
Testo di Ambra Abbaticola —
Nelle opere di Lydia Ourahmane oggetti, corpi e parole prendono vita grazie ad una serie di relazioni di cui essi sono nodi. Vendesi è il titolo della mostra che l’artista ha inaugurato lo scorso 31 luglio negli spazi di Progetto, galleria sita a Lecce, gestita dall’artista e curatrice Jamie Sneider (visitabile fino al 1/12/22).
Lydia Ourahmane è un’artista algerina, formatasi a Londra. Molta della sua pratica s’incentra sui temi del colonialismo, delle migrazioni e sulla geopolitica. Per Progetto Ourahmane realizza un’installazione site-specific, costituita da quattro pilastri in pietra calcarea e cinque fotografie le cui cornici sono realizzate in legno proveniente da alberi infettati dalla Xylella Fastidiosa, un batterio responsabile della morte di milioni di ulivi in Puglia.
La mostra, apparentemente asettica, costituisce la messa in forma di un diario visivo che comincia con le escursioni di Lydia Ourahmane e Jamie Sneider nelle campagne pugliesi, e finisce per incistarsi proprio lì: nelle conversazioni avute dalle due donne, fra antropologia, mito e racconto confidenziale. Come riferisce la stessa Sneider: “Abbiamo trascorso ore in macchina per la ricerca e durante i viaggi abbiamo parlato di miti, lavoro e desiderio, e di come non si arrivi mai a possedere l’altra persona. Abbiamo parlato di rituali performativi – cambiamento estetico contro cambiamento reale”.
Racconta Sneider che a poche settimane dalla mostra il progetto dell’artista ha deviato totalmente la sua conformazione iniziale, incentrandosi sull’incontro umano e artistico avvenuto tra loro due, e proiettandosi significativamente nella vita intima di Sneider e della sua relazione passata con uno scalpellino di origini nord africane.
L’uomo, un artigiano specializzato nella lavorazione della pietra, è giunto in Italia attraverso gli stessi canali migratori utilizzati anni prima dalla famiglia di Ourahmane; le sculture posizionate al centro di ogni stanza sono state intagliate proprio da lui. Ad esplicitare l’incontro avvenuto fra Ourahmane e lo scalpellino vi è il secondo elemento scultoreo dal titolo Mother Tongue, traccia di quando i due hanno scolpito le pietre conversando nella loro comune lingua d’origine.
Continuando a sfogliare le pagine di questo diario visivo diventa sempre più chiaro che le sculture come le fotografie, siano in dialogo diretto con i progetti di vita che i due ex-amanti avevano immaginato di condividere insieme prima che la loro relazione finisse, e che Ourahmane, tramite un’operazione concettuale, ha voluto sublimare e proiettare nel futuro. L’artista rende noto che parte del ricavato dalla vendita delle opere sarà finalizzato all’acquisto di una casa con terreno che si trova nelle campagne di Ostuni, luogo dove i due amanti si sono conosciuti; a sottolineare la duplice natura – e astratta e concreta – di Vendesi vi è il fatto che assieme al classico foglio di sala siano allegati la pianta della casa e l’atto di proprietà. In questi termini la mostra si configura come simbolo e prefigurazione dell’abitazione stessa, quattro pilastri come le quattro pareti a cui la progettualità di un amore tende e anela.


Osservando Vendesi da un punto di vista estetico e meno intimista, le sculture costituite da ventotto pietre, sette per ogni pilastro, frutto di un assemblaggio – apparentemente – instabile, evocano architetture rurali tipiche della Puglia: ognuno degli elementi che costituisce l’impianto scultoreo è stato lavorato secondo tecniche tradizionali solitamente impiegate nella realizzazione di muretti a secco o strutture ad uso abitativo o contadino, come i trulli o le antiche pagliare.
I tagli risultanti da questo tipo di lavorazione sono visibili lì dove la pietra reca una sfumatura molto più chiara, segno di un’azione presente su cui il tempo lascerà un’ulteriore traccia del suo passaggio. Sin dal titolo della mostra, appunto Vendesi, s’intuisce la profonda relazione che Ourahmane ha inteso sviluppare con il paesaggio rurale. Chi è pratico di Sud Italia, e delle sue campagne, si sarà imbattuto in cartelli dai colori accesi e invitanti su cui campeggia la scritta “VENDESI”, in aperto contrasto con l’aspetto brullo e desertico del territorio circostante, una sottolineatura che apre uno squarcio fra ciò che è desiderabile e ciò che lo è in potenza.
Fruendo la mostra non si può fare a meno di osservare la particolare energia che si sprigiona fra concrezioni calcaree risalenti a milioni di anni fa e gli spazi di una galleria di arte contemporanea.
Le quattro stanze di Progetto sono state igienizzate con una soluzione al 90% a base di alcool, la stessa impiegata per far scorrere il corpo sui tubi in metallo durante la pole dance, disciplina a cui Sneider e Ourahmane si sono approcciate insieme per la prima volta in una palestra di Lecce.
Le cinque fotografie, scattate in bianco e nero e stampate nel loro formato originale, raffigurano due case diverse: “una di cui ci siamo innamorati, che è stata venduta il giorno stesso, e accanto vi era la casa successiva, il nuovo amore”. Le cornici delle foto sono l’oggetto più formalizzato di tutta la mostra e sono state realizzate utilizzando legno di ulivo malato, attaccato dalla Xylella, un batterio responsabile di un cambiamento senza precedenti e nell’economia e sul paesaggio del Salento. Il legno, prima di essere trasformato in cornice, è stato trattato per debellare ogni traccia del batterio.
Molte opere di Lydia Ourahamane sono composte da una concettualità stratificata, che vede nella materia soltanto l’ultimo stadio, in questo senso Vendesi s’incentra su alcuni aspetti dell’immigrazione già cari all’artista come il viaggio, la fiducia, e l’amore.
Vengono circoscritti luoghi fisici ed ideali dove la tensione stanziale di civiltà evolute costruisce da secoli una dialettica fra uomo e territorio; ogni viaggio si riassume in un processo che non si annulla in una meta, ma il cui comune denominatore risponde ad una sola esigenza ossia l’identificazione di un luogo in cui poter tornare.

