Pino Pascali: iconografie, eredità e genealogie

Seconda tappa alla scoperta di Arte in Centro - "Qui non si canta al modo delle rane", progetto a cura di Andrea Bruciati. Testo di Marco Tonelli
27 Agosto 2015

Fino al 6 settembre si svolge il grande progetto  ARTE IN CENTRO Mete Contemporanee, curata da Andrea Bruciati e dislocata in tre sedi differenti: l’Associazione Arte Contemporanea Picena, ad Ascoli Piceno, la Fondazione Malvina Menegazper le Arti e le Culture, a Castelbasso (Teramo) e la Fondazione Aria – Fondazione Industriale Adriatica, a Pescara.

L’edizione 2015 di ARTE in CENTRO. Mete contemporanee diventa il contesto ideale per una “rifessione differente” sulla storia dell’arte italiana. Per esplorarla, il curatore prende spunto da una citazione da Acerba Etas, capolavoro incompiuto di Cecco D’Ascoli (1269 – 1327): Qui non si canta al modo delle rane, già utilizzata dalla rivista avanguardistico-letteraria “Lacerba” (1913) quale motto di un rinnovamento di pensiero guidato dal genio creativo dell’artista.

Gli artisti invitati a confrontarsi con Gino De Dominicis, Pino Pascali e Gina Pane sono:  Yuri Ancarani, Rosa Barba, Simone Berti, Rossella Biscotti, Thomas Braida, Pierpaolo Campanini, Francesca Grilli, Diego Marcon, Invernomuto, Luigi Presicce, Agne Raceviciute, Moira Ricci, Federico Tosi, Luca Trevisani, Luca Vitone.

Segue il testo di Marco Tonelli — Pino Pascali: iconografie, eredità e genealogie

Sebbene Pino Pascali sia stato una meteora nella storia dell’arte italiana (vissuto solo trentatré anni e attivo a tempo pieno come scultore dal 1964 al 1968), forse proprio per questa velocità d’esistenza, la sua opera è rimasta a tutt’oggi di grande attualità e vitalismo. Anzi potremmo dire sempre di più grande attualità, come se le sue sculture fossero fatte per il nostro tempo e nel nostro tempo. Ne sarebbe un esempio il fatto che, proprio nell’ultima edizione della Biennale di Venezia, All the World’s Futures inaugurata nel maggio del 2015, una sua opera del 1965 (Contraerea) sia stata scelta dal curatore a far parte della mostra e posizionata al centro del percorso espositivo in un progetto che vuole parlare del mondo globalizzato di oggi, affacciato già su scenari futuri. Che la presenza di Pascali all’interno di questa Biennale sia legittima o meno (cioè per ragioni fondate o strumentali) non importa: evidentemente è contemporanea la percezione della sua opera che se ne ricava a livello internazionale.

Eppure tanto ancora deve essere detto e capito sul Pascali “postmoderno” già nel 1964 (quando il termine fu usato per la prima volta da Steve Marcus in ambito letterario e poi nel 1968 da Leo Steinberg a proposito delle opere di Rauschenberg). Proprio quell’anno Pascali “nasce” infatti ufficialmente come scultore e tiene la sua prima mostra personale presso la Galleria La Tartaruga di Roma. E ancora tanto deve essere scritto sulla consanguineità delle sue opere con le ricerche minimaliste a lui coeve, oltre che naturalmente sugli influssi che hanno avuto per lui l’opera di Brancusi, la Metafisica di De Chirico e Savinio o il Surrealismo di Magritte. Il Pascali rinchiuso nelle categorie della Pop art o dell’Arte Povera (che pure ha partecipato o anticipato) oggi non può più funzionare o comunque non bastano più a definire i contorni della sua poetica.

Senza contare il suo lascito per gli artisti italiani di oggi e le aperture internazionali della sua scultura su coordinate ambientali e teatrali che aveva sperimentato già con le mostre alla Galleria dell’Attico di Fabio Sargentini a partire dal 1966 (e proprio all’Attico inizierà subito dopo la sua morte una straordinaria stagione di performances, installazioni, body art, musica elettronica), possiamo affermare che Pascali è l’artista che più di tutti ha codificato la propria pratica rispetto al concetto di finta scultura o di pelle della scultura, giocando sulla metamorfosi della forma e della materia in materiali o dei materiali in forma e materia.

Antenati

Sulla genetica metafisica e surreale di Pascali parlano opere specifiche, che dicono molto più di qualsiasi elaborazione teorica o storiografica. Colonne e foresta nella stanza del 1928 di De Chirico, come altre opere metafisiche di quel periodo, sono dirette progenitrici di Ruderi su prato realizzata nel 1964 da Pascali. Per non dire del dipinto Sulla soglia della libertà di Magritte del 1930, anticipatore onirico del Cannone Bella Ciao di Pascali del 1965. Se a queste iconografie di irrealtà, teatrini domestici di finta natura e finta architettura, scenografie di interni, aggiungiamo la fascinazione di Pascali per le sculture di marmo e pietra, bianche, animalistiche, di Brancusi degli anni Venti, riprese esplicitamente nella serie delle finte sculture del 1966, avremmo ricostruito in sintesi una genealogia storica che spiega meglio dei termini Pop o Poveristi la poetica favolistica, il calembour linguistico, la combinazione ludica e ironica, la pratica assemblativa tipica di Pascali.

Contemporanei

Tra gli artisti suoi coetanei, quelli soprattutto riconducibili alle artificiose e ormai inadeguate etichette della romana Scuola di Piazza del Popolo o di un’arte Povera nata sul finire del 1967 in cui Pascali è stato comunque inserito come ideale anticipatore, meglio si addicono semmai confronti stringenti con gli ingrandimenti oggettuali di Domenico Gnoli suo coetaneo o con le ricerche sulla tela estroflessa di Castellani e Bonalumi verso la metà degli anni Sessanta.

Uscendo dal panorama italiano troveremmo in Pascali somiglianze simultanee e rielaborazioni di invenzione con le più estreme e significative ricerche estetiche degli anni Sessanta confluite nel Minimalismo o addirittura nella Land Art. Possiamo dire che Pascali ha dato una versione umana, non spersonalizzata né squisitamente concettuale di quelle esperienze, dando alla forma delle strutture primarie statunitense un riferimento arcaico, primitivo, primordiale, riconducendole sempre a referenti oggettuali, naturali e ludici. Una sorta di minimalismo dolce e non ideologico. Walter De Maria nel 1968 riempì una stanza di 50 metri cubi di terra (questo il titolo dell’opera), mentre Pascali racchiuse nel 1967 dei metri cubi di terra in veri cubi e parallelepipedi fatti di quella materia (almeno esternamente). A partire dal 1963 inoltre la poetica della scultura cubica come pura presenza primaria la stavano affrontando sia Larry Bell che Tony Smith, per arrivare al 2006 ad Ai Weiwei che comprime in un metro cubo una tonnellata di terra. Robert Smithson nel 1966 realizza l’opera Tar Pool and Gravel Pit che, seppure avesse nelle intenzioni dell’autore uno spessore filosofico, geologico e psichico molto diverso, possiede però la stessa dimensione visiva e materica di Botole ovvero Lavori in corso che Pascali realizza nel 1967, con più leggerezza e senso assemblativo.

Cuts del 1967 oppure Copper Steel Alloy Square del 1969, entrambe realizzate da Carl Andre, poeta assoluto del minimalismo, diventano in questa ottica una versione quasi castigata, marxista dei 32 metri quadrati di mare circa o dei 9 metri quadrati di pozzanghere che Pascali inventa nel 1967 introducendo nelle due opere vera acqua. La perfetta e simultanea tangenza formale con la dimensione spaziale, ambientale e dimensionale del Minimalismo, dimostra quanto Pascali fosse in linea con la sperimentazione più avanzata del suo tempo, in cui aveva saputo immettere suggestioni e iconografie appartenenti alla propria storia personale, al proprio paesaggio d’esistenza, ad una geografia dell’immaginario più reale e quotidiana.

Discendenti

L’uso di balle di fieno a partire da Cornice di fieno di Pascali del 1967 lo si ritrova nello stesso anno in Fulmine colpisce il campo di Mario Merz, mentre nel 1975 Alessandro Mendini realizza la Poltrona di paglia: un cerchio che si chiude con l’uso crudo, oggettuale, non poetico e tautologico fatto dal cubano Wilfredo Prieto che nel 2011 ha ammucchiato decine e decine di balle di fieno (Izquierda/derecha) nello spazio espositivo.

E se Pascali è stato un punto di riferimento importante per la scultura di Nunzio (esponente di punta della Scuola di San Lorenzo negli anni Ottanta), in particolare con le sue opere in gesso dipinto, per il videoscultore Fabrizio Plessi Pascali è stato l’artista che gli ha dato piena consapevolezza nel trattare l’acqua come materia, come forma divisibile e fisicamente manipolabile con azioni e performances fin dagli anni Settanta, fino a farla diventare flusso elettronico racchiuso nelle geometrie modulari dei monitor. Silvie Fleury nel 1996 realizza dei missili spaziali pronti al lancio ricoperti di pelouche che intitola Space Ship on Venus, fondendo evidentemente l’iconografia del missile di Colomba della Pace di Pascali del 1965 con i suoi oggetti giganti di pelouche come Vedova blu del 1967.

Per l’arte italiana contemporanea, il lascito di Pascali sta nella sua pratica di liberazione dall’obbligo dello stile e della forma riconoscibile, una libertà però che nessun artista contemporaneo è riuscito a sviluppare con la stessa imprevedibilità e anarchia dei materiali. Ma le invenzioni di Pascali, l’uso di sintesi formali che nelle sue mani di bricoleur diventavano insolite e stranianti avventure, hanno comunque aperto la strada negli anni Novanta ad artisti come Paolo Canevari (pavimenti e carri armati di copertoni o missili riflettenti), a giovani scultori degli anni Duemila come Perino e Vele, Giuseppe Capitano, Lucio e Giuseppe Perone, i quali (tutti nati e cresciuti tra Napoli, Benevento e Campobasso) hanno dalla loro una diretta filiazione con lo spirito ironico, di ingrandimento oggettuale, di ricostruzione della natura, ancestrale, mediterraneo e tipico forse del Sud (Pascali era del resto nato a Bari, aveva frequentato il Liceo artistico di Napoli e si era diplomato all’Accademia di Belle Arti a Roma), spirito che lo stesso Pascali aveva conservato vitale nonostante la sua estrema modernità e internazionalità di linguaggio.

Sull’importanza di Pascali per l’arte contemporanea infine e la sua attualità basterebbe citare l’intervista fittizia “Doctor Stangelov” che Maurizio Cattelan (uno dei più “contemporanei” artisti negli ultimi venti anni della scena internazionale) fece a Pascali nel 2006 in occasione della pubblicazione del catalogo della mostra di Pascali tenuta da Gagosian a New York. Cattelan parlò in quell’intervista della leggerezza (“levity”) dell’opera di Pascali, della sua assoluta contemporaneità e atemporalità (“timeless”), dichiarando che assieme a Boetti era l’artista che più lo aveva ispirato.

A futura memoria…

Pino Pascali,   veduta - Museo delle Genti d'Abruzzo,   Ph.Gino di Paolo,   Pescara

Pino Pascali, veduta – Museo delle Genti d’Abruzzo, Ph.Gino di Paolo, Pescara

Ogni maestro è visto in relazione anche ai diversi luoghi espositivi.

Ascoli Piceno —

Gina Pane (Biarritz 1939 – Parigi 1990) trova la sua collocazione ideale nella Galleria Osvaldo Licini, nell’ex convento di Sant’Agostino di Ascoli Piceno, sede del suo dialogo con Yuri Ancarani, Francesca Grilli, Diego Marcon, Moira Ricci, Luca Trevisani.

Castelbasso —

Gino De Dominicis (Ancona 1947 – Roma 1988) abita la dimensione del borgo di Castelbasso, con i suoi Palazzi De Sanctis e Clemente, insieme a Thomas Braida, Luigi Presicce, Luca Vitone, Rosa Barba, Agne Raceviciute.

Pescara —

Pino Pascali (Bari 1935 – Roma 1968) si colloca nel contesto urbano di Pescara, nelle due sedi del Museo delle Genti d’Abruzzo e dello Spazio Matta, dove con lui si confrontano Pierpaolo Campanini, Federico Tosi e Invernomuto, Simone Berti, Rossella Biscotti.

Pino Pascali,   Il Tenente O'Clock e Al Cafone,   1967,   tecnica mista su acetato e carta fotografica,   cm 24x30 Collezione privata Courtesy Frittelli Arte Contemporanea,   Firenze

Pino Pascali, Il Tenente O’Clock e Al Cafone, 1967, tecnica mista su acetato e carta fotografica, cm 24×30 Collezione privata Courtesy Frittelli Arte Contemporanea, Firenze

Federico Tosi,   Live strong,   meows hard,    2015,   resina termoindurente,   legno,   candele,   cristalli di rocca,   azzurrite,   incensi,   monete,   acqua,   cannella,   biscotti,   sigarette,   acqua santa,   rame,   carta bruciata,   acciaio,   argento,   colla,   40 x 210 x 40 cm

Federico Tosi, Live strong, meows hard, 2015, resina termoindurente, legno, candele, cristalli di rocca, azzurrite, incensi, monete, acqua, cannella, biscotti, sigarette, acqua santa, rame, carta bruciata, acciaio, argento, colla, 40 x 210 x 40 cm

Simone Berti,   Senza titolo,   2009,   grafite,   carboncino e sanguigna su carta,   cm 60x42 courtesy Vistamare,   Pescara e l’artista

Simone Berti, Senza titolo, 2009, grafite, carboncino e sanguigna su carta, cm 60×42 courtesy Vistamare, Pescara e l’artista

Theme developed by TouchSize - Premium WordPress Themes and Websites