È esattamente quello cerco, attraverso il mio lavoro, di mettere atto: l’individualità all’interno della collettività. L’individuo è la ricetta, non considero le persone come una massa. Spesso mi viene chiesto se e quanto il mio lavoro mi gratifichi e quanto la mia individualità sia espressa in esso, chiamando in causa anche un concetto che adesso ritengo abbastanza ingenuo: quello di “autorialità”. C’è chi pensa che io nel mio lavoro perda la mia autorialità, non capendo che in qualsiasi mio progetto, da quello più grande a quello più piccolo, il mio grandissimo sforzo sta proprio nel tenere presente l’individualità nella collettività. In questo senso le mie esperienze con il cinema e con la musica sono state le più preziose che ho avuto, non solo dal punto di vista di abilità pratiche che ho appreso, ma dal punto di vista concettuale. Nel cinema, come in un concerto, si mettono in moto diversi ruoli, ma tutte le persone coinvolte non fanno che realizzare una cosa in comune, sono anelli di una catena che spesso è enorme che non può prescindere dall’individualità di ogni singolo. Non mi appartiene il falso buonismo che dichiara che siamo tutti insieme e che le comunità sono riunite, le comunità sono liquide, fluide.

SS: Si, infatti, inoltre il concetto di comunità fluida, nonostante sia stato teorizzato da Bauman fa parte dell’intera storia dell’umanità. La nostra cultura, quella europea, ad esempio non può prescindere dallo sfondamento del Limes romano provocato dall’avanzamento dei popoli barbari. Così come è ovvio a tutti che quando si parla di cucina mediterranea si compie una grande astrazione. Noi non avremmo mai avuto una tradizione della cucina mediterranea se non avessimo importato dall’America i pomodori o le arance. I popoli si sono sempre incontrati, scontati e fusi tra loro. È un errore parlare di radici culturali in termini restrittivi e oppositivi.

M.S: In questo preciso momento storico siamo di fronte a degli avvenimenti che ci stanno travolgendo e che pensiamo di non essere preparati ad affrontare. Il flusso migratorio è incontenibile, le guerre stanno insanguinato il mondo e tutto questo genera nelle nostre menti delle idee spesso confuse e sbagliate, non bisogna essere un sociologo o un antropologo per capire da dove arrivano le ragioni dei sentimenti di bieco nazionalismo e razzismo. Nell’esempio legato allo sfondamento del Limes io ci ritrovo e lo ritrovo anche nei partecipanti ai miei progetti. Bisogna arrivare ai limiti di noi stessi, fare una sorta di stretching estremo per essere più elastici e affrontare i cambiamenti sociali. Io stessa sono diventata elastica, la mia vita è completamente nomade, entro ed esco anche da situazioni affettive. Non esiste più l’arte relazionale degli anni ’70, legata ad una modalità quasi meccanica di relazione, adesso le relazioni sono molto oneste: o ci piacciamo e decidiamo di fidarci o non si fanno le cose. Così. Semplicemente. Insito che ‘stare insieme’ e come starci, sono dei punti nodali della società liquida nella quale conviviamo, piuttosto male, aggiungerei. Soprattutto quando non è il denaro il metro di scambio, quello che si scambia è il tempo, un tempo che diventa proprio, vi è un’appropriazione da parte dei partecipanti del tempo trascorso insieme, non è il ‘mio’, è il ‘loro’ o ancor meglio, il ‘nostro. Ti faccio un esempio concreto: quando organizzo un progetto, ad un certo punto, lascio lavorare da soli i partecipanti, ci sono dei momenti in cui decido di fare un passo di invisibilità, ed è in questi momenti che scatta l’emancipazione dei partecipanti, che si appropriano del progetto.

Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages - Installation view - Queens Museum di New York © Marinella Senatore

Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages – Installation view – Queens Museum di New York © Marinella Senatore

S.S: Un mese fa ha inaugurato al Pac l’antologica di Santiago Sierra. Il giorno dell’opening l’artista ha invitato quasi mille senzatetto a partecipare a una performance, che mi ha scandalizzata perché l’ho ritenuta un’inutile provocazione. Una fila di uomini aspettava in fila indiana di fronte l’ingresso del Pac e di fronte al pubblico “chic” dell’opening, per ricevere 10 euro in cambio di un timbro sulla mano. La performance è stata letta come un’azione politica di protesta, tu cosa ne pensi?

M.S: Non mi ci ritrovo assolutamente, sono molto distante da questo tipo di operazioni, mi sembra un utilizzo umiliante delle persone, è una provocazione che non serve a molto a mio avviso, inutile e forse persino dannosa in un mondo che ne ha viste di mille colori e si è già assuefatto drammaticamente a tutto. L’artista, oggi più che mai, deve essere responsabile delle proprie azioni, deve mettere l’etica al primo posto, altrimenti io non mi sento tranquilla nel rapporto con altri esseri umani. Questo genere di provocazioni sono, passami il temine – un po’ vecchie e non dicono molto al mondo, ma aggiungono solo un ulteriore umiliazione alle persone coinvolte che già ne sopportano tantissime. A New York operazioni del genere non le puoi fare, sono ferite che bruciano, le comunità sono sempre più sensibile alle opere d’arte che le coinvolgono direttamente e che coinvolgono la loro storia, lutti e miseria (si pensi agli episodi che hanno visto coinvolti Walker Art center o la Biennale del Withney, che rispondono con la censura perché l’insorgenza della comunità e della sua ‘offesa’ è così forte che ancora non si capisce come rispondere da parte di una istituzione). Io per avere udienza dagli attivisti afroamericani ho dovuto aspettare 8 mesi, perché loro si convincessero che fossi onesta, perché loro lo sanno che da “bianco” ci si può permettere di parlare di queste cose, ma rimane un atto di white suprematism. Eticamente parlando non si dovrebbero commettere abusi per fare il proprio statement.

S.S: Che tipo di collezionismo è interessato al tuo lavoro, chi è che compra le tue opere?

M.S: Di certo non sono quel genere di artista su cui si fa un investimento di tipo speculativo, ho un profilo più istituzionale, inoltre i miei collezionisti dai più piccoli ai più grandi vedono nell’arte una risposta alle istanze della contemporaneità, è raro che acquistino senza conoscermi, vogliono prima parlare con me e intavolare un discorso, la mia pratica li affascina. Il profilo delle mie gallerie la dice tutta, sono gallerie che lavorano con artisti che si occupano di temi politici e sociali.

SS: Il nostro primo incontro è avvenuto durante Artissima 2016, in occasione della premiazione della sezione Per4m. Ricordo che ci siamo trovate intimante d’accordo nella costernazione che abbiamo provato quando a vincere è stata una non-performance. Perché secondo te la giuria ha optato per quella scelta molto discutibile?

M.S: È sempre difficile parlare di premi, giurie, e del lavoro di altri artisti, sono temi molto delicati, che vorrei non avessero troppa importanza, ma di fatto a volte, non sempre, ce l’hanno. Sarebbe un po’ ipocrita evitare di constatare che ci sono delle forze e delle linee ben definite, all’interno del sistema dell’arte. Ci sono gallerie e artisti che rientrano in dei filoni che sono sostenuti in modo molto energico da quelle forze. Si tratta di un sistema e come tutti i sistemi ha delle correnti di affezione e delle ignoranze, talvolta addirittura snobismo rispetto ad altre sfumature di pensiero, ma credo che quando ho vinto io o altri artisti che ritengo bravissimi, altrettanti abbiano pensato la stessa cosa. Non mi piacciono i concorsi, non dovrebbe esserci questa competitività, sminuisce molto il lavoro e fa perdere il focus, ma per Paesi come il nostro, che non sostengono i propri artisti purtroppo i Grant sono importanti. Tutto dipende da quello che si vuole, scegliere di lavorare con delle gallerie rispetto ad altre è una specifica presa di posizione per esempio, e lo statement, la descrizione di chi si è, passa per tante vie. C’è un grande affollamento nel mondo dell’arte e molti vogliono fare l’artista per motivi che a me sembrano incoerenti e fuorvianti, ma vanno rispettati, tutti. La propria linea si fa chiara, ora a quarant’anni so bene cosa voglio.
La tendenza dell’artista/personaggio pubblico, da rotocalchi, ha molto modificato l’idea di fare cultura, arte e ricerca.

S.S: So che tutte le volte che viaggi per affrontare un nuovo progetto ti impegni a studiare la lingua del paese che ti ospita, quante lingue parli?

M.S: Ne parlo cinque, ma “parlo” anche la lingua dei segni di tre paesi: quella britannica, spagnola e italiana, perché lavoro spesso con i sordi.

S.S: Mi hai detto più volte di essere una nomade, come ti muovi in giro per il mondo, viaggi leggera o trasporti tante cose?

M.S: Adesso viaggio con una valigia e uno zaino. Sto facendo un grosso lavoro su me stessa, cercando di aver bisogno di meno cose, di diventare più “semplice” ma è una cosa recente. Prima spedivo le valigie, che erano tante, piene di oggetti che mi ricordassero ‘casa’, adesso sto cercando di pulire la testa. Capisco di aver avuto bisogno di circondarmi di oggetti familiari perché faccio, paradossalmente, una vita molto solitaria. Adesso mi sento più tranquilla, questo lavoro di “pulizia” investe molti aspetti della mia vita, è una riflessione che ho avviato rispetto anche al concetto di identità e di appartenenza, sono diventata più liquida e fluida.

S.S: Il concetto di identità è simile al concetto di partecipazione di cui abbiamo parlato prima. L’identità non si dà una volta per tutte, ma si negozia di volta in volta in relazione all’altro. Inoltre la crisi del soggetto contemporaneo, così come la crisi sociale e economica, sta determinando cambiamenti epocali. La debolezza del soggetto contemporaneo va intesa, a mio avviso, come una grande opportunità di cambiamento, è la nostra chance di andare avanti e fare i conti con un passato che spesso non ci rappresenta più.

M.S: Certamente. Il passato è un punto nodale della mia discussione. Bisogna capire quanto siamo vittime del passato e quanto ci logoriamo in questo. È un limite enorme, ed è il motivo per cui ho sempre amato l’America. Quando sono in America sono meno melanconica, io in quanto meridionale lo sono molto ed è un tratto che mi appartiene, ma la nostalgia per quello che è stato o per quello che sarebbe potuto essere è molto pericolosa. La debolezza è una parola che uso molto, nella debolezza c’è il possibile e mi interessa molto più questo termine che palare di “futuro”.

The Queens Museum hosts solo show by Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages with public performance on April 9, 2017. Credit: Stephanie Berger

The Queens Museum hosts solo show by Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages with public performance on April 9, 2017.
Credit: Stephanie Berger

Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages - Installation view - Queens Museum di New York © Marinella Senatore

Marinella Senatore, Piazza Universale/ Social Stages – Installation view – Queens Museum di New York © Marinella Senatore

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