“Il nostro lavoro è duro, perchè Arezzo è una città coriacea, che fa delle tradizioni sempre il solito scudo, e quindi quello che avanza è solo un po’ di folklore qua e là, che poi diventa il vessillo della politica locale e degli arrangiamenti culturali che ne conseguono. Ma questo vuol dire che c’è anche tanto potenziale inespresso”, ci racconta Fabio Migliorati, direttore artistico della rassegna. Fino al 27 Settembre il centro storico di Arezzo ospita Icastica, un festival diffuso che offre al pubblico 5 mostre di arte contemporanea e una serie di interventi allestiti in 40 spazi sparsi per la città. L’evento, costato 150000 euro, è stato supportato per l’80% da privati. Nonostante nel 2014 Icastica abbia registrato un incremento del 212% di turisti rispetto all’anno precedente, la rassegna non è ben accolta dagli aretini, che non sono molto aperti verso l’arte contemporanea.
“Il territorio, che è la sua forza, è anche in qualche modo il suo limite”, continua Migliorati. “Qui sono nati tutti i grandi del Primo e del Secondo Rinascimento di Toscana. Con questa operazione di ospitare artisti internazionali, curatori e esponenti della cultura visiva, noi tentiamo di riconvertire quello che c’è oggi a quell’altezza del tempo che fu”. L’intento della rassegna è quindi quello di creare due “ponti”, uno tra presente e futuro, cercando di seminare curiosità per le nuove ricerche artistiche nei giovani aretini, l’altro è tra l’arte contemporanea, gli aretini, e le realtà locali.
Ilaria Gianni per la sua mostra alla Fraternita dei Laici, ha selezionato una serie di lavori in linea con il tema di questa edizione del festival, “Coltivare Cultura”. In TAVERNA – siamo aperti la curatrice presenta opere che rimandano al cibo o più in generale all’atto conviviale del mangiare, come la scultura di cassette vintage per bevande di Flavio Favelli, le saliere di Nicola Pecoraro e i ben noti “Frutta” e “Salame” di Santo Tolone. A questi Ilaria Gianni ha accostato opere commestibili che gli artisti hanno realizzato in collaborazione con alcuni artigiani del cibo aretini. Durante la serata d’inaugurazione del 28 giugno il pubblico poteva bere un drink di Ryan Gander (spumante, pastis e marsala, completato da quattro acini d’uva), una torta di Karina Bisch che riprende alcuni disegni presenti sul suo lavoro esposto nella Sala del Rettore, dei mochi, tipici dolci giapponesi con fagioli di soia, realizzati da Gintaras Didžiapetris, dei grandi biscotti di pasta frolla realizzati da Nicholas Hatfull ispirati da alcuni dei “16 animali” di Enzo Mari. Bedwyr Williams ha fatto realizzare da un panificio del pane a forma di ossa, un lavoro non meno grottesco della riproduzione in terracotta della sua testa che contiene un grosso cavolfiore sottaceto. (Intervista con la curatrice)
La collaborazione con le realtà aretine è stata fondamentale anche per l’installazione del lavoro di Ernesto Neto, curata da Ginevra Bria alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea in piazza San Francesco. L’opera, infatti, è stata possibile grazie all’azienda Aboca, specializzata in spezie, che ha donato i 45 chili di cumino e gli 80 chili di chiodi di garofano necessari a riempire le “colonne” e le “stalattiti” del lavoro dell’artista brasiliano.
Nel curare la mostra “Colmare il bocciolo/combattere il verme/regolare il calore/eludere il vento/sfuggire all’ape”, Rita Selvaggio ha interpretato in maniera molto elegante il “Coltivare Cultura” che fa da tema a questa edizione di Icastica. La mostra parte da un nucleo di 50 opere prese in prestito dalla AGI Verona Collection di Giorgio e Anna Fasol, che la curatrice ha disposto con gran attenzione nelle sale dalla Casa Museo Ivan Bruschi, instaurando dialoghi, riferimenti e connessioni mai banali con i quasi diecimila oggetti di antiquariato ospitati nel trecentesco Palazzo del Capitano del Popolo. Alcune immagini dalla mostra: il noto dipinto con la candela di Gerhard Richter sembra sia sempre stato nella sala da scrittura, così come il modellino in legno di Neil Beloufa a fianco della scrivania e la vetrinetta di legno con i filtri dell’olio di James Beckett. Il puzzle con la lettera d’amore di Félix González-Torres entra in dialogo con una coppia di bracciali in avorio anticamente usati come regalo di fidanzamento. Il set di tazze di Jonathan Monk, “Tea with the Queen”, che pronostica un incontro ufficiale tra lui e la regina per il 19 Maggio del 2039, disposte su un antico tavolo rotondo, come in attesa di quel giorno.
“25 profughi forniti di stereo portatili (tipo anni 80 – 90) hanno camminato lungo le vie del centro. Ognuno di loro aveva una musica diversa, chi Miss you dei Rolling Stones, chi l’Adagio di Albinoni, chi Extraterrestre di Eugenio Finardi. Ogni stereo e quindi ogni profugo aveva la stessa canzone ripetuta all’infinito”, ci racconta Andrea Bianconi riguardo alla performance BABELE, pensata appositamente per il festival aretino. “Non c’erano solo canzoni, c’erano anche parti di Film (es. il finale di Otto e Mezzo, o una parte de IL Gladiatore), altri poesie (Cesare Pavese, ti ho sempre soltanto veduta…) un altro una intervista a Christo e Jeanne Claude, un altro una lettera di Picasso. Al suono della campana delle 18 si sono riuniti a Piazza San Francesco, di fronte alla chiesa, ed hanno iniziato a ballare ascoltando ognuno una cosa diversa, ma allo stesso tempo contaminandosi. Alla fine tutte le musiche si incontrano nella piazza, non c’era armonia, ma un insieme di linguaggi. Una apparente unione che non è armonia. E’ una performance sulla incomunicabilità, o sulla difficoltà di comunicare. Una Babele, insomma”. Alla performance è affiancata l’installazione “Mangiamone tutti”, una serie di ghirlande con decine di sagome di omini dalla testa di nuvola, ritagliate da vari pannelli di colori simili a quelli del logo di EXPO. “Il legame tra installazione e performance sta proprio nella ricerca di un legame e dei modi in cui esso è possibile o no. Gli uomini con la nuvola in testa, nuvola come contenitore, come individualità, un insieme di uomini, di colori, un “modo” d’unione, una sorta di legame. ”
Adam Carr, nei suggestivi spazi della Galleria Furini, ha allestito una mostra composta da lavori in argilla, bronzo, gesso, pietra e marmo, tutti materiali legati alla tradizione aretina che gli artisti contemporanei hanno reinterpretato, spesso stravolgendone il loro usuale utilizzo. Il filo conduttore tra le opere è l’utilizzo di un materiale antico per reinterpretare una forma legata ad un materiale moderno: “Practice object bronze soft play” di Sean Edwards, il lavoro di Ryan Gander e “Hulk” di Joe Orr sono rispettivamente una palla di gomma, un blocco di plastilina e una bottiglietta d’acqua schiacciata realizzati in bronzo. A questi lavori se ne accostano altri che interagiscono direttamente con lo spazio della galleria, un’antica chiesa sconsacrata: i “Tileables” di Nina Beier, stampe digitali su piastrelle di ceramica, disposti a gruppi sul pavimento in cotto, il calco in gesso di un tenda di Ruairihad O’Connel, il mattone con lingua e occhi di Tim Foxon rimandano ad antiche presenze che potrebbero aver popolato la chiesa in passato. (Intervista con il curatore)
“Rifacendomi a quello che disse Achille Bonito Oliva in un’intervista su Open, noi qui tentiamo di far ‘inciampare’ il pubblico nell’arte contemporanea”, conclude Fabio Migliorati. “La nostra lunghezza d’onda è questa. La gente, camminando per strada, sotto il loggiato, l’ultimo progetto di Vasari, può trovare l’installazione di Giulio De Mitri, al cospetto delle Storie della Vera Croce di Piero della Francesca vedere l’opera di Moataz Nasr, sotto il Cristo del Cimabue l’installazione di Alfredo Pirri. E’ questo il fulcro di Icastica, imprescindibile dal rapporto con i grandi del passato”.

Tim Foxon, House Prick, 2015, Brick, objects, 22 x 10 x 11 cm, Courtesy the artist. Credits Laura Veneri and Francesca Neri