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Arie a fuoco | Galleria Lorenzo Vatalaro

[nemus_slider id=”56870″] In questa galleria antiquaria in zona Brera, c’è un pezzo d’arte unico, solitamente difficile da vedere e da trovare. È un piccolo bassorilievo in bronzo patinato, tardocinquecentesco, che rappresenta una pietà maschile, dove il Dio Padre stringe a...

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In questa galleria antiquaria in zona Brera, c’è un pezzo d’arte unico, solitamente difficile da vedere e da trovare. È un piccolo bassorilievo in bronzo patinato, tardocinquecentesco, che rappresenta una pietà maschile, dove il Dio Padre stringe a sé e chiude in un abbraccio energico il figlio, Cristo. Quante volte vi è capitato di non trovare Maria che piange sul figlio morto, ma il padre di questo? Qui il sentimentalismo esasperato e l’intensità affettiva sono restituiti dal pathos espressivo di due uomini forti e massicci, barbuti. Ma non solo da questo. I tessuti che costituiscono il vestiario di entrambi sono mossi da un turbinio ventoso che scompiglia e disordina. Il mantello viene sobbalzato in aria, e si dispone attorno al Padre in forma circolare, ne crea l’aureola. È come se l’amore filiale (al di là della spiritualità della situazione) svegliasse il vento, per stringere in una morsa i due, in una simultaneità di morte e resurrezione. Qui l’artista (ignoto) cerca di mettere a fuoco l’invisibile, l’immaterico, ciò che può sì essere percepito, ma non con i cinque sensi. Questa volontà di scoprire e capire l’incorporeo, per poi darne testimonianza, è il filo rosso (o almeno uno dei fili rossi) che riunisce le opere qui esposte, di artisti sia contemporanei che passati, d’epoca manieristica o tardomanieristica. C’è poi una terracotta di scuola bolognese che accenna a una sembianza femminile (ora acefala), dipinta poi di bianco (di cui rimangono poche tracce). Senza testa e senza braccia, resta il tronco, o forse neanche quello. Viene percepito solo il gioco di drappi e drappeggi, di aria e vento, che fa del corpo scultoreo un sovrappiù alla materia. Quasi come una Nike di Samotracia in miniatura (sicuramente presente nella mente forgiante dell’artista), questa statua sembra pronta a mischiarsi all’aria che ha fatto fiorire le vesti del Padre e del Figlio di prima. Della Scuola di Fontainebleau, invece, è un piccolo dipinto su ferro rappresentante una Diana che, con la sua effige, fa il bagno. Attorno a lei, rovine, alberi, il piccolo laghetto… e figure umane volutamente caricaturali, brutte, deformi, semi-chiuse in vesti slacciate. Spesso ci capita di vedere nei musei piccoli quadretti di artisti minori. Quante volte ne scorgiamo le peculiarità cozzanti? Qui l’antico, selezionato e isolato, respira ancora, risplamandosi, poi, nelle opere di chi, contemporaneo, ne è (non nell’intenzione, ma nel bagaglio che si porta sulla schiena) interprete. Ecco allora una silhouette che Corrado Levi ha realizzato partendo da un disegno di nudo di Pontormo. Qui un piccolo specchietto tondo, ancorato al piede, punto del desiderio, è rivolto alla figura stessa, rispecchiandone la sagoma, restituendone un segmento, uno scorcio. Ma in quello scorcio quel corpo si è messo a fuoco, almeno in una parte di questo (non siamo noi uno e tanti?). Di Yari Miele è sempre un accenno, ora minimalissimo, al corpo umano, in una croce metallica fissata a parete. Questa forma riassume in due linee un corpo da cui sorgono, invece, fogge corspuscolari come fossero nuvolette bambine vestite di panni frastagliati. Angelo Mosca ha esposto due dipinti che ricordano sia la pietà bronzea sia i bagnanti dipinti qui presenti. Ma le figure sono evanescenti, o forse vane e basta, per i contorni imprecisi, i colori polverosi, le linee smorzate. È come se la stessa aria che ha scomposto i drappi di prima, qui avesse confuso e torturato colori vivi e linee piene. Di Elia Gobbi è, infine, un papiro che dal soffitto si srotola seguendo la parete, fino ad arrivare a terra. Il colore è rosso sangue e la sua superficie è come quella di un letto fluviale scomposto dal vento.

Ecco, la superficie è qui quello che soprattutto affiora di queste opere e a cui lo spettatore è attratto. La patina della pietà, quella dei colori fulgidi del dipinto di Diana, quella fosforeggiante delle nubi di Miele, quella corrosa della donna acefala, quella brunita di Levi, …

«È nostro compito ravvisare le ricorrenze, il ripetersi archetipico dei motivi, le immagini insepolte che si ridestano e si riaffacciano alla nostra mente: epifanie minime, avanzi della storia, presenze intempestive, accumulo di energie a scoppio ritardato, paradosso dell’istante che si libera dal perpetuo divenire solo per consonarsi al nostro divenire, per saldarsi a un ulteriore ritmo della storia che batta al ritmo dei nostri polsi» (Alberto Mugnaini).

Arie a fuoco,   veduta della mostra
Arie a fuoco, veduta della mostra
Angelo Mosca,   E fu cosi? che ci apparve un cavallo nella notte,   2016
Angelo Mosca, E fu cosi? che ci apparve un cavallo nella notte, 2016
Corrado Levi,   Giocatore atterrato: da Pontormo,   2015
Corrado Levi, Giocatore atterrato: da Pontormo, 2015
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