Echi e accordi | Intervista a Theo Imani

"Ciò che spaventa, infatti, non è tanto la presenza dell’estraneo, ma la relazione con l’estraneo. Perché essa, vissuta nel silenzio di una prossimità, si inscrive in una circolarità. Una circolarità, come ebbe a dirla Glissant, che 'fa di ogni periferia un centro, e si spinge anche oltre, abolendo la nozione stessa di centro e periferia.'"
27 Novembre 2021
Theo Imani, Dalla serie ‘Echi e Accordi’. Caravaggio, Bacco (1598 ca) e Herbert Lang, Portrait of Manziga, (Avungura), Chief of Azande (1910-1915) (2019-ongoing)

Theophilus Marboah è uno studente di medicina presso l’Università di Pavia. Nato e cresciuto a Verona in una famiglia di origine ghanese è un visual researcher che si occupa principalmente del modo in cui il corpo Nero è rappresentato nell’arte occidentale. In particolare egli declina tale studio, che ha come precedente storico l’enciclopedico The Image of the Black in Western Art di David Bindman e Henry Louis Gates Jr., nel contesto italico. Nel suo lavoro Theophilus Imani indaga la produzione artistica altrui, ma è anche un artista.

Alcuni anni fa ha creato un profilo Instagram in cui ha pubblicato una lunga serie di “Echoes and Agreements” creando un ponte (o frizioni) tra opere d’arte antica europea e opere contemporanee create da autori afrodiscendenti, con particolare attenzione al mondo della fotografia.

Ho intervistato Theophilus Imani in occasione del talk Arte Antica Contemporanea a lui dedicato lo scorso 14 novembre 2021 e da me curato insieme a Mauro Zanchi da BACO, a Bergamo. Guardare all’arte antica italica insieme è stato un modo per discutere della retorica del classicismo e per cercare di vedere insieme il modo in cui la bianchezza, ed in particolar modo la sua radice nel patrimonio artistico nazionale, continui a formare strutture inclusive ed esclusive. Anche attraverso la ripresa dei classici.

Sara Benaglia: Il tuo libro Little Black Book inizia con una citazione di McCray: “We have the power to create new images of blackness”. Questa novità in una tua serie di immagini viene creata attraverso la disposizione di “echi e accordi”, in cui immagini di opere d’arte antica sono poste a confronto con arte africana o fatta da afrodiscendenti: “People of African descent SUBJECT of art, rather than OBJECT of art” (cit. Awam). Questi dittici mostrano una serie di consegne che nella loro totalità e continuum sono la radice della rappresentazione assente del corpo nero, ma al contempo lo inseriscono nella storia. In questo corto-circuito (anche) negli schemi di Warburgh, per aggiunta crei uno strappo. Come è nato questo tuo lavoro?
Theo Imani: Chirlane McCray pronunciò quelle parole inaugurando la seconda edizione di Black Portraiture[s]. La conferenza, tenutasi a Firenze nel 2015, offriva uno sguardo critico sulla rappresentazione del corpo nero nella cultura occidentale. Costruendo un linguaggio per il mio lavoro di ricerca, non sono mai ritornato su quella citazione. Ma mi accorgo ora, grazie alla tua domanda, che il pensiero dell’ex First Lady di New York non apre solo little black book. Apre, in un certo senso, anche la serie “Echi e Accordi.” Al potere di creare nuove immagini della nerezza, si accompagna il compito di offrire nuove letture di questa. Un esercizio che ho voluto proporre nel mio progetto attraverso la creazione di dittici: rime visuali che si inscrivono in una relazione di reciprocità.
La serie è nata un po’ per caso (“Andando imparo dove devo andare,” scrisse Theodore Roethke), in un periodo in cui passavo le giornate a studiare immagini radiologiche. Cercando una via di fuga dalla monotonia bianco-nera delle radiografie, spostai l’attenzione del mio sguardo alle riproduzioni di opere d’arte. Iniziai a prestare ascolto alle assonanze che esistono tra i lavori
di epoche e culture diverse, e mi soffermai sui dialoghi che riflettevano la mia esperienza. Decisi poi di registrare queste corrispondenze attraverso il dittico, la cui forma traduce la dualità che vivo nel quotidiano come soggetto diasporico.

Theo Imani, Dalla serie ‘Echi e Accordi’. Dieric Bouts, Madonna and Child (1465 ca) e ritratto di famiglia

SB: Alessandra di Maio ha scritto che sin dall’impero romano “Italy is a crucial site of the African diaspora”. Ma è vero anche che la diaspora africana è cruciale anche per l’italianità e questo in due accezioni, cioè se da un lato lo stivale è già meticcio, dall’altro la radice italica classica non prescinde da una presunta supremazia bianca. Tu che cosa stai scrivendo?
TI: Non sto scrivendo nulla che non sia già stato scritto: il mio è un semplice esercizio di traduzione, di traduzione visuale. Ma questa pratica, come quella della scrittura, può contrariare non poche persone. La traduzione, come ricorda Antonio Prete, è fare (e far fare, aggiungerei) “esperienza di una dislocazione, di un trasferimento dall’altra parte, in un punto decentrato da cui osservare se stessi e il mondo.” A mio parere, non tutte le persone sono pronte a questa esperienza, a questo passaggio. Perché decentrarsi, e qui prendo in prestito le parole di Toni Morrison, equivale per loro a “perdere il proprio rango razzializzato (…) la propria preziosa e gelosamente custodita differenza.” In questo, la traduzione è simile alla Relazione. Ciò che spaventa, infatti, non è tanto la presenza dell’estraneo, ma la relazione con l’estraneo. Perché essa, vissuta nel silenzio di una prossimità, si inscrive in una circolarità. Una circolarità, come ebbe a dirla Glissant, che “fa di ogni periferia un centro, e si spinge anche oltre, abolendo la nozione stessa di centro e periferia.”
SB: Studi medicina, ma sei anche rappresentato dall’agenzia Wariboko. Tempo fa ho iniziato a scrivere dell’iconografia della gamba nera in relazione ai Santi Cosma e Damiano. Quando hai pubblicato un’immagine del Martirio di S. Cristoforo di Mantegna a confronto con una fotografia di Accra del marzo 2016 ho pensato che fosse il tuo riferimento  visivo, ma tu mi hai detto che è sinestesia, e che queste associazioni sono comuni a più persone ma variano da persona a persona. Che cos’è la sinestesia?
TI: Spesso, riguardando una foto che abbiamo realizzato, notiamo presenze che erano nascoste ai nostri occhi al momento dello scatto. Mentre scattavo la foto, non mi ero accorto della gamba di plastica trasportata dall’uomo. Il mio sguardo era diretto altrove. Verso tre persone che si erano fermate a parlare in una delle vie più trafficate di Accra. Il dettaglio della gamba si è rivelato in un secondo momento; e solo quest’anno, dopo essere ritornato sulle foto del mio primo viaggio in Ghana, quel dettaglio mi ha ricordato l’affresco di Mantegna. Come ti dicevo, a me piace pensare che il legame segreto che unisce queste associazioni non sia dissimile da quello che unisce le relazioni sinestetiche. A differenza di queste, gli “echi e accordi” non muovono dal piano uditivo a quello visivo. Ma proprio come accade in sinestesia, sono involontari e specifici in ogni persona. In Parla, Ricordo, Vladimir Nabokov offre una bellissima descrizione della sua sinestesia. Il suono di una a francese, ad esempio, gli evocava il colore dell’ebano lucente. Lo stesso suono, però, può evocare un’immagine visiva diversa nella mente di un’altra sinesteta. Similmente, l’immagine che colpisce l’occhio ci rimanda ad altre immagini, e queste, come in sinestesia, variano da persona a persona. L’esempio è il dettaglio della mia foto: a me ha ricordato Mantegna; a te l’iconografia della gamba nera.

Theo Imani, Dalla serie ‘Echi e Accordi’. Andrea Mantegna, Martirio di S. Cristoforo (1454–1457) e Accra (March 2016)

SB: Ciò che si sa in ginecologia deriva anche da sperimentazioni eseguite su corpi di donne nere (si pensi, per esempio, a James Marion Sims, tra l’altro fondatore del primo ospedale femminile a New York) e per quanto riguarda la relazione tra riproduzione e razza figurano il caso di Henrietta Lacks e l’esperimento sulla sifilide di Tuskegee. In una recente intervista a Black Coffee hai parlato per esempio del caso che ha visto una casa farmaceutica israeliana coinvolta in un processo di sterilizzazione di donne etiopi, un laboratorio degli orrori che ricorda per certi versi le sperimentazioni legate alla pillola anticoncezionale sull’isola di Porto Rico. C’è un fantasma razziale biopolitico nella medicina contemporanea in Italia?
TI: Oltre a quelli riportati, vorrei menzionare un altro caso che si inserisce nella questione della reproductive justice. La vicenda, avvenuta nell’isola de La Riunione – una regione d’oltremare della Francia non lontana dal Madagascar, che coinvolse il governo francese e i suoi medici, colpevoli di aver indotto aborti all’insaputa delle pazienti. Lo scandalo emerse nel 1970. Ma la violazione dei corpi delle donne accadeva da anni. A Parigi, intanto, lo stesso governo si opponeva fortemente alla contraccezione di emergenza, e l’aborto era punito dalla legge. Analizzando il caso, non si può scorgere la gravità della ferita senza l’aiuto di una lente bifocale. Ne La Riunione, come in Francia, l’utero delle donne era proprietà dello Stato patriarcale; ma nell’isola, abitata da persone nere, l’utero era anche razzializzato. Questo esempio ci ricorda quanto il fantasma razziale biopolitico non sia così estraneo all’Europa postbellica (non dimentichiamo il caso più recente della Repubblica Ceca). Ma non mi spingerei così in là affermando che il fantasma sia presente nella medicina italiana di oggi. Ciò che mi spaventa, però, è l’esistenza, ampiamente documentata in letteratura medica, dei bias razziali. Bias che inducono i medici a sottovalutare i sintomi riferiti da una persona nera, e non ritenere necessaria per questa la prescrizione di visite specialistiche. Questi errori di valutazione – che in non pochi casi diventano l’anticamera di esiti fatali – vanno ad aggravare ulteriormente le disuguaglianze di salute, prodotte dal razzismo strutturale, che colpiscono le minoranze in generale, e i neri in particolare. Negli ultimi anni prende sempre più piede la medicina di genere – per tutelare la salute delle donne, delle persone transgender e non-binarie; è giunto il tempo di esercitare una pratica medica che sia pure “race-conscious.” Anche la medicina ha bisogno di un approccio intersezionale.
SB: “[racism] like misogyny, it is atmospheric.” (Teju Cole), ma seppur aereo genera strutture. Come opera, che struttura ha, la decolonizzazione dello sguardo, della storia?
TI: La risposta è in parte nascosta nella domanda. La citazione di Cole, tratta da “Black Body” – il saggio che apre la raccolta Known and Strange Things, continua, “You don’t see it at first. But understanding comes.” Credo che questo “understanding,” questa comprensione, giunga nel momento in cui iniziamo a guardare ciò che ci siamo limitati a vedere. Questa messa a fuoco dello sguardo è indispensabile per disapprendere, o decolonizzare (se vogliamo usare un termine accademico) i fallaci modelli percettivi che abbiamo introiettato. Modelli che in modo inevitabile generano letture sbagliate, o incomplete, del mondo. Guardare significa disvelare le tracce celate, le informazioni latenti, i segni nascosti. Quei segni che le esigenze morali, come ricorda lo stesso Cole in Punto d’Ombra, obbligano a diventare visibili. Si può quindi dire, e qui trovo aiuto nel pensiero di Ariella Azoulay, che la decolonizzazione è una costante pratica del rifiuto. Il rifiuto di accettare la storia, e le immagini prodotte da essa, come faits accomplis.
SB: Hai contributo con il tuo lavoro a “Pioneers of the Past”: ci racconteresti questo progetto? 
TI: A inizio gennaio, ho avuto il grande piacere di partecipare a “Pioneers of the Past.” Il progetto, promosso dall’agenzia creativa A Vibe Called Tech e il podcast Stance, ha voluto dare luce a creativi neri che, a loro modo, esploravano l’assenza di visualità nere nell’arte. L’occasione di questa iniziativa è stata l’uscita della collezione Gucci X North Face, una collezione che celebra lo spirito della scoperta e dell’esplorazione. Nel progetto, le voci dei protagonisti sono state accompagnate dai lavori di Jazz Grant; un’artista londinese che ha reinterpretato gli autoritratti dei quattro creativi. Oltre a me, Pioneers of The Past ha dato voce ad Alayo Akinkugbe – storica dell’arte e creatrice di @ablackhistoryofart, Renata Cherlise – archivista e ideatrice di @blackarchive.co, e Osei Bonsu – curatore del Tate. Essere in conversazione con loro è stato per me un grandissimo onore. Il loro lavoro di curatela e d’archivio è di continua ispirazione al mio sguardo. E assieme a loro, cerco di proporre un linguaggio creato attraverso rivisitazioni del passato.  

Theo Imani, Dalla serie ‘Echi e Accordi’. Rilievo votivo in marmo a forma di grotta, da Sparta (Laconia) o Megalopoli (Arcadia) 330-320 a.C. in una fotografia di Jonathan Bachman e Ieshia Evans a Baton Rouge (2016)
Theo Imani, Little Black Book (2020)


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