The Habit of a Foreign Sky | Milano

I progetti composti appositamente a seguito dell’affidamento di uno spazio dedicato, in The Habit of a Foreign Sky innescano non solo una proiezione, ma anche una negoziazione tra la localizzazione di una periferia circoscritta e di molti centri diffusi.
21 Settembre 2016

Mancano pochi giorno all’apertura di “The Habit of a Foreign Sky”: una mostra collettiva che riunisce una serie di artisti non solo accomunati dall’essere della stessa generazione, ma anche uniti da strette relazioni d’amicizia, prima che professionali. L’intento del progetto è quello di indagare le peculiarità delle loro ricerche e inclinazioni, la loro disposizione ad “abitare un cielo straniero, un cielo contrario. All’interno di una casa che non è ancora casa e che solo i loro lavori, soggetto e oggetto della domesticità, renderanno tale. In un luogo in cui, improvvisamente, anche nella propria terra d’origine, il cielo dei soffitti, la prospettiva dell’abitare si trasforma in elemento estraneo, straniero, straniante. Sebbene nulla, talvolta, rispetto alla connotazione delle loro origini, in realtà, sia cambiato As Children, who remain in Face / The more their Feet retire.”

La mostra è ospitata negli spazi di Futurdome: un progetto pilota che ha preso avvio pochi mesi fa a Milano per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Gli spazi suggestivi del palazzo liberty poco lontano da Corso Buenos Aires, progettato nel 1909 dall’architetto Rezia e concluso nel 1913, vede all’opera Enrico Boccioletti, Guglielmo Castelli, Alessandro di Pietro, Michele Gabriele, Diego Miguel Mirabella, Giovanni Oberti, Ornaghi & Prestinari, Valentina Perazzini e Jonathan Vivacqua.

Suggestivo l’incipit della mostra, un verso di Emily Dickinson, motivato dalla curatrice Ginevra Bria: “The Habit of a Foreign Sky è una negoziazione dell’impossibilità, da parte di un soggetto plurale, ad adottare un’inclinazione a risiedere; fattore che, nonostante l’apparente facilità nel ritrovarsi al di fuori di un ambiente protettivo, in una metropoli di case, nella condizione di trapiantato, talvolta obbliga a far indietreggiare la propria posizione sul pianeta terra, e a proclamare un ritorno, che mai coinciderà, nel tempo, con il punto di partenza.”

Abbiamo posto alcune domande ad Atto Belloli Ardessi – direttore artistico di Isisuf (Istituto internazionale di Studi sul Futurismo) e progettista che ha riqualificato lo stabile – e alla curatrice Ginevra Bria per capire e approfondire alcuni aspetti di questo progetto.

ATP: “The Habit of a Foreign Sky” è una mostra che attraversa – e sviscera – il concetto di ambiente domestico e, più in generale, di spazio abitabile. Come è nato questo interesse tanto da farlo diventare la griglia concettuale per una mostra?

Ginevra Bria: In verità, anche se potrebbe apparire paradossale, l’impianto strutturale della mostra si basa non tanto su un’analisi dello spazio domestico, quanto sulle condizioni che l’arte pone nei confronti del suo stato transitorio, dello statuto effimero dell’abitabilità. Le opere degli artisti selezionati devono innescare una riflessione, una messa in discussione dello spazio sovvertendo il concetto di macchina per abitare. Ciascun dispositivo, dalla scultura, all’installazione, dalla fotografia all’applicazione a parete, sottolinea la presenza di invasori, di occupanti pronti a violare le regole del vuoto diuturno espositivo. La loro missione, nel confrontarsi con l’intimità di una casa, è quel che accomuna la maggior parte degli artisti selezionati: attivatori che dedicano, da tempo, un’attenzione inusuale al concetto di rivelazione dello spazio, attraverso definizioni di cieli stranieri, di regni estranei e stranianti. I loro progetti composti appositamente a seguito dell’affidamento di uno spazio dedicato, in The Habit of a Foreign Sky innescano non solo una proiezione, ma anche una negoziazione tra la localizzazione di una periferia circoscritta e di molti centri diffusi. Trovarsi di fronte a uno spazio appartenuto da sempre ad altre generazioni di occupanti, restituito come neutro alla contemporaneità, dopo essere stato già vissuto e plasmato, necessita di applicazioni mentali nei confronti di fitti, talvolta labirintici condizionamenti ambientali. Sebbene a ciascuno degli artisti sia stata conferita massima libertà d’esecuzione e nessuno dei loro lavori debba fronteggiare sovrastrutture della casa, come il mobilio, gli oggetti e soprattutto le abitudini di abitanti rituali. L’artista deve concentrarsi sulla vita delle opere. Gli spazi sono architettonicamente funzionali e tecnicamente al rustico: è impossibile riscontrare, ad esempio, una porta che non si chiude, una stanza troppo piccola, padroni di casa esigenti o fin troppo gentili, l’insistenza curiosa di un vicino, il colore delle pareti o del parquet poco congeniali. Non esiste la confusione della quotidianità, e la sua impellenza non rientra, a tutti gli effetti, nel processo creativo, non contribuendo, non incidendo quindi nemmeno allo sviluppo dei lavori concepiti per la mostra.

ATP: La mostra sembra svilupparsi in modo indelebile dentro lo spazio in cui è ospitata. Mi racconti la natura dello spazio espositivo? Come è stato trovato?

Atto Belloli Ardessi: Se, universalmente, il termine indelebile comprendesse anche un’estensione del concetto di nascita e di prosecuzione, così come di generazione autotrofa unica di un progetto, non sovrapponibile a null’altro nel tempo e nello spazio, allora sottolineerei la natura incancellabile rispetto alla storia e rispetto a Milano di FuturDome. Oserei dire che non siamo stati noi a trovare l’edificio, ma è il palazzo del 1913, e dal 1913, ad aver trovato noi. FuturDome, in via Giovanni Paisiello 6, è uno fra gli edifici propriamente liberty della città, progettato nel 1909 dall’architetto Rezia e concluso nel 1913, in prossimità di Corso Buenos Aires. La sua celata monumentalità e la dirompenza della facciata si contrappongono all’austerità e alle simmetrie del neoclassicismo tipico della zona. Degna di nota è l’introduzione del cemento come materiale scultoreo per il palazzo, materiale che poi prenderà rapidamente piede nella scultura Liberty. Il Palazzo è uno stabile costituito da un corpo centrale prospiciente la via di 5 piani fuori terra e da due corpi interni che si collegano al principale con geometria ad ”L” più bassi di un piano. Nonostante le guerre, non è stato rovinato dai bombardamenti ed infatti, ha conservato il suo splendido lignaggio di facciata e ricercatezze nei decori cementizi. Il palazzo grazie all’alta qualità dei decori è stato oggetto di pubblicazioni ed è annoverato tra gli esempi particolari di Liberty Milanese. Meta di riferimento ed incontro per gli artisti milanesi che aderirono al Futurismo è ancor oggi spunto estetico per artisti internazionali che più volte lo hanno incluso nelle loro opere. FuturDome è un piano di riqualificazione urbana attraverso un progetto di housing di un abitare, di un risiedere museale. FuturDome-Un Museo che si abita è un progetto nato a Milano ma destinato a replicarsi in altre città. Generato dal desiderio di riqualificare antichi spazi di rilevanza storico-culturale, prende forma come un nuovo concetto di ospitalità: totalmente scardinati dagli stereotipi della residenza canonica, parti comuni e appartamenti si trasformano in possibili spazi espositivi. Questo nuovo concetto di housing, conferma in FuturDome la vocazione di Milano per l’innovazione e la sperimentazione anche in campo residenziale.

Alessandro di Pietro,   Attico,   Installation view,   FuturDome Milano,   agosto 2016,   ph. Floriana Giacinti

Alessandro di Pietro, Attico, Installation view, FuturDome Milano, agosto 2016, ph. Floriana Giacinti

ATP: L’incipit della mostra è un componimento di Emily Dickinson. Perché questa scelta e quali ‘aperture’ consentono le sue parole?

Ginevra Bria: The Habit of a Foreign Sky è il solo verso, di un frammento più ampio (821, Emily Dickinson, 1864), a dichiarare e a definire una complessità. Una capacità negativa di acquisire, di assumere l’abitudine a sentirsi appropriati verso un tratto di spazio, simbolico e deduttivo; una disposizione che prevede l’adattamento ad una prospettiva propriamente definita. Il cielo qui non è più unico, non più sostanza emblematica dell’estremità e principio di permanenza dell’essere. Ma sganciato dalla sua fondazione radicale, il cielo viene a trovarsi in una sorta di stato decaduto, o involuto, un segno di sopravvivenza scisso, ripartito. Quando la volta emisferica -che sembra limitare verso l’alto la nostra visione e la cui base circolare pare posare sull’orizzonte- viene ridotta alle ragioni di essere e di non essere, essa decade dalla trascendentalità ontologica, restringendosi ad esprimere la fissità di una contraddizione.

The Habit of a Foreign Sky è una negoziazione dell’impossibilità, da parte di un soggetto plurale, ad adottare un’inclinazione a risiedere; fattore che, nonostante l’apparente facilità nel ritrovarsi al di fuori di un ambiente protettivo, in una metropoli di case, nella condizione di trapiantato, talvolta obbliga a far indietreggiare la propria posizione sul pianeta terra, e a proclamare un ritorno, che mai coinciderà, nel tempo, con il punto di partenza. Anche nella pianificazione di un progetto espositivo, dal titolo The Habit of a Foreign Sky, il termine cielo acquisisce il senso di una limitazione logica che contiene un interrogativo, una contrarietà inattesa. L’ovvia incognita è che abitare nella possibilità (celebre verso-proclamazione di Emily Dickinson nel frammento 657, I dwell in Possibility – / A fairer House than Prose – […]) e risiedere nell’indefinitezza significa inevitabilmente sottrarsi ad una sola definizione imposta da un ambito domestico, qualunque spazio esso sia o lo rappresenti. Attualmente lasciare casa provoca in noi, a causa degli eventi di cui siamo testimoni diretti in Italia, dalle emigrazioni a violenti terremoti, l’effetto di una presa di coscienza, di una diversa considerazione dell’Altro, del prossimo

ATP: Gli artisti selezionati sono, più o meno, tutti della stessa generazione. C’è un particolare criterio che ti ha guidato nella loro scelta?

Atto Belloli Ardessi: Il percorso, attraverso stanze, appartamenti, cantine, sotterranei ha presunto, ancora prima della sua effettiva realizzazione, le facoltà potenzialmente alienanti dei lavori inseriti in spazi privati. Linguaggi inattesi di cui ogni ospite può fare esperienza nel momento dell’incontro con l’opera che potrà evidenziare la visualizzazione della fragilità e della dimestichezza di circostanze familiari. Diventa necessario dunque assorbire ogni significato della mostra lungo l’arco di oltre mille metri quadrati, per arrivare a comprendere il senso di misteriosa penetrazione di unità che hanno spinto l’arte a pervadere regioni dalle quali si è rimasti esclusi per numerosi decenni, immedesimandosi nelle persone che hanno abitato quei luoghi come un’esperienza tra esclusione e inclusione. La maggior parte degli artisti selezionati per The Habit of a Foreign Sky, interpreta in maniera straniante questa insolita possibilità di una resa ambigua dello spazio tra pubblico e privato, spesso creando interventi disarmanti e non immediatamente comprensibili, né riconoscibili; progetti mirati a suscitare nello spettatore un senso di disorientamento, nonostante la familiarità degli ambienti, invasi come un terzo complesso, tra le superfici interne e il loro rovescio. L’alloggiamento domestico viene quindi interpretato anche come territorio di attraversamento collettivo dai lavori che creano ambiti segnaletici, apportando ritmi di visita e scritture visive diacroniche, attraverso contributi uniformi, in loro stessi compiuti e site specific. Per la maggior parte di loro è un momento per instaurare rapporti con un pubblico più o meno scettico nei riguardi dell’arte contemporanea, che finalmente si cala in alvei casalinghi dall’intimità aperta, e permette di raccontarsi da vicino, ricreando un intervallo, un interstizio confidenziale.

Stiamo vivendo anni in cui l’arrivo di popolazioni, di migranti e rifugiati porta all’esterno, su suolo Italiano la catastrofe comunitaria di individui singoli. The Habit of a Foreign Sky deve diventare una sorta di protezione dell’individualità, offrendo, al tempo stesso un’analisi sull’individualità medesima, e deve segnare la storia dell’abitare nella possibilità di case pubbliche, pronte a diventare dominio privato.

ATP: La mostra è anche presentata come una “sorta di terzo spazio, di liquido di controllo che si posiziona tra il mondo dell’arte e il quotidiano, dove ogni convenzionale dualismo possa essere infranto e, allo stesso tempo, progettato”. Mi Spieghi meglio questa definizione di “terzo spazio” in relazione alla mostra?

Ginevra Bria: Una volta in FuturDome si comincerà a scoprire una parte privata di Milano, condividendo la sua storia e la sua intimità con altri visitatori. Nella circolarità del corpo di un edificio, ci si potrà sentire quindi parte di un tutto, come in una sorta di manifestazione sacra, rituale. Come se l’aura dell’opera d’arte, momentaneamente persa perché sradicata da un contesto legittimamente istituzionalizzato, ma fruita comunque da una comunità ampia, si riproponesse in una domesticità da riscrivere.

I lavori allestiti in appartamenti non finiti, ma aperti e dediti ad ospitare The Habit of a Foreign Sky escludono la necessità dalla funzione dell’abitare, oltrepassando tematiche come memorie, alienazioni, rimozioni, trasferimenti e relazioni familiari tradizionalmente italiane, retaggi probabilmente derivanti dal concetto di proprietà della casa. In questo contesto si deve attivare, ad esempio, un superamento dell’idea che una femminilità, e una differente occupazione degli spazi a seconda dell’appartenenza di genere -legata ad un domicilio-, possa raggiungere una diversa prospettiva, utilizzando la sfera domestica per colpire ogni riserva politica o estetica della morale casalinga. La familiarità dell’ambiente domestico viene qui sfidata e il suo significato ricondotto dalla categoria pubblico-privato a pubblico-ricettivo, in questo modo non solo un’audience di addetti ai lavori, ma anche coloro che abitano il vicinato di FuturDome possono muoversi attraverso gli appartamenti riadattandoli a piattaforma di analisi, di mediazione tra sistema dell’arte, curatori, critici, galleristi, collezionisti e semplici curiosi. Si individua così la funzione dello spazio espositivo, posto come terzo polo tra il mondo esterno e il quotidiano, dove le convenzioni di ogni dualismo possono essere spezzate, interrotte e riprogettate. Un territorio a sé stante, un terzo agglomerato, dunque, che risulta né positivo né negativo, fornendo un’esperienza che raggiunga un sovvertimento delle strutture esistenti del potere culturale centralizzato; uno spazio che interroghi il concetto di domicilio e che funga da collegamento tra le diverse istituzioni indipendenti che stanno nascendo a Milano, compresi anche i numerosi artist-run space.

Jhonathan Vivacqua,   Terzo piano a destra,   Installation view,   FuturDome Milano,   agosto 2016,   ph. Floriana Giacinti

Jhonathan Vivacqua, Terzo piano a destra, Installation view, FuturDome Milano, agosto 2016, ph. Floriana Giacinti

ATP: Alcuni mesi prima rispetto all’inaugurazione della mostra, alcuni appartamenti in FuturDome, hanno ospitato in residenza tre artisti: Alessandro Di Pietro, Diego Miguel Mirabella e Jason Gomez. Quale è lo scopo di questa residenza e il suo esito?

Atto Belloli Ardessi: La casa è sempre una forma di protezione nei confronti del corpo umano e delle relazioni che per lui intercedono nella realtà di una vita intera. In questo caso, però, l’abitazione ha permesso a tre artisti, due italiani e un americano, negli ultimi mesi (ricordiamo anche il passaggio del brasiliano André Komatsu, qualche anno fa), di partecipare in prima persona al processo di riqualificazione dell’edificio, di selezione dei materiali, di lavorazione degli appartamenti, di evoluzione del cantiere; stadi che hanno offerto loro la possibilità di osservare dall’interno il processo di crescita degli appartamenti e di poter lavorare con i materiali innovativi utilizzati in FuturDome. Abbiamo affidato loro non solo un appartamento che servisse come studio, come laboratorio, ma abbiamo anche dato il consenso che si utilizzassero spazi più ampi come modelli espositivi per i loro collezionisti o i loro galleristi. Inoltre, grazie al sostegno di Knauf Italia, siamo riusciti a offrire ad ognuno degli artisti invitati per la mostra un fee che ha premesso l’indipendenza scientifica e produttiva dei lavori, espressamente inediti. La stampa delle opere bidimensionali, é stata invece sviluppata con Pixartprinting, azienda con cui gli artisti sperimentano nuovi materiali. Assegnare ad ognuno degli artisti, in residenza, così come in mostra, tanto un piccolo budget quanto uno spazio definito, ha sensibilizzato e responsabilizzato ognuno di loro che, in qualche modo riteniamo, o meglio, ci auguriamo, abbiano sviluppato una sorta di appartenenza imperitura al luogo. Senza dimenticare i progetti personali e le nuove serie che sono scaturite a seguito del risiedere in FuturDome.

Stiamo per invitare la città e la sua memoria di matrice storica ad essere coinvolta, a presentarsi non all’interno di un rifugio, quanto piuttosto nella mostra collettiva di un territorio finito e assegnato; un arcipelago di nove personali che sono misura ricettiva di pubblici differenti, in uno spazio posto a funzione del singolo e della sua persona fisica. Allo stesso tempo, luogo di intermediazione e di una comunicazione urbana. Ogni appartamento, ogni mostra personale presenta l’importanza dell’arte nell’approccio soggettivo verso la realtà: l’arte, fra ambienti abitativi e cantine, diventa un medium per ottenere la libertà che molto spesso il proscenio domestico assorbe e vieta, non ponendo condizioni espressive ottimali. In queste unità abitative, l’arte e la città si riuniscono in case private innescando una reazione contro l’idea di esclusività, di isolamento e individualismo degli spazi che mantengono la connotazione di luoghi ospitanti, altamente riconoscibili e assoluti: con una porta d’ingresso, un corridoio, una cucina, una camera da letto, un soggiorno e una toilette; componenti che formano una cornice psicologica e fenomenologica di supporto, tra intimità e rottura nei confronti di una dimensione interiore. Nel penetrare ogni ambiente chiunque deve avere la sensazione di entrare non in una casa e nemmeno, semplicemente, in una mostra, ma più direttamente in un’opera d’arte ampliata, radicata, spalmata lungo pareti, soffitti e pavimenti, ricreando un’illusione. L’illusione di essere parte del mondo e il confronto con questa apparenza: perché ogni ambito privato è sempre proiezione di un dominio pubblico, secondo diverse scale. E viceversa.

ATP: Tutti i lavori esposti sono il frutto di un attento ascolto dello spazio. In breve mi racconti le ricerche e/o proposte degli artisti?

Ginevra Bria: In The Habit of a Foreign Sky, i lavori emergono come prese di possesso temporanee, protesi narrative di architetture interne, con possibilità di livelli di lettura amplificabili a seconda di diverse varianti; lavori privi di un aspetto univoco predominante secondo il quale analizzarli, ma tutti intrinsecamente volti a valorizzare il rapporto tra lo spettro della soggettività e lo spazio privato. Alcuni artisti interpretano il vuoto domestico cercando di ripristinare l’equilibrio tra una pragmatica del lavoro, il loro studio verso il quale sono riconoscenti conoscitori e il palazzo, ricreando un contesto allestitivo a sé stante, caratterizzato da rinnovate codifiche. La casa viene utilizzata come contenitore in cui l’artefice inserisce interventi esecutivi, facendoli diventare, di riflesso, un luogo in sé e per sé, un limite, un orizzonte neutro, predisposto a cancellare le tracce degli abitanti, passati e a venire. E’ il caso di Valentina Perazzini, che svuota le stanze a disposizione e le trasforma in un ambiente per la sintesi di natura. Alessandro Di Pietro, nell’attico, invece, crea spazi di meditazione lontani dalla quotidianità e immersi nel silenzio della parola, dove qualche oggetto isolato si manifesta come una presenza simbolica di informazione della memoria, scatola nera di un personaggio mai esistito.

Il rapporto tra il pubblico e il privato, e il labile confine esistente tra queste due sfere, come nel caso di Ornaghi&Prestinari, resta la tematica principale di una coppia di artisti che con le loro sculture di design mette in discussione il rapporto tra l’istituzionalismo espositivo, l’ambiente della casa, il limite dei materiali e il ruolo dello spettatore. Mescolando realtà e finzione, questa coppia prova a dare una risposta alle problematiche derivate dall’organizzazione della mostra stessa e da quel che le soggiace in termini strutturali, analogamente alle installazioni intrusive di Jonathan Vivacqua. Il ruolo dell’ambiente del cantiere e il contesto sociale esterno, ad esso collegato, acquistano un’importanza fondativa nell’elaborazione degli interventi selezionati e conformati, valorizzando, ad esempio, negli stralci corporali di Guglielmo Castelli, discipline e applicazioni. Alcuni di loro assemblano non solo soluzioni plastiche amalgamate in funzione dello spazio ( Michele Gabriele), ma soprattutto in previsione degli abitanti della casa con i quali instaurano un rapporto di visionaria, anteriore prossimità ( Enrico Boccioletti).

Dal punto di vista dei visitatori, l’obiettivo di un’esperienza diretta della fruizione dell’opera arte può non essere del tutto raggiunto: la ristrettezza degli spazi, paradossalmente, sovraespone i lavori, come ricordano gli interventi di Diego Miguel Mirabella, poiché, pur avendo una visione maggiormente interagente dei lavori, rimangono comunque sulla soglia tra esistente ed esistito, mantenendo, a loro volta, il ruolo di abitatori, di invitati, di ospiti. I reali, futuri padroni di casa, invece, che ricorderanno, attraverso la riproduzione di immagini e alcuni lavori incastonati permanentemente nell’edificio, quel che è intercorso fra i muri degli appartamenti, potranno vivere l’opera giorno per giorno, in remoto, indirettamente, ma diventandone i secondi protagonisti immanenti. Lo scambio continuo tra artista e padrone di casa, ben evidente nel salotto dal cielo giallo di Giovanni Oberti, porterà l’uno a mettere continuamente in discussione pratica e autonomia estetica -dovendo scendere a compromessi- e l’altro a scoprire di persona una realtà, un tempo sovrapposta, ma integra e contingente.

Guglielmo Castelli,   Seminterrato,   Installation view,   FuturDome Milano,   agosto 2016,   ph. Atto Belloli Ardessi

Guglielmo Castelli, Seminterrato, Installation view, FuturDome Milano, agosto 2016, ph. Atto Belloli Ardessi

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