Simona Andrioletti e Filippo Marzocchi sono i vincitori della seconda parte di HIGHLIGHTS, dopo il primo appuntamento che ha ospitato Valentina Furian e Letizia Scarpello. I progetti sono stati selezionati dalla giuria internazionale composta da: Domenico De Chirico (curatore indipendente), Stefano Raimondi (curatore, Presidente The Blank) e Driant Zeneli (artista e direttore artistico di Mediterranea18).
Tra gli obiettivi di The Blank Residency, vi è la creazione di una rete internazionale di residenze per favorire la circolazione di artisti di tutte le nazionalità.
HIGHLIGHTS è un progetto realizzato da The Blank in partnership con FARE, con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”.
Claudia Santeroni ha intervistato i due artisti —
Claudia Santeroni – Simona, nel tuo lavoro “Chinese Whispers” una poesia di Ungaretti viene letta da sette persone di differenti nazionalità, nella loro lingua madre. Le voci a un tratto si sommano, rendendo la fruizione impossibile, un brusio multilingue indecifrabile. Agli astanti veniva dato un libretto con le differenti traduzioni, chi voleva poteva farsi tatuare il verso conclusivo “Cerco un paese innocente”, in un secondo momento sono state prodotte delle sciarpe con la stessa citazione. Sembra che il lavoro iniziale funzioni da detonatore per esperienze plurime.
Simona Andreoletti – Sì, hai ragione. Solo una premessa: Chinese Whispers nasce da una collaborazione con Riccardo Rudi, artista e graphic designer. Il lavoro parte da una riflessione sulla poesia Girovago di Giuseppe Ungaretti il cui protagonista vive nella continua ricerca di “una parte di terra” in cui “potersi accasare” ma se ne “stacca sempre straniero”. Per la realizzazione del lavoro, come hai accennato, sono stati coinvolti sette madrelingua – italiano, inglese, cinese, hindi, spagnolo, arabo e francese – ognuno di loro è stato registrato mentre recitava la poesia nella propria lingua madre. Oltre all’italiano, lingua originale della poesia, le lingue scelte sono le sei più parlate al mondo e tutte le persone coinvolte nella lettura, per diversi motivi, hanno lasciato le proprie nazioni di origine. L’installazione sonora, composta di sette altoparlanti montati su stativo e disposti in cerchio, è concepita come un’orchestra che i fruitori possono seguire grazie ad un libretto – che veniva consegnato all’entrata della fondazione Federkiel München da una performer – contenente la poesia nelle diverse lingue. Come accade spesso alla fine di un concerto in cui è possibile acquistare delle t-shirt con il nome della band e le date del tour, durante l’opening, si potevano acquistare delle sciarpe da stadio riportanti l’ultimo verso della poesia “Cerco un paese innocente”. Sono state realizzate due edizioni di sciarpe: una riportava su un lato il verso tradotto in francese e sull’altro lato lo stesso verso in arabo, la seconda edizione riportava invece il testo in hindi e inglese. Quello che ci interessava è che la sciarpa, riutilizzando le tue parole, funzionasse da “detonatore di esperienze”: chi indossa la sciarpa di Chinese Whispers, infatti, diventa portavoce e sostenitore del messaggio di Girovago, e, quell’indumento diventa un pretesto per innescare una conversazione a riguardo.
Come nel gioco del telefono senza fili, passando da orecchio a orecchio, il messaggio iniziale assume gradualmente diverse connotazioni, nello stesso modo, il messaggio di “Girovago” di volta in volta viene raccontato diversamente a seconda delle esperienze personali di chi ne parla. Questa “perdita” è un problema che abbiamo voluto incontrare già nel momento in cui abbiamo deciso di tradurre la poesia in altre sei lingue; traducendo abbiamo, infatti, dovuto “Dire quasi la stessa cosa”, per citare un libro di Umberto Eco sulla traduzione, in favore dello scopo primo del lavoro: diffondere il messaggio della poesia il più possibile, tema che, fra le altre cose, sentiamo particolarmente attuale. Anche i tatuaggi temporanei che citavi e che venivano applicati dalla performer che distribuiva i libretti, hanno uno scopo divulgativo. Probabilmente, gli spettatori che, tornati a casa dopo la mostra, avranno voluto cancellare il tatuaggio, avranno dovuto insistere con una spugna sopra il tatuaggio rileggendo più e più volte “Cerco un paese innocente” metabolizzandolo. Chinese Whispers è stato inoltre, per noi, incontrare i sette madrelingua per le registrazioni e i discorsi nati rispetto al tema del “sentirsi straniero”.
CS – Per il progetto pensato per la tua residenza a Bergamo, collabori con due classi del Liceo Artistico della città. Lo puoi raccontare argomentando anche come, ammesso che accada, la collaborazione con i ragazzi influisca sul lavoro?
SA – Il progetto che ho proposto e realizzato durante il periodo di residenza a TheBlank, s’intitola Google.it! ed è un progetto, come dicevi tu, in collaborazione con le classi 4D e 4F del “Liceo Artistico Statale Giacomo e Pio Manzù”, l’artista e graphic designer Riccardo Rudi e Bros, artista conosciuto per i suoi interventi nel contesto urbano. Google.it! è il risultato di incontri e conversazioni fra me, gli studenti, Riccardo e Bros e nasce da alcune riflessioni sull’orazione pronunciata dallo scrittore Alberto Moravia ai funerali di Pier Paolo Pasolini e da una lettera scritta da Umberto Eco al nipote adolescente al quale spiega l’importanza di allenare la memoria e l’importanza del sapere. Durante il mese a Bergamo ho incontrato diverse volte i ragazzi del Prof. Enrico de Pascale ai quali ho introdotto la mia ricerca artistica e ho presentato il progetto Google.it! che li avrebbe coinvolti. Ho chiesto a ogni studente di pensare ad alcune frasi, pensieri, citazioni che li abbiano particolarmente impressionati leggendo un libro, vedendo un film, ascoltando una canzone, cambiando qualcosa nel loro modo di pensare e di vivere; quel genere di citazioni che un lettore sottolinea in una pagina, trascrive in un’agenda o annota su un tablet. Ogni contenuto è stato accolto a partire dalla citazione tratta da un testo di musica Trap alla citazione di Jorge Luis Borges. Il patto con gli studenti è stato quello di consegnare una citazione che realmente li avesse colpiti. L’intento del lavoro è attivare una sorta di “propaganda culturale” che partisse da contenuti scelti dagli studenti. Durante la residenza ho organizzato nello studio di TheBlank un paio di incontri con Riccardo Rudi. Insieme ai ragazzi abbiamo pensato a come trattare le citazioni che avremmo poi distribuito per la città sotto forma di flyers. Ragionando sul concetto di fanzine, in altre parole una pubblicazione indipendente realizzata con mezzi accessibili, economici e immediati (Alta tiratura / basso costo), abbiamo ragionato sul come sarebbe possibile, oggi, diffondere dei contenuti con immediatezza e comunicarli con i mezzi che il contemporaneo ci offre. Si è così deciso di aprire un account Instagram collettivo “google.it_project”…
Rifacendosi all’estetica delle copertine delle fanzine e riproducendole utilizzando gli strumenti che Instagram offre, gli studenti hanno prodotto, con i loro smartphone, delle Instagram stories contenenti le loro citazioni. Le stories, ora salvate nelle Highlights del nostro account, sono state stampate in bianco e nero su carte colorate in 1200 copie. Gli studenti hanno distribuito questi flyer ai passeggeri in stazione, sui treni in attesa della partenza, ai passanti in centro per lo shopping, li hanno nascosti all’interno di libri in alcune librerie… spesso fermandosi a raccontare del progetto ai passanti. Le stampe delle stories sono state, inoltre, raccolte in un booklet che è stato lasciato da Shaki Tattoo, un negozio di tatuaggi di Bergamo, e mischiato tra i portalistini e le riviste contenenti esempi di possibili tatuaggi. Durante gli incontri, insieme ai ragazzi, si è inoltre decisa la grafica delle magliette che abbiamo prodotto in serigrafia nel laboratorio Pigmenti Tantemani. La maglietta riporta sul petto il QRCode che rimanda al nostro account Instagram mentre sul retro sono contenute, in un flusso continuo, le citazioni. A tutti gli studenti che hanno partecipato al progetto sono state consegnate due magliette: una che terranno per sé e l’altra che dovranno regalare a un’altra persona nel tentativo di ri-innescare il meccanismo di divulgazione. Al termine di queste attività è stato il momento di incontrare Bros che, in un primo momento ha introdotto ai ragazzi la sua ricerca e, in seguito, grazie all’utilizzo di stencil sui quali abbiamo intagliato le citazioni, abbiamo realizzato un “murale orizzontale” come fosse una sorta di tappeto d’ingresso all’entrata del Liceo Artistico di Via Torquato Tasso. Nella mia ricerca artistica mi trovo spesso a collaborare con persone non legate al mondo dell’arte lasciando che queste interferiscano nel processo di realizzazione delle opere. Anche in questo caso, gli studenti sono stati fondamentali nella realizzazione del progetto e, addirittura, in alcuni frangenti, hanno cambiato le modalità di realizzazione che avevo inizialmente previsto.
CS – “Collaboration is an integral part of Simona Andrioletti’s artistic approach”, si legge, infatti, nel tuo statement, scritto da Olaf Nicolai, che è stato tuo professore così come Gregor Schneider e Simon Starling. Quanto e come ha influito la possibilità di relazionarti ad artisti-docenti di questo calibro?
SA – Avere la possibilità di conoscere personalmente i tre artisti che hai citato ha sicuramente giocato un ruolo importante nel mio percorso artistico ed è una delle principali motivazioni che mi hanno spinta a trasferirmi a Monaco di Baviera. Conoscevo quegli artisti, ammiravo il loro lavoro e li volevo incontrare. Ricordo che, quando feci il colloquio d’ammissione con Gregor Schneider, mi chiese il perché volessi entrare a far parte della sua classe; gli dissi che avevo letto tanto del suo lavoro, l’avevo visto in diverse mostre, mi piaceva quello che faceva e volevo parlare con lui! Mi fa sorridere ora che ci penso… Anche a Olaf devo molto, quando parli con lui del lavoro, ha sempre intuizioni e soluzioni geniali in serbo e una caterva di riferimenti sempre mirati. Riesce a non creare discepoli o cloni di se stesso come spesso capita a molti bravi artisti che insegnano e spinge parecchio i giovani artisti nei quali crede. Sono sicuramente artisti che mi hanno dato molto.
CS – Filippo, oltre alla tua ricerca ti occupi anche alla gestione di “Gelateria Sogni di Ghiaccio”, spazio bolognese dedicato alle ultime ricerche del contemporaneo. Come si colloca quest’attività rispetto a quello che fai individualmente come artista? Agli artisti contemporanei è richiesta elasticità al punto da dover essere contestualmente artisti e organizzatori?
Filippo Marzocchi – Gelateria è nata da un’attività precedente in collaborazione con Mattia Pajè, dove organizzando delle mostre ricercavamo sul rapporto tra artista e curatore e sul processo di produzione di opere. In questi termini considero l’esperienza di GSG quasi come una pratica artistica, dove la direzione non era il fine ma un mezzo per rispondere ad alcune domande. Dopo questa prima esperienza, abbiamo deciso di utilizzare parte del nostro studio per ospitare un programma di eventi. Avevamo voglia di lavorare con nuove persone e ci piaceva l’idea di portarle a Bologna; la città è stata un altro elemento che ci ha spinto in questa direzione, sentivamo che c’era un terreno fertile su cui lavorare ed era il momento giusto. Io, personalmente, ho trovato molto stimolante il lavoro di direzione artistica perché mi ha permesso di conoscere da vicino come lavorano artisti che ammiro e imparare qualcosa da loro; inoltre ci interessava molto l’idea di creare un gruppo di giovani e crescere assieme. Una caratteristica, infatti, del nostro spazio è di essere un luogo vivo, un punto di ritrovo dove le persone hanno la possibilità di vivere lo spazio e incontrarsi. Questo penso che abbia contribuito nel suo piccolo alla maturazione della scena artistica bolognese. Scena che esiste anche grazie al lavoro di tanti altri tra cui LOCALEDUE e Tripla che negli ultimi anni hanno portato avanti come noi dei progetti simili e dove nel caso di Tripla sono anch’essi artisti. Tutto questo è nato in maniera naturale da alcune esigenze, credo che sia stato molto utile per me come spero lo sia stato per altri, ma c’è da considerare che è stato anche un grande impegno che mi ha preso tempo ed energie oltre a quelle del mio lavoro individuale. Quindi, in conclusione, non credo che sia un’elasticità che ogni artista deve avere oggi, piuttosto un’esigenza personale definita dal panorama culturale in cui si vive.
CS – In “Fabric – 8 channel soundscape” realizzata a Londra nel 2016 i performers raccolgono i suoni dello spazio mentre tu, dalla console, li campioni e organizzi, come un direttore d’orchestra. Avevi scelto di dipingere le braccia dei performers di giallo, un tocco di colore eccentrico e decontestualizzato, che fa pensare alle campiture dei tuoi dipinti. Suono, pittura, performance, il tuo lavoro è un crogiolo di linguaggi.
FM – La multidisciplinarità è una mia attitudine, fa parte della mia formazione caratterizzata dallo studio di musica e arti visive e fa parte della mia pratica odierna. Spesso ho lavorato in maniera site specific, considerando lo spazio e il contesto in cui mi trovavo, anche questo credo abbia stimolato il mio utilizzo di più linguaggi. Ho sempre stimato artisti che utilizzano differenti tecniche con disinvoltura, la sfida è parlare sempre in maniera chiara e coerente. Fino a oggi ciò che ha guidato la mia pratica artistica è stato un sistema concettuale e filosofico che ne fa anche da propulsore; le tecniche sono dei mezzi dei quali mi servo per procedere nella ricerca. Un tratto distintivo per tracciare il mio lavoro credo sia una modalità operativa. Sia le mie performance sia i lavori pittorici si contraddistinguono per la loro immediatezza e la loro capacità di essere dei dispositivi che agiscono sul fruitore senza avere necessità di dichiararsi esplicitamente. Sono delle esperienze che agiscono incondizionatamente su chi fruisce l’opera e che lasciano campo all’interpretazione critica. Prendendo in considerazione gli ultimi due anni mi sono concentrato principalmente su due tecniche, sound performance e pittura; non so prevedere in futuro ma sento che ho bisogno di rimanere libero e seguire ciò che m’interessa e che esprima al meglio quello che voglio comunicare.
CS – Dal tuo statement: “L’investigazione è radicata nella comprensione e nell’osservazione della vita umana e della percezione della realtà contemporanea. Il complesso delle sue opere riflette sullo spazio e sul tempo cercando d’indagare la struttura, le leggi della percezione e la possibilità di trascendere o sovvertire il tempo presente”. Credi che questo trapeli guardando i tuoi lavori? Esiste corrispondenza tra quello che si scrive sul tuo lavoro e quello che effettivamente ne trae il fruitore?
FM – Personalmente mi piace scrivere poco dei miei progetti, infatti cerco di descrivere in maniera tecnica e breve le cose che faccio senza dare un’interpretazione. Credo che scrivere di arte possa diventare un limite a meno che non si speculi in maniera approfondita su di essa; lo statement, inoltre, è un concentrato ermetico proprio per la sua struttura sintetica. Il compito di un artista è comunicare attraverso il lavoro e questo deve tentare di essere indipendente dalla critica. Quello che il fruitore vive attraverso un’opera, invece, è stabilito dall’artista nella struttura di essa: alcune opere hanno più controllo sul messaggio da trasmettere mentre altre sono totalmente soggette all’interpretazione personale. In questi anni ho lavorato su questo tema nelle mie opere, in passato ho controllato forse di più ciò che il fruitore volevo ricevesse; nel tempo, però, ho lasciato sempre più spazio a una fruizione meno controllata. Prendendo ad esempio le pitture della mia ultima serie e le performance sonore, in entrambe coesiste un lato più riconoscibile; nelle tele, ad esempio, può essere la ricerca sull’icona attraverso i telai, nelle performance invece la struttura concettuale. E’ come se in entrambi i casi fossero dei dispositivi su cui poi applico dei segnali, delle scie di suono, delle linee di colore; queste hanno la funzione di agire sull’osservatore, di provocare delle modificazioni, degli eventi nella loro percezione. In questo modo io, oggi, ricerco sulla rappresentazione della realtà, cioè costruisco dei contatti diretti con la percezione del fruitore. Spesso il mio obiettivo è stato appunto tentare di risvegliare una sorta di “coscienza”; come si può vedere nella foto-performance Now, dove la parola “adesso” essendo una deissi, ogni volta riporta il fruitore che legge al tempo presente. O nella performance Crouch, bind, hello dove, applicando delle sirene addosso ai giocatori di una squadra di rugby, questi producono delle scie sonore che agiscono sulla percezione del fruitore. Con questo intendo dire che al momento non m’interessa dare troppe spiegazioni a chi vive una mia opera d’arte. Ciò che m’interessa è che le opere siano in qualche modo dei dispositivi, che agiscano in maniera quasi incondizionata su chi osserva, in modo che il fruitore non necessariamente le comprenda razionalmente bensì le recepisca all’interno della propria sfera sensoriale e percettiva.
CS – Viaggiare, per passione e per il proprio lavoro, conoscere altri artisti, fare studio visit, frequentare gallerie musei, partecipare a residenze, informarsi su riviste e cataloghi di settore… cosa è richiesto a un giovane artista contemporaneo per essere “al passo coi tempi”? C’è una modalità preferibile, oppure ogni caso è a sé stante e c’è chi può esimersi da tutto questo senza che vada a discapito della propria affermazione?
SA – Credo che ogni caso sia a sé stante, non c’è una ricetta. Probabilmente è possibile esimersi da tutto ciò ma credo sia abbastanza difficile. Personalmente non riuscirei a immaginare la mia vita senza quello che hai elencato sopra, vado alle mostre e frequento i luoghi in cui succedono, per me è la normalità, uno dei miei maggiori interessi. Una delle ultime mostre che ho visto è stata quella di Mika Rottenberg al MAMbo di Bologna curata da Lorenzo Balbi, ecco, quella mostra è stata una di quelle che ti mette voglia di tornare in studio! Credo che viaggiare sia fondamentale per un artista, per me lo è sempre stato.
Un lavoro come Chinese Whispers, probabilmente, non sarebbe stato prodotto se non mi fossi trasferita in Germania e nemmeno Google.it! se non avessi fatto la residenza qui; questo vale anche per lavori più vecchi e più legati a immagini naturali, non credo avrei realizzato Summit se non fossi stata in Nepal, I was Here se non avessi vissuto in Australia e così via. Ho spesso sentito la necessità di spostarmi sia per conoscere come funziona il sistema dell’arte in altri stati ma anche per il piacere di vedere cose nuove, immagini vere e non digitali. Ho necessità di vedere cosa succede e cosa stanno facendo gli artisti della mia generazione, di fare studio visit e ragionare con altre persone sul mio lavoro. Nel tuo elenco hai anche citato la partecipazione a residenze… Credo che le residenze siano per gli artisti la perfetta combinazione tra la possibilità di vivere in un posto nuovo e l’inserirsi, sin dall’inizio, in un contesto legato all’arte contemporanea. Al mio rientro continuerò a mandare application per altre residenze!
FM – Il tema di aggiornarsi è presente, non so quanto sia una necessità. Ammetto che il mio tempo lavorativo si costituisce di due fasi: ricerca e produzione da un lato, promozione dall’altro. Durante la ricerca sento il bisogno di non vedere niente, cerco di non guardare nulla che mi possa influenzare in alcun modo. Ho bisogno di rimanere all’interno della mia ricerca e non voglio corromperla o deviarla e questo fa si che in certi periodi ignori la scena artistica quasi totalmente e mi assenti anche dalla letteratura, specialmente la saggistica. Ciò che rimane sempre sono musica e cinema. Ci sono periodi, invece, dove assorbo contenuti per ore, guardando mostre e online. Questo processo penso che mi permetta di vedere cosa succede oggi e riassorbirlo indirettamente nel mio lavoro col tempo. Infine, collegandomi alla prima domanda, devo dire che la pratica di direzione artistica ha portato a documentarmi sulla scena in Italia e in parte anche all’estero. Attraverso Gelateria ho potuto incontrare molte persone e lavorarci assieme, sia italiani sia stranieri e questo contribuisce ad arricchire le conoscenze in una maniera anche molto naturale. Allo stesso modo, per produrre una programmazione che non ripeta gli artisti che si vedono solitamente in altri spazi ci vuole impegno, che consiste nel visionare materiali, siti e conoscere personalmente il lavoro di altri artisti. Tuttora un po’ ingenuamente mi chiedo se questa fase di aggiornamento e promozione sia realmente necessaria e molto dipende da che cosa ci si aspetti dall’arte. D’altro canto, però, credo che per maturare la propria pratica ci siano alcuni passi da fare in una carriera, quindi progredire con esperienze di qualità che aiutino a sviluppare la propria ricerca. Questo si fa confrontandosi con persone brave nel proprio lavoro e lo si fa anche attraverso i fondi necessari, tutte cose che richiedono un impegno nella società. Quindi, direi che è molto personale come tema, qualcuno potrebbe isolarsi e produrre tutta la vita, altri hanno bisogno di stare in mezzo alle persone e forse anche l’età ha il suo ruolo. Personalmente io amo l’arte, mi piace vedere come si evolve e cosa dicono altri artisti, mi piace informarmi e al momento mi piace stare in mezzo alla gente.
Nella mia ricerca artistica utilizzo differenti tecniche, come dici suono, performance e pittura sono le principali, penso che il motivo di questa mia indole multidisciplinare sia un insieme di fattori. Certamente la mia formazione musicale mi ha portato a includere il suono e il live. Il punto di partenza del mio lavoro è una ricerca concettuale, le tecniche sono dei mezzi dei quali mi servo per procedere nella ricerca e mi piace sperimentare (spiegare come tutto coesiste sotto un unico soggetto/ riconoscibile). Negli anni ho ristretto il campo concentrandomi su alcune di esse, per approfondire un discorso e utilizzare in maniera matura la tecnica. In ogni modo sento che ho bisogno di rimanere libero e seguire ciò che m’interessa ed esprima al meglio ciò che voglio comunicare. Non voglio rinchiudermi nel tecnicismo o nella fobia della riconoscibilità, o almeno al momento non m’interessa. In occasione di quella performance a Londra il braccio colorato di giallo era un elemento che avevo visualizzato un po’ irrazionalmente, un’immagine. In seguito ho capito che il colore mi aiutava ad accentuare il processo dove braccio e microfono erano un’unica protesi che effettuava la raccolta del suono e questo lo vedevo come la rappresentazione parziale della percezione di ogni performer. Fino a non molto tempo fa non mi sono sentito particolarmente legato a un linguaggio in particolare, o meglio forse ero affascinato da diversi. Ne sono motivo la mia formazione musicale e visiva e la mia operatività site specific; ho spesso sviluppato i progetti lavorando sullo spazio e il contesto in cui mi trovavo e utilizzando anche elementi del luogo. Tutto è sempre stato legato alla mia ricerca concettuale, questa è ciò che guida e spinge anche la mia pratica artistica. I miei lavori nascono dall’esigenza di rispondere a delle domande e spesso ho trovato necessario usare la tridimensionalità e anche la vitalità delle cose.