Prendono avvio venerdì 16 giugno, al PAV – Parco Arte Vivente di Torino, tre giorni dedicati ad artisti emergenti impegnati nell’indagine artistica naturale ed ecologica. Teatrum Botanicum non si presenta come una mostra ‘canonica’ bensì come una flusso di pratiche performative, proiezioni, talk e performance-lectures, dj set e live set “svincolati da una precisa intenzione curatoriale, ma determinanti a rivelare un nucleo concettuale a posteriori.”
Gli artisti coinvolti in questa seconda edizione di Teatrum Botanicum sono: Agreements to Zinedine, Enrico Ascoli, Lia Cecchin, Gaetano Cunsolo, Cleo Fariselli, Matteo Gatti, Alessio Gianardi, Paolo Inverni, La Distrazione del Fagiano, Filippo Marzocchi, Giovanni Oberti, Mauro Panichella, Gianandrea Poletta, Serena Porrati, Lavinia Raccanello, Giulio Saverio Rossi, Ruben Spini, The Cool Couple. Il programma dei talk comprende la partecipazione di: Enrico Ascoli, Atelier A, Chan, Regine Débatty, Alessandra Franetovich, Paolo Inverni, Kabul Magazine, La Distrazione del Fagiano, Leandro Pisano.
CS_Teatrum Botanicum
ATPdiary, ha chiesto agli artisti partecipanti di darci un saggio della loro partecipazione. Dopo le prime presentazioni, è il turno di La Distrazione del Fagiano, Lavinia Raccanello, Lia Cecchin, Matteo Gatti, Mauro Panichella e Paolo Inverni.
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La Distrazione del Fagiano
La distrazione del fagiano è un progetto aperto, inclusivo e orizzontale: consiste nel modificare creativamente se stessi e la realtà ideando e sperimentando pratiche inusuali che risultino sia divertenti che capaci di innescare forti scarti critici.
La distrazione del fagiano è squisitamente situazionista ma rifugge la “linea unica”, la “versione ufficiale” e preferisce la molteplicità, la proliferazione, la valorizzazione delle differenze. Si distingue anche per non essere soltanto un divertissement, un’allenamento all’inconsueto, una palestra per la percezione e per il pensiero, bensì nell’essere la parte ricreativa e immateriale di un processo più ampio, anche materiale, di progressiva autorganizzazione ed autoproduzione. Questo processo trova il sua vera funzione nell’investire sempre più aspetti dell’esistenza, ed è finalizzato alla ricostruzione collettiva dei mezzi di produzione oltre che alla formazione di un tessuto sociale più solido. Francesco Nordio Per scoprire ulteriori dettagli del Progetto La distrazione del fagiano
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Lavinia Raccanello
Tra i miei progetti esposti al PAV ci sono due lavori realizzati nel 2014 durante il mio periodo presso Faslane Peace Camp, a 30 miglia da Glasgow, in Scozia. Spesso definito come il peace camp occupato in maniera continuativa più longevo del mondo, Faslane Peace Camp è costituito da una linea di caravan lungo l’A814, sul lato opposto alla base navale di Faslane ed i suoi sottomarini nucleari. Dal 1982 ospita attivisti da tutto il mondo ed è tutt’oggi un punto di riferimento per chiunque si opponga alla guerra, al militarismo e alle armi di distruzione di massa.
In 56°03’57.6’‘N 4°49’01.2’’W si può vedere il paesaggio – tipicamente scozzese – che circonda la base navale. Il vetro è rotto. Mancano alcuni pezzi del puzzle, proprio quelli che corrispondono alla base. Partito come una riflessione su violenza e non violenza all’interno del movimento antinucleare, questo lavoro vuole aprire un dibattito sui danni ambientali conseguenti all’esistenza stessa della base, molti dei quali già insanabili.
Utopia, realizzato presso Glasgow Sculpture Workshop ed inspirato ad un disegno abbozzato dopo l’avvistamento del mio primo sottomarino, rappresenta un sottomarino di classe Astute – proprio lo stesso che avevo appena visto – catturato con quello che sembra essere un retino per farfalle. L’intera scultura si regge in equilibrio su un pezzo della rete di recinzione della base, tagliato dagli attivisti in una delle tante azioni dirette volte a mantener vivo il dibattito contro il nucleare.
In occasione di Teatrum Botanicum Emerging Talents 2017, ho il piacere di presentare anche un altro progetto finora mai esposto al pubblico: Osvaldo, una serie di 5 serigrafie realizzate presso Glasgow Print Studio nella primavera del 2014.
Aprile 1970, al telegiornale Tito Stagno e un po’ tutti gli italiani nelle loro case e dai bar stanno seguendo la terza missione dell’uomo sulla luna. A Genova, una Mini Morris si aggira per le strade con un nastro preregistrato. La voce è quella di Giangiacomo Feltrinelli. Attenzione, attenzione, qui Radio Gap, Gruppi di Azione Partigiana, qui radio GAP, gruppi di azione partigiana…Fine della trasmissione…MUSICA (Bandiera Rossa)… I miei lavori oltre ad avere in comune la città di Glasgow, hanno in comune la volontà di riflettere sul ruolo che l’azione diretta può giocare all’interno della nostra società. In un mondo che è sempre più politicamente apatico, gli atti di disobbedienza civile sono forse gli unici che possano ancora fare la differenza, per noi e, perché no, anche per l’ambiente che ci circonda.
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Lia Cecchin
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Matteo Gatti
Inemuri è una parola giapponese che si potrebbe tradurre con l’espressione “essere presenti dormendo”. É un particolare stato di semicoscienza nel quale le persone si rifugiano anche solo per pochi minuti per riposarsi dal’attività lavorativa.
L’opera si ricollega alla postura della creatura ritratta che sembra addormentata con la testa all’interno di una tanica. Il lavoro è il primo passo per la formazione di un ideale bestiario che raccoglie molteplici tentativi di ricostruzione della natura. Attraverso la costituzione di questo bestiario intendo immaginare come in un tempo lontano dal nostro, le persone, in mancanza di immagini documentative relative alle epoche del passato, cercheranno di ricostruire le creature che abitavano il pianeta. Questo intervento, come altri nella mia produzione si pone l’obbiettivo di formare una collezione di artefatti destinati a un potenziale museo di storia naturale futuro, nel quale si tenti di ricostruire la storia di antiche civiltà scomparse, fra cui la nostra.
At the end there will be only tubers è un lavoro appena terminato, un esperimento di dialogo tra sound performance e scultura.
L’intervento è composto da 65 sculture in gesso di piccole dimensioni che costituiscono un ideale giardino, ipotesi di un ecosistema post-umano. Durante l’ideazione del lavoro ho appuntato queste righe che si sono dimostrate una curiosa introduzione, simile a un incipit cinematografico:
Dopo la scomparsa dell’uomo il pianeta terra non sarà popolato da bestie feroci, da insetti velenosi o da veloci roditori. Il movimento morirà con l’uomo. Quasi a voler contrastare la recentissima idea di velocità, di migrazione e di lavoro, la natura propenderà per l’assoluta immobilità. I nuovi abitanti della terra saranno vegetali dalle forme semplici, spesso goffe. Più specificatamente i padroni del globo saranno tuberi, placidi e inamovibili.
All’interno del giardino sono previste tre luci colorate attraverso le quali intervengo sulle sculture per produrre diversi scenari che, insieme a una traccia audio prodotta dal vivo, contribuiscono alla formazione di una narrazione di carattere immersivo.
Il lavoro, piuttosto atipico all’interno della mia ricerca, è un tentativo di interazione tra diversi linguaggi; l’intenzione iniziale era quella di dare alla luce un intervento che potesse farmi dono di una condizione di incanto e allo stesso tempo di dare luogo a una celebrazione di ciò che verrà dopo.
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Mauro Panichella
Per Teatrum Botanicum mi è stato proposto di esporre due lavori nati e sviluppati in diversi momenti della mia vita. A loro modo, entrambe le opere (“Nandu”-2013, e “Capanna Cosmica”-2015), fanno riferimento a culture extraeuropee, hanno a che fare con la sfera simbolica e alla natura.
“Nandu” è un’opera installativa nella quale sono individuabili tutti i passaggi della mia ricerca attuale; quello che chiamo il mio “vero lavoro”, l’opera in divenire, la raccolta e l’archiviazione attraverso lo scanner, ma anche l’interesse verso l’arte antropologica. Un ritrovamento casuale, come spesso accade, diventa l’epicentro dell’operazione artistica. Nel 2008, in Argentina, trovai il teschio di un nandù; un volatile della Patagonia simile a uno struzzo. Il cranio era disteso per terra in mezzo al deserto, decomposto e seccato al sole, sclerotizzato dalla natura e dal suo inesorabile esercizio.
Fotografai il teschio e decisi di portarlo in Italia. Dopo cinque anni, quando finalmente decisi di scansionarlo, mi stupii del tempo che avevo impiegato nel realizzare che l’operazione che avevo inconsapevolmente svolto era già disegnata dalla traccia lasciata dai miei ricordi. Al centro di questo lavoro c’è la celebrazione del viaggio, inteso come percorso spirituale e come condizione umana.
I Boscimani, che percorrono distanze immense nel Kalahari, non hanno il concetto della sopravvivenza ultraterrena dell’anima. “Quando moriamo, moriamo” dicono. “Il vento cancella le nostre orme, e quella è la nostra fine.” I popoli indolenti e sedentari, come gli Egizi, proiettano sull’altro mondo – con la loro idea di un viaggio nel campo di Canne nella vita dell’aldilà – I viaggi che non hanno fatto in questo. (Bruce Chatwin)
“Capanna Cosmica” è un’installazione che contiene in chiave tridimensionale alcuni simboli ricorrenti in diverse culture: quattro tubi al neon sintetizzano la forma di un tetraedro (o una capanna) e le colorazioni delle luci corrispondono ai punti cardinali secondo la cultura Hopi: Nord-Verde, Ovest-Giallo, Sud-Rosso, Est-Bianco. Ciò rende l’opera, a tutti gli effetti, uno strumento di misurazione, una sorta di rosa dei venti.
Alla base, due forme curve trasparenti formano un’elica, come nel copricapo della bambola celebrativa Hopi – Kachina – relativa alle nuvole. Prolungandone idealmente le curve si chiude la forma di una cupola. Le linee curve sono presenti in molte simbologie arcaiche: oltre che per la stilizzazione del serpente sono state spesso utilizzate per rappresentare il calore emesso dal sole o il movimento dell’acqua. Di conseguenza non è un caso che le stesse linee vadano a comporre nell’installazione proprio le nubi, il cui carattere atmosferico è prodotto dall’acqua e dal calore. I tubi al neon, inoltre, alludono alla carica elettrica del fulmine e al carattere gassoso dell’atmosfera terrestre. La capanna fondamentalmente è un tetto, un riparo dalla pioggia, una casa: ma in termini tradizionali, essa rappresenta il cosmo.
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Paolo Inverni
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28.10.2007