—
La prima personale di Giulio Saverio Rossi è ospitata negli spazi di LOCALEDUE a Bologna, curata da Carolina Gestri. No subject varca i limiti tematici e oggettivi, scardina la mera osservazione realistica di ciò che circonda lo sguardo e rivisita i paesaggi, e i particolari, inserendoli in una nuova narrazione. Memoria e visione si contraddicono riscrivendo per il pubblico nuovi scenari, inattesi e romantici. Le opere, che guardano a dimensioni politiche, sociali e antropologiche, saranno visibili fino al 21 luglio.
ATP diary ha fatto alcune domande alla curatrice.
Francesca D’Aria: Il titolo della mostra, No subject, è indicativo: apre lo sguardo dell’osservatore a molteplici visioni e possibilità di interpretazione. Come è nato?
Carolina Gestri: La mostra prende il titolo dall’omonima serie di dipinti esposta e presentata per la prima volta a LOCALEDUE. Si tratta di un progetto avviato durante il periodo di residenza che Giulio Saverio Rossi (Massa, 1988; vive e lavora a Torino) ha trascorso in Viafarini (Milano). Le tele in formato 16:9 sono il risultato della rielaborazione pittorica di alcuni fondali prelevati da video di paesaggi virtuali. Le immagini selezionate sono da considerarsi ancora neutre, non connotate, non inscritte all’interno di una narrazione, nonostante siano potenzialmente acquistabili da aziende e società per divenire parte di ambientazioni per videogiochi o di simulatori di realtà per addestramenti militari. No Subject, il soggetto assente è insito sia nella mancata identità del programmatore che dirige il nostro punto di vista, sia nell’anonimia del consumatore a cui viene venduto il prodotto. No Subject è un titolo rappresentativo della pratica artistica di Giulio, un termine chiave che sintetizza il suo lavoro, un “benvenuto” utile da dare al pubblico della mostra.
Sono assolutamente d’accordo con te nel dire che il titolo “apre lo sguardo dell’osservatore a molteplici visioni e possibilità di interpretazione”! I lavori di Giulio partono sempre da una personale volontà di interrogarsi su un’immagine, un evento storico, un libro, un paesaggio, un film già conosciuto e che proprio per questo spesso non problematizziamo abbastanza. Attraverso l’uso di tecniche “inattuali” come l’olio e la punta d’argento, pone questi elementi sotto una lente d’ingrandimento: seleziona o registra un’immagine, la rielabora creando una sua personale interpretazione. Questo processo evidenzia come la storia possa essere facilmente riscritta dall’autore. Le “immagini matrici” selezionate vengono caricate così della stessa ambivalenza che contraddistingue gli aneddoti e i ricordi, considerati inattendibili a causa della rielaborazione mnemonica, spesso fallace. In una sua intervista parla di una “necessità di indagare cose semplici, semplicissime, cose che possono essere conosciute da tutti ed indagate da tutti, ma che spesso diamo per scontate, del resto è ciò che Hegel dice quando ammonisce ‘il più noto proprio perché noto è sconosciuto’, o se vogliamo Quarto Potere di Orson Welles è la storia di una slitta vista da un certo punto di vista.
FD: L’autore, Giulio Saverio Rossi, ha realizzato le opere appositamente per questa personale. Come è nata questa collaborazione? E come si è sviluppato il progetto?
CG: La collaborazione con Giulio è nata nel 2015 in occasione di TU35, un progetto promosso dal Centro Pecci di Prato con l’obiettivo di mappare la scena artistica toscana. Ci siamo conosciuti a Carrara durante una studio visit. Nonostante il poco tempo a disposizione, Giulio ci propose di realizzare una nuova produzione dal titolo Nuove dal Castello dell’Imperatore. Si trattava di un lavoro strettamente legato all’area in cui avremmo esposto, Officina Giovani/ex Macelli. Grazie al reperimento di fotografie d’archivio e articoli di cronaca riuscì a strutturare un’opera capace di re-visionare una storia delicata come quella dell’Eccidio del Castello dell’Imperatore, quando nel 1944 alcuni partigiani organizzarono una serie di esecuzioni facendo espiare a un gruppo di fascisti la pena per l’omicidio di alcuni civili avvenuto per mano delle truppe tedesche. L’opera era composta da cinque incisioni, una delle tecniche più ricorrenti nella produzione di Giulio, di cui quattro erano il risultato della registrazione (tramite la tecnica della ceramolle) di una porzione di cemento della piazza dei Macelli, luogo in cui venne ritrovato il primo corpo di questo eccidio; la quinta lastra mostrava un personaggio, un ragazzo cinese nei panni di un arbitro, un possibile interprete di tutta la storia. Se vogliamo creare una relazione tra questa produzione del 2015 e No Subject direi che qui il “soggetto assente” è rappresentato proprio dall’arbitro. Questa figura infatti, per dirlo con le parole di Giulio, è “un prodotto della società contemporanea, una persona proveniente dalla Cina, quindi esotico, alieno, ma che al contempo veste la divisa di un gioco occidentale di cui si fa non solo promotore, ma garante delle regole, l’arbitro è, seguendone l’etimo, colui che viene ad assistere, ma essendo ontologicamente straniero egli non può di fatto pronunciarsi e la sua presenza diviene un simbolo del paradosso che la storia ci pone”. Mi colpì molto la sua capacità di andare a fondo alle cose, con l’attitudine tipica di un ricercatore, e di formalizzarle poi in maniera così concentrata e sintetica. Da allora ho sempre cercato di andare a vedere le sue mostre e i suoi progetti presentati a Firenze, Torino e Milano. A febbraio di quest’anno ci siamo scritti, gli ho chiesto come stava andando la residenza in Viafarini e su cosa stava lavorando. Giulio mi ha risposto chiedendomi di partecipare con lui al bando in scadenza di LOCALEDUE. In pochi giorni mi ha inviato due proposte di progetto, abbiamo valutato pro e contro di entrambi soprattutto in relazione allo spazio espositivo di Bologna e abbiamo deciso di proporre No Subject.
FD: Mi parli nello specifico dei lavori esposti?
CG: Si tratta di cinque dipinti a olio di dimensione 120×67,5 cm. Tutti hanno come base di partenza un dettaglio di un paesaggio naturale di origine digitale. Questi vengono traslati in pittura perdendo l’alta risoluzione e acquisendo invece lo sfumato che non permette da subito di distinguere ciò che è rappresentato sulla tela, invitando di conseguenza l’osservatore a prendersi quei cinque minuti necessari per iniziare a capire le profondità e a discernere le forme. Dal mondo della grafica vengono ripresi due elementi: l’uso della prospettiva lineare, da tempo abbandonata dalla pittura ma presente nei videogiochi, e la costruzione dell’immagine secondo la struttura RGB. RGB è una tecnica utilizzata sia in grafica, sia in stampa (contesto familiare a Giulio a seguito della sua formazione alla scuola di incisione Il Bisonte di Firenze), per cui un’immagine si crea sovrapponendo lastre o livelli, a seconda degli ambiti, di colore indipendenti gli uni dagli altri ma che una volta sovrapposti si concretizzano insieme in un’immagine. Per poter fare questo in pittura, Giulio stende i colori rosso, blu, e infine il giallo. Ciò che interessa a Giulio dell’uso di RGB è l’inevitabile perdita dell’indipendenza tra i colori: il giallo, una volta applicato perde già la sua caratteristica di “colore giallo” perché a contatto con gli altri colori diventa verde o arancione, a seconda di come viene steso. Grazie a questa processualità le tele, caratterizzate da un’inevitabile somiglianza cromatica per via della stratificazione dei medesimi colori differiscono dall’immagine di partenza pur mantenendo una più o meno vaga traccia che l’osservatore connota secondo una sua personale interpretazione suggerita dal dipinto.

Giulio Saverio Rossi, No Subject – Installation view, LOCALEDUE, Bologna, 2017. Foto di Carlo Favero
FD: In che modo hai pensato e realizzato il percorso espositivo negli spazi di LOCALEDUE?
CG: Parlando con Giulio l’idea è stata proprio quella di cancellare il concetto di percorso espositivo. Da parte mia tutto è partito da una riflessione sul formato delle tele. Tutti i dipinti infatti si caratterizzano per l’aspetto 16:9, un formato definito anche come “landscape”, il più simile all’occhio umano perché, nonostante il nostro campo sia in 4:3, per motivi evolutivi siamo ormai portati a guardare più orizzontalmente che verticalmente. Mentalmente vediamo in 16:9. Per queste ragioni un film visto in 16:9, secondo gli standard, ci coinvolge maggiormente di uno in 4:3. Questo formato si è diffuso a seguito della nascita dell’alta definizione, ma secondo alcune teorie sulla relazione tra schermo e coinvolgimento dello spettatore, questo rapporto è stato scelto per andare incontro alle disposizioni e alle dimensioni degli ambienti delle case americane ed europee. Il Giappone (il più grande produttore di televisioni negli anni ’80 e forse ancora oggi) per conquistare il mercato globale doveva adattarsi a un grande formato che potesse coinvolgere il pubblico seduto nei grandi salotti e sdraiato nelle ampie camere da letto occidentali. Avvicinare il mobilio allo schermo avrebbe risolto il problema ma allo stesso tempo avrebbe ridotto il coinvolgimento dello spettatore. Era necessario cambiare “ratio”. Le televisioni così passarono dall’aspetto 5:3 al formato 16:9 (anche per abituare e incentivare il pubblico a frequentare più assiduamente le sale cinematografiche).
Mentre gli spiegavo queste cose Giulio mi raccontava dei suoi studi sul panorama, preso in considerazione sia nella sua funzione di “tecnica di rappresentazione del paese”, sia come risultato di azioni politiche, sociali, antropologiche sul territorio. Mi ha parlato dell’interesse per le immagini digitali in quanto sono le uniche forme di rappresentazioni paesaggistiche ad utilizzare la prospettiva lineare, considerata ormai anacronistica nel campo pittorico, e quella fish eye, capace di inglobare lo spettatore nella composizione come suggerivano i dipinti romantici. Parlando di questa volontà di circondare il pubblico con un paesaggio, di una situazione in cui i visitatori riescono ad “abbracciare con lo sguardo” (dall’etimo di paesaggio) l’orizzonte mi è subito venuta in mente la sensazione provata all’Orangerie circondata dalle Ninfee di Monet e la funzione della panchina in quelle sale. Da lì la proposta di mettere una seduta nello spazio, in ricordo anche di come vengono fruiti i dipinti di Mark Rothko che, come le tele di No Subject, seguono una composizione per strati in cui i colori e le profondità affiorano solo a seguito di una prolungata osservazione. Giulio ha accettato e mi ha parlato del saggio che stava leggendo in quei giorni: Sulla panchina di Michael Jakob. É venuto tutto molto naturale, è stato un gioco di rimandi risolto in una skype call di un’ora. Di conseguenza abbiamo pensato l’allestimento come un panorama continuo da godersi seduti su una panchina, appendendo le tele in maniera ribassata rispetto all’altezza consueta. Proprio perché l’intero spazio espositivo diventa parte di No Subject, abbiamo deciso di applicare fuori da LOCALEDUE, a fianco dell’entrata, una didascalia simile a quelle istituzionali che siamo soliti vedere su pareti di musei e fondazioni per fornire, al pubblico e ai passanti, alcuni strumenti utili alla lettura del progetto.
FD: Questa è la prima personale dell’artista, che arriva dopo collaborazioni importanti, come Viafarini e il PAV, quali aspetti del suo lavoro ti hanno colpita e in quale modo li hai messi in evidenza lavorando con le sue opere?
CG: Sono rimasta colpita dalla differenziazione formale e contenutistica che caratterizza la sua ricerca circoscritta al tema del paesaggio, di come attraverso questo campo d’interesse riesca a proseguire l’approfondimento sulle criticità della rappresentazione tramite medium tradizionali, evidenziando in parallelo le problematiche a cui vanno incontro le registrazioni effettuate da sistemi tecnologici contemporanei, insieme alle conseguenti modalità di diffusione e commercializzazione delle immagini risultanti da queste riprese. Una necessità d’indagine nata da un’osservazione critica su ciò che ci circonda, a partire dalla provincia di Massa Carrara in cui è cresciuto: un territorio di confine, influenzato da regioni e culture diverse, dove il paesaggio è stato piegato al volere della grande industria e al suo successivo abbandono.
In Paesaggio continuo, presentato a Barriera (Torino) a novembre 2016, basandosi sulle teorie di Mauro Agnoletti (professore di Pianificazione del Territorio Rurale e di Storia Ambientale) ha analizzato la trasformazione da “Paesaggio Sociale” a “Paesaggio di Stato” del territorio italiano partendo da alcune immagini messe a disposizione da Google Earth. Riportando l’immagine digitale su tela è riuscito a enfatizzare un fenomeno come la perdita della biodiversità boschiva, a favore di un paesaggio semplificato sempre più condizionato dalle scelte politiche della nazione di appartenenza. Per Se il seme non muore (1953), il progetto pensato per Teatrum Botanicum (giugno 2017, PAV, Torino) ha selezionato tre frame da un docufilm di propaganda sull’azione di rimboschimento attuato in Italia durante gli anni del Piano Marshall al fine di sostituire gli alberi di castagno italiani con quelli americani a causa di un’epidemia batterica. Le immagini prese da pellicola ritraevano il batterio visto al microscopio. Riportando queste sagome microbiche su tre tavole di legno, Giulio ha rimesso in circolo una nuova storia che mostra come una dinamica politica da parte di una paese straniero, risalente al secondo dopoguerra, abbia poi avuto ripercussioni sulla conformazione del paesaggio italiano oggi. Durante la residenza in Viafarini (Milano) ha lavorato a due progetti in particolare: All this will be recollected in sixteen days, esposto a FuturDome, Milano, con Treti Galaxie a marzo 2017, – un dittico, olio su tela, raffigurante il risultato di un errore di registrazione del sistema satellitare di Google Earth di un’area contigua ripresa con due sensori diversi -, e a No Subject. In queste due opere si aggiungono ulteriori livelli di attenzione: sulla modalità di fruizione delle immagini digitali, sul loro valore economico, promozionale e sulle dinamiche commerciali a esse collegate. Si assiste dunque a un’ulteriore transizione, da “Paesaggio Sociale” a “Paesaggio Fittizio”, fallace nella sua raffigurazione del reale, dove oltre a esserne semplificata la rappresentazione, viene anche sottovalutata la potenzialità economica, politica ed etica della sua riproducibilità. Naturalmente non tutti sottovalutiamo tale valore, ci sono compagnie che investono e si arricchiscono facendo leva su questi scambi, ma sicuramente noi, utenti e fruitori inconsapevoli di queste immagini, non prestiamo attenzione a quanto l’uomo stia guadagnando da un paesaggio creato con le sue stesse mani e le sue tecnologie. Con No Subject l’osservatore è invitato a stabilire una relazione più diretta con le immagini.
A LOCALEDUE il pubblico si trova circondato da immagini HD riprese in soggettiva che, a seguito del processo RGB adottato da Giulio in pittura, hanno perso l’alta definizione in favore di un effetto sfocato che ne rende difficile l’interpretazione nei tempi brevi con cui siamo solitamente abituati a fruire ciò che ci passa sotto gli occhi. Paragonando dunque la modalità di fruizione della mostra alla relazione che solitamente stabiliamo con la televisione, dispositivo di trasmissione sia di messaggi commerciali, sia di notizie di cronaca (più o meno attendibili che siano), il visitatore è gentilmente invitato a godersi il panorama acquisendo una maggiore consapevolezza sulle dinamiche che caratterizzano la nostra realtà.
«Quando ci sediamo su una panchina in cerca di un momento di riposo o per godere della vista di un paesaggio, quasi mai ci rendiamo conto di quanto questo oggetto, in apparenza banale e insignificante, funzioni come una vera e propria macchina visiva, “intelligente e visionaria”, in grado di farci comprendere la realtà che abitiamo».
(M. Jakob, Sulla panchina, 2014)

Giulio Saverio Rossi, Paesaggio continuo (installation view), 2016, Barriera, Torino, foto Marco Vacchetta. Olio su tela