Dal leggero tocco al selvaggio caos | Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian alle OGR, Torino

I tre artisti hanno plasmato lo spazio attraverso l’originalità della loro pratica artistica, metodica, eterogenea, imprevedibile e inclusiva...
11 Settembre 2018
Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh, Hesam Rahmanian - Forgive me, distant wars, for bringing flowers home a cura di Abaseh Mirvali - OGR, Torino, Installation view - Photo Andrea Rossetti

Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh, Hesam Rahmanian – Forgive me, distant wars, for bringing flowers home a cura di Abaseh Mirvali – OGR, Torino, Installation view – Photo Andrea Rossetti

Una casamuseo, uno studio d’artista, un set teatrale, una piattaforma di ricerca, una cattedrale di oggetti che raccontano vite precedenti e ne inventano di nuove; in questo si è trasformato lo spazio del binario 1 delle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino per Forgive me, distant wars, for bringing flowers at home (visibile fino al 30 Settembre).

Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian (RRH) hanno plasmato lo spazio attraverso l’originalità della loro pratica artistica, metodica, eterogenea, imprevedibile e inclusiva, che si snoda a spirale a partire da un nucleo composto dai tre artisti – con la loro specifica matrice culturale, che è quella dell’Iran a cavallo della rivoluzione del ’78 – per estendersi a tutte le persone che in qualche modo rendono possibile il loro lavoro, senza alcuna gerarchia e con immensa riconoscenza verso ognuno (come si può notare dalla lista infinita di ringraziamenti che conta 280 persone citate in ordine alfabetico). Un modo di lavorare che rigenera il concetto di collettività e fonde insieme arte e vita.

Espulsi dall’Iran dopo aver attirato l’attenzione del governo per la natura compromettente di un loro lavoro, RRH hanno trovato libertà d’azione a Dubai dove vivono e lavorano insieme dal 2009 in una casa-studio, in cui condividono ogni giorno idee, progetti, pratiche, cibo e sonno, circondati da opere di altri artisti.

Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh, Hesam Rahmanian - Forgive me, distant wars, for bringing flowers home a cura di Abaseh Mirvali - OGR, Torino, Installation view - Photo Andrea Rossetti

Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh, Hesam Rahmanian – Forgive me, distant wars, for bringing flowers home a cura di Abaseh Mirvali – OGR, Torino, Installation view – Photo Andrea Rossetti

Gli ambienti ricreati nel binario 1 riflettono la stessa atmosfera familiare e domestica, grazie alla presenza di tanti pezzi della loro eccentrica collezione privata – con una ricca selezione di oggetti Fluxus – e attraverso la creazione di ambienti che, come set teatrali, diventano capitoli di una narrazione esuberante e armonica. L’ascendenza teatrale della loro pratica artistica è chiara e si manifesta nel ricorso frequente al travestimento, nell’uso di maschere animalesche e costumi di scena, e nel camuffamento attraverso oggetti di uso comune, tutti elementi che danno un corpo unico agli artisti e avviano la loro macchina drammaturgica.

Il primo ambiente come una scatola cinese rispecchia il background di Black Hair, video proiettato al suo interno, innescando un cortocircuito estraniante tra contenuto e contenitore che innerva tutta la mostra. Nel video gli artisti impersonificano diversi protagonisti del mondo dell’arte volgendo uno sguardo sardonico ai meccanismi del mercato e ai ruoli istituzionali: curatore artista collezionista spettatore, in una prospettiva fluida dai confini sfocati e affatto definibili, con una trama stramba e la presenza di una misteriosa ciocca di capelli neri che scioglie la narrazione senza svelare la propria natura.

Nel secondo ambiente il pavimento Slice A Slanted Arc Into Dry Paper Sky registra sul piano pittorico la gestualità messa in atto nel video The Maids, un reenactment de Le Serve di Jean Genet, in cui gli artisti mettono in scena un loro rituale che li vede immersi dall’alba al tramonto in un processo performativo che trova nella realizzazione del pavimento la sua traduzione in pittura, mezzo di elezione del trio.

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I toni si smorzano e si fanno più tenui per raccontare le Collected stories by Niyaz, storie di abusi di donne iraniane, che trovano voce nelle testimonianze scritte sul muro, abbinate a rose e ciocche dei loro capelli, monumento commovente e delicatissimo a ciò che è stato a lungo taciuto. Le stesse storie trovano le loro immagini espiatrici nel tessuto leggerissimo ricamato di Lo’Bat, una struttura semovente di tessuto leggero e bianco che, con la delicatezza e il pudore dei fiori che sbocciano la notte, lontano da sguardi abbacinanti, si schiude soltanto quando il visitatore se ne allontana, svelando stormi di mani che invadono moleste corpi di donne.

Il bisogno di espiazione è un grido sordo che pervade tutta la mostra e il verso rubato a Wislawa Szymborska Forgive me, distant wars, for bringing flowers at home comunica il desiderio di scrollarsi di dosso per un momento il peso di un mondo ingiusto.

La serie di lavori su carta Where’s Waldo? ribadisce questo desiderio, e i frame ingigantiti di immagini di attualità, su cui gli artisti intervengono a livello pittorico, sdrammatizzano l’immaginario del mondo dei disperati viaggi per mare, enfatizzando con una giocosità tragica la loro natura bestiale. I volti dei migranti sono stati sostituiti da facce di animali esotici, alienati o resi astratti da figure geometriche che li trasmutano in figure archetipiche, personaggi di un’epopea mitologica. Le immagini si liberano del ruolo di semplice informazione visiva e ritrovano uno status estetico.

In From Sea to Dawn il meccanismo è il medesimo, gli artisti, lungi dal voler esprimere giudizi morali, aprono a nuovi piani di significazione su cronache fin troppo familiari, attraverso la manipolazione di brani video dei notiziari, montati in un’animazione silente, che crasha la macchina violenta della produzione di immagini mediatiche e ce le restituisce con un ritrovato quoziente poetico.

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La carica tragica viene riconvertita in forza generatrice, così come la distruzione diventa motore di costruzione in The Birthday Party Floor, il pavimento che registra la performance con cui RRH hanno aperto la mostra, limitati nell’azione dalla rinuncia al senso della vista. Ispirata a un testo di Pinter del ’57 gli artisti esasperano le dinamiche illogiche dello shopping contemporaneo in un infinito scartare oggetti a cui decidono che nuovo posto dargli nel mondo. Col volto coperto e sostituito da insalate di gomma, gli artisti come cieche parche decidono le sorti di oggetti inclassificabili la cui utilità s’è esaurita nel tempo o non s’è mai palesata. Il risultato è un’installazione monumentale che tiene insieme i cascami della caduta del consumismo riassemblati durante un rito di guarigione pagano.

“Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo, ma per amarlo” recitava un verso di Bertolt Brecht e spiega tanto del processo artistico di RRH, che tiene insieme pittura, installazione, ricamo, video, performance, con un’incredibile fluidità che sul piano concettuale riflette il tentativo di fondare un paradigma alternativo e originale di produzione artistica.

The Unfaithful Poems, progetto letterario ongoing che chiude la mostra si erge a metafora di un pensiero permeabile che come la sabbia non conosce frontiera. Si tratta della traduzione e riattualizzazione di un poema dello scrittore iraniano Mehdi Akhavan Sales, alla luce degli eventi contemporanei. Un lavoro di riscrittura che lascia ampi margini di sperimentazione plasmando uno spazio d’azione organico, collaborativo, cavo e disposto a mutare sotto spinte sempre diverse e rigeneranti. Quali fiori portiamo a casa da queste guerre lontane? Forse la possibilità di una cultura alternativa, transnazionale, e connettiva, di cui RRH, nel loro status di rifugiati politici sono un simbolo? Un modello di appartenenza a un territorio alternativo a quello determinato geograficamente, capace di mettere in atto una diversità culturale a partire dai concetti di condivisione e collaborazione? A portare quei fiori sono corpi capaci di mettere in crisi un sistema di produzione di identità, e di aprire a transizioni verso spazi politici organici e in mutamento.

Forgive me (but also thank you) for bringing flowers […]

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