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CROSS COLLECTION. Collezioni a confronto | Raccolta Lercaro, Bologna

Fino al prossimo 18 settembre la Raccolta Lercaro di Bologna ospita la grande mostra collettiva Cross Collection. Collezioni a confronto, a cura di Leonardo Regano e Francesca Passerini. Le sale della Raccolta ospitano un’orchestra di echi visivi e formali tra 11...

CROSS COLLECTION. Collezioni a confronto | Raccolta Lercaro, Bologna – Kiki Smith / Francesco Gennari

Fino al prossimo 18 settembre la Raccolta Lercaro di Bologna ospita la grande mostra collettiva Cross Collection. Collezioni a confronto, a cura di Leonardo Regano e Francesca Passerini
Le sale della Raccolta ospitano un’orchestra di echi visivi e formali tra 11 opere provenienti dal nucleo permanente e i lavori di 27 artisti, selezionati a partire dal corpus di una prestigiosa collezione privata bolognese. Il percorso espositivo, articolato in alcune sezioni del piano terra e del piano interrato, si struttura in cinque atti associati ad altrettanti temi di fondo: il corpo, il ritratto, il linguaggio, le tematiche sociali e la natura morta. 

L’atrio è occupato dal grande specchio-installazione progettato da Nanda Vigo per la Raccolta nel 2016. La sua concavità accoglie il visitatore e ha un corrispettivo in Rivolto (2008) di Sissi, situata di fronte: un’opera in tessuto intrecciato che richiama la forma dell’utero, la culla della vita entro cui si condensa la corporeità. È con questo abbraccio materno che il visitatore si addentra nella prima sezione, sulle cui pareti tre grandi opere dialogano strettamente sul piano visivo, avendo tutte per protagoniste il corpo nella sua dimensione più fisica. La tela VB.LD.004.94 (1994) di Vanessa Beecroft mostra un ventre e un braccio femminili in tinte rosate e pulsanti, pezzi di un’identità ormai disgregatasi. I curatori, durante la presentazione stampa, lo hanno descritto come “un corpo frammentato e scomposto, analizzato in maniera sintetica e naïf, vicino all’Art Brut”. Crudamente carnale, la sagoma franta di Beecroft si misura con Traccia per un circo (1969) di Ilario Rossi: qui sei sagome nude e senza testa fluttuano in un liquido amniotico di sensazioni, che le pervade in profondità. Sul muro di fondo, il grande pastello su carta Lying on Clouds (2016) di Kiki Smith offre una possibilità di redenzione dai peccati della carne. Santa Genoveffa, soggetto ricorrente nelle opere dell’artista americana, è mostrata all’acme dell’estasi, sospesa su un letto di nuvole. Le screpolature della carta evocano la soffice materia del sogno mistico, che culla un corpo “quasi lievitato”. Due opere, visibili affacciandosi sul piano interrato, aprono la fisicità ad una riflessione esistenziale. La tela Senza Titolo (2019) di Adam Gordon mostra una sagoma emaciata, che infonde nel suo sguardo tutta l’angoscia dell’umanità. Accanto, altrettanto imponenti, i tre crocifissi sofferenti nella carne e nello spirito del Calvario (1965) di Vittorio Tavernari. Il dolore che divora e svuota dall’interno trova una metafora in Clessidra M (2010) di Giorgio Andreotta Calò, che si affaccia dal piano terra: la fusione in bronzo di un palo di ormeggio di Venezia corroso dall’acqua della laguna. 
Voltato l’angolo si supera la frontiera della carne e ci si addentra nei meandri dell’interiorità, mediante tre declinazioni del tema del ritratto. Del duo Vedovamazzei sono esposti i “ritratti spezzati” di Marguerite Radclyffe Hall (2019) e Lucia Joyce (2020), dipinti in cui il volto delle persone rappresentate è reso enigmatico da vistose lacune nel supporto, così da tratteggiare per sottrazione identità complesse: una scrittrice dichiaratamente lesbica nell’Inghilterra post-vittoriana e la figlia di James Joyce, vittima di disagi psichici per una vita passata a viaggiare, incapace di mettere radici. 

CROSS COLLECTION. Collezioni a confronto | Raccolta Lercaro, Bologna Vedovamazzei / Ilario Rossi
CROSS COLLECTION. Collezioni a confronto | Raccolta Lercaro, Bologna

Il ritratto fotografico Kemijärvi, 1991 (2004) di Esko Männikkö è un’istantanea di vita facente parte di un reportage compiuto dall’autore nelle proprie terre di origine, in Finlandia. Infine, se si guarda al concetto di “ritratto” nella sua accezione più allegorica, Avendo se stessi come unico punto di riferimento (2004) di Francesco Gennari è la fotografia in bianco e nero di una lumaca bloccata all’interno di un ricciolo di panna, in una situazione esistenziale nella quale è impossibilitata a compiere qualsiasi azione. Vi si riflette l’atavica difficoltà umana nel rapportarsi col prossimo e la tendenza a rifugiarsi in prigioni dorate di auto-isolamento. 
Ma l’essere umano è costretto, volente o nolente, ad interfacciarsi con i suoi simili. Per questo sviluppa i più svariati codici di comunicazione, allo scopo di trasmettere concetti e sensazioni. La sezione dedicata al linguaggio si articola intorno a Vis-à-Vis (Amazzone) (II) (2019) di Giulio Paolini, in cui le due metà simmetriche di una testa in gesso, copia del volto dell’Amazzone di Policleto, si scrutano negli occhi appoggiate, a mo’ di bassorilievi, contro una tela bianca. Su di essa è tracciata una grande “x”, che visualizza il chiasmo di sguardi. Cosa abbiano da dirsi i due volti, l’uno specchio dell’altro, rimane un enigma. Language Infinity Sphere (Recording) (2018) di Rosa Barba è un vortice di lettere, impresse da una sfera di caratteri tipografici. Il segno perde ogni connotazione semantica e diventa puro elemento decorativo, tessera di un pattern visivo. Hope (2018) di Eva Marisaldi è il termine ultimo di una matrioska di suggestioni: durante un viaggio in Africa l’artista si trova davanti ad un tempio in stile cinese e decide di rappresentarlo tramite la giustapposizione di migliaia di elementi cilindrici in PLA di diametro variabile (anch’essi “lettere” di un alfabeto puramente visivo), che se visti da una certa distanza restituiscono la sagoma diafana dell’edificio; quasi un miraggio nel deserto. Tuono (2017) di Mario Airò è un’emblematica rappresentazione dell’impossibilità di rappresentare, della crisi di ogni codice linguistico. Un’enorme superficie si offre priva di contenuto e solo ai suoi margini svela l’esistenza di un messaggio recondito e inaccessibile: un filo di nylon si arriccia in volute lungo tutto il perimetro, affiorando come una ramificazione di vene sotto la pelle della carta. L’opera, prodotta tramite l’ausilio di un tavolo aspirante da restauro, è un esplicito omaggio alle infinite variazioni sul bianco di Robert Ryman. Ennesima esternazione di un messaggio non-sense, Mister Mother (2012) di Giuseppe Gabellone è un groviglio di lettere affioranti nella terza dimensione, come radici che fuoriescono dal suolo.

CROSS COLLECTION. Collezioni a confronto | Raccolta Lercaro, Bologna. Neil Beloufa
CROSS COLLECTION. Collezioni a confronto | Raccolta Lercaro, Bologna. Giuseppe Gabellone

Al piano interrato trovano collocazione i lavori che affrontano tematiche di natura sociale, in particolar modo connesse ai flussi migratori. Protagonista è lo scontro simbolico tra due opere, tutto giocato sui regimi valoriali del colore. L’opera video Zen (2000) di Adel Abdessemed mostra l’atroce tentativo di sbiancare un ragazzo nero versandogli addosso del latte, alimento primordiale universalmente condiviso che ora si fa sinonimo paradossale di una violenza silenziosa.
Di fronte alla proiezione, l’installazione permanente di Ettore Spalletti Croce di colore (2010) coniuga invece il rosso del cielo e l’azzurro della terra in un ambiente illuminato a giorno, aprendo la strada ad una riconciliazione cromatica. Seguono, l’una accanto all’altra, Without owning (2020) di Margherita Moscardini, una “riflessione sul vivere senza possedimenti, tradotta in calligrafia infantile”, risultato della visita di un campo di nomadi siriani in Giordania, e una stampa fotografica dalla serie Romanistan (2018) di Luca Vitone: una riproduzione della bandiera del popolo Sinti, che coniuga l’azzurro del cielo e il verde dei prati solcati nelle sue migrazioni secolari dal Punjab fino in Europa. Dal lato opposto Senza Titolo (E la Chiesa lo sa che la verità è trina) (2016) di Mario Dellavedova riconfigura ironicamente l’associazione comunista tra falce e martello, ottenendo la croce cristiana e, per suggestione, anche la mezzaluna musulmana. Chiude la sezione sociopolitica l’opera Senza Titolo (Bologna) (2010) di Francesco Arena, una lastra di marmo su cui un macchinario ha inciso ripetutamente i nomi delle vittime della Strage di Bologna del 1980, fino al punto da determinare il distacco della zona incisa. Lo squarcio evoca la voragine prodotta dall’esplosione, ma anche il vuoto lasciato da chi se ne è andato. 
Ritornati sui propri passi al piano terra, le nuance lucide e opache degli specchi graffiati di Ghana 79 (2018) di Flavio Favelli fanno da cerniera all’ultima sezione, dedicata alla natura morta, che si apre con un dialogo a tre voci: l’aggregato di teiere Barissements (1994) di Arman, la Natura morta con bottiglia (1939) di Filippo De Pisis e la fotografia di Anna Franceschini Did you know you have a broken glass in the window? (2020), un paesaggio umbratile dominato da un calice spezzato. Il tema dell’intervento antropico sulla natura trova espressione in Poppies (2010) di Stefano Arienti, una stampa digitale di un campo di papaveri alterata mediante un intervento di cucitura, e in Bastard in Disguise (2006) di Nico Vascellari, frutto dell’assemblaggio di un tronco d’albero e del suo calco in gesso, con inserzioni di elementi di metallo, dicotomia tra la “dimensione sciamanica del tronco” e la “cultura musicale metal al centro della ricerca dell’artista”. L’ultimo cortocircuito tra le due collezioni messe a confronto è quello vigente tra la grande tempera Michael Mexico Beach 2018 (2019) di Monica Bonvicini, rappresentazione dell’impatto di un uragano su di una cittadina della Florida in un bianco e nero serafico e straniante, e Cortile di Via Fondazza (1934) di Giorgio Morandi, quieto incastro a scacchiera di volumi geometrici. Su tutto il percorso espositivo dominano i moniti, tra il serio e il faceto, di Giuseppe Chiari: L’arte è finita – smettiamo tutti insieme. Guttuso anche (1965) e Se questa è arte tu sei pazzo (1982).

CROSS COLLECTION. Collezioni a confronto | Raccolta Lercaro, Bologna. Eva Marisaldi