“Ho conosciuto Carla B. casualmente, rispondendo al telefono; e per molti mesi ho ricevuto sue telefonate interurbane più volte al giorno. Carla che da tempo aveva ridotto al massimo ogni sua attività, sentiva il bisogno di inserirsi il più possibile nella mia vita, di farsi introiettare comunicandomi continuamente il suo malessere. Non difendendomi particolarmente da questa penetrazione e dalle sue conseguenze, per comunicare anche in altro modo, le ho proposto di fotografare qualcosa e di inviarmi le sue foto. Facendo queste foto Carla si è accorta che la macchina fotografica le conferiva un ruolo diverso, di fotografo, tale da giustificare la sua presenza, i suoi gesti, un suo dialogo con altri, in situazioni dalle quali normalmente si esclude. Non ho mai visto Carla B.”.
Questo testo unisce alcuni brevi estratti dattiloscritti che, insieme a piccole fotografie in bianco e nero scattate al mare da un’altra persona, costituiscono Foto di Carla B. (1978), opera di Anna Valeria Borsari. Si tratta infatti della raccolta di fotografie che Carla B., donna da lei mai conosciuta e paziente di suo marito (psicanalista).
In Da qualche punto incerto, mostra antologica che il Museo del Novecento dedica ad Anna Valeria Borsari (Bazzano, 1943), quest’opera è installata vicino a Senza Titolo [Ritratto di Carlo Gajani] (1967). Mentre l’artista sta realizzando un ritratto a matita di Carlo Gajani, questi le scatta una fotografia. I due ritratti compongono un dittico, un’opera che vede la fotografia quale strumento relazionale, che invita ad un incontro, in linea con quanto sostenuto da Carla Lonzi negli stessi anni in Autoritratto (1969).
Da qualche punto incerto racconta l’attività artistica di Anna Valeria Borsari dagli anni Sessanta ad oggi. Nella sua ricerca, che attraversa cinque decenni, l’artista si interroga – sin dai suoi esordi – sull’identità, sullo statuto della rappresentazione e sul ruolo dell’artista nella società, anche secondo un fare etico.
Con una formazione logico-linguistica all’Alma Mater di Bologna, Anna Valeria Borsari affianca studi accademici improntati alla logica, alla linguistica e alla filosofia del linguaggio ad un’attività artistica articolata. Nei primi anni Settanta il medium da lei privilegiato è quello fotografico, mantenendo tuttavia un approccio peculiare con la casualità in una ricerca volta all’incontro autentico con le cose.
Nelle sue serie fotografiche degli anni Settanta Borsari evidenzia l’impossibilità di definire la realtà attraverso le immagini.
ACB è C BA C? (1975) è composta da due fotografie in bianco e nero di un medesimo viale alberato ed una frase scritta in corsivo sotto le stesse: “Fotografando un percorso rettilineo dalle sue due estremità ne avremo le immagini? ACB e C BA C; ma ACB è C BA C?”. Questa osservazione e fotografia del paesaggio mette in crisi la possibilità di formalizzazione del nostro sguardo sulla realtà. Nel 1976 Borsari compone Testimonianze e Chi ha vissuto qui /Qui ha vissuto, nelle quali l’interazione tra la fotografia del proprio personale e la didascalia indaga la dimensione dell’essere testimoniati per essere individui, ma anche la perdita di queste tracce nel presente. Questo tema sarà poi articolato negli anni successivi in chiave neometafisica ed emblematica – come scrive Giorgio Zanchetti , uno dei curatori della mostra– anche attraverso pittura, video e installazioni.L’indagine di Borsari sul medium fotografico è declinata anche attraverso Narciso (1977), un trittico in cui un giovane uomo si riflette in uno specchio sino ad esserne assorbito o annullato, e La stanza di Narciso (1977), che articola i dettagli dell’ambiente di questa caduta, composto da immagini e da un testo, che analizza le radici linguistiche sanscrite, greche e latine del termine italiano “specchio”.
Dal 1977 la pratica concettuale di Borsari si apre al pubblico e all’ambiente in cui rinuncia all’idea di autrice unica dell’opera, per limitarsi ad evidenziare e raccordare le situazioni da lei create in un discorso poetico. Vi è in lei l’accettazione della cancellazione del soggetto e quindi anche delle sue opere, un approccio discordante rispetto alla “monumentalizzazione” occidentale del soggetto e dell’artista.
Nella relazione con il pubblico e l’ambiente alcune sue opere si dissolvono o quel che resta è la natura effimera di un gesto artistico, come in Fiori a distanza (1978), esposti ad x una mostra al Mulino Freyes di Torino, da lei inviati in mostra tramite un servizio a domicilio. “Questi fiori che non ho visto con i miei occhi e questo biglietto che non ho scritto con le mie mani, come il nostro linguaggio e i nostri riti, sono elementi simbolici, sostitutivi di una reale presenza, potete distruggerli insieme e potete conservarli. Probabilmente io conserverò i fiori che ho visto con i miei occhi ed il biglietto che ho scritto con le mie mani”.
L’intervento senza un medium esterno rispetto all’opera rappresentata, fatto utilizzando nel reale oggetti reali, riduce la distanza segnica tra rappresentante e rappresentato. La ricerca di Borsari si mostra per non essere una riflessione interna alla specificità mediale, ma piuttosto è tesa a sfumare i confini tra la sfera dell’arte e quella della vita, scrive Giulia Kimberly Colombo nel catalogo della mostra.
Dall’inizio degli anni Ottanta Anna Valeria Borsari realizza, anche con interventi simbolici, opere site-specific (una definizione questa che eredita una certa categorizzazione contemporanea dell’arte che tuttavia non si confà totalmente all’opera di Borsari).
È il caso di Donna isola e ponte (1982), installazione ambientale su una piccola isola alluvionale sul fiume Reno, in cui una silhouette antropomorfa è intuibile per deformazione prospettica solo dalla linea ferroviaria Bologna-Milano. L’immagine verrà presto riassorbita dall’ingrossarsi del fiume, per smaterializzarsi poche settimane dopo la sua realizzazione. Di questa operazione resta memoria solo attraverso le immagini fotografiche o il racconto. La consumazione dell’opera, l’erosione delle sue tracce, contraddistingue anche Il grande naufrago (1986), un’installazione di pietre in cui una grande mano pare aggrapparsi alla riva del Lago di Monate. In entrambi i casi siamo lontane dai presupposti teorici della land-art in favore di un mimetismo dell’operare nel paesaggio che implica la scomparsa delle proprie tracce, ma anche il venir meno del contratto enunciativo che si sta stabilendo. Perché ciò che è detto essere verrà trasformato di lì a poco in modo imprevedibile. Perdendo la forma.
Qualche anno prima, nel 1977, era stato il suo Autoritratto in una stanza a perdere la propria iconografia tradizionale per espandersi in tracce sensibili, in una tensione che porta la forma a perdersi nella struttura della realtà.
Nella fotografia L’orto privato del custode del museo (1977-78) vediamo busti ottocenteschi lasciati a terra in un giardino in una condizione di degrado. Il mutare dei tempi porta opere un tempo culturalmente riconosciute a poter cambiare posizione, importanza e urgenza o meno di conservazione.
L’antologica Da qualche punto incerto è un’operazione non scontata del Museo del Novecento, in cui il lavoro sottile di Anna Valeria Borsari viene portato sotto i riflettori. Per riconoscere a questa figura intellettuale lo statuto di innovatrice dei linguaggi del contemporaneo. Nonostante la sua figura abbia seguito un percorso non convenzionale nell’arte, ma forse proprio per questo capace di un’indipendenza di pensiero e fare caratteristico di chi non cerca visibilità o grandi promozioni.
Anna Valeria Borsari. Da qualche punto incerto
A cura di Giorgio Zanchetti e Iolanda Ratti
Con la collaborazione di Giulia Kimberly Colombo
Museo del Novecento
10.09.2021-13.02.2022