Fino al 6 settembre si svolge il grande progetto ARTE IN CENTRO Mete Contemporanee, curata da Andrea Bruciati e dislocata in tre sedi differenti: l’Associazione Arte Contemporanea Picena, ad Ascoli Piceno, la Fondazione Malvina Menegazper le Arti e le Culture, a Castelbasso (Teramo) e la Fondazione Aria – Fondazione Industriale Adriatica, a Pescara. Il progetto ARTE IN CENTRO, giunto al suo secondo anno, si propone, dunque, di creare un dialogo attorno all’arte contemporanea tra l’Abruzzo e le Marche, andando a coinvolgere diversi artisti italiani.
L’edizione 2015 di ARTE in CENTRO. Mete contemporanee diventa il contesto ideale per una “rifessione differente” sulla storia dell’arte italiana. Per esplorarla, il curatore prende spunto da una citazione da Acerba Etas, capolavoro incompiuto di Cecco D’Ascoli (1269 – 1327): Qui non si canta al modo delle rane, già utilizzata dalla rivista avanguardistico-letteraria “Lacerba” (1913) quale motto di un rinnovamento di pensiero guidato dal genio creativo dell’artista.
Gli artisti invitati a confrontarsi con Gino De Dominicis, Pino Pascali e Gina Pane sono: Yuri Ancarani, Rosa Barba, Simone Berti, Rossella Biscotti, Thomas Braida, Pierpaolo Campanini, Francesca Grilli, Diego Marcon, Invernomuto, Luigi Presicce, Agne Raceviciute, Moira Ricci, Federico Tosi, Luca Trevisani, Luca Vitone.
Segue il testo di Andrea Bruciati — Chimera: radici utopiche nella poetica di Gino De Dominicis.
Quanto più è elevata la natura dell’artista, tanto maggiore è la seduzione di tener dietro ad una chimera, poiché l’arte non può, come la conoscenza attendere.[i]
Nel porre in relazione Estetica ed Utopia non possiamo astenerci dalla ridefinizione di concetti come libertà, desiderio, bisogno, mutamento, progetto, che si sono rivelati nella contemporaneità fondamentali nella messa a punto di qualsiasi prospettiva che fosse al contempo afflato per una liberazione dell’individuo e costrutto di trasformazione sociale. L’arte è il campo privilegiato in cui la coscienza utopica ha potuto manifestarsi con maggior forza e libertà per il grado di separazione e gratuità a lei attribuito. La pratica artistica e le opere derivate ne costituiscono le manifestazioni in quanto anticipazione di ciò che non è ancora, o rivelazione di ciò che c’è ma che non viene riconosciuto. Possono essere considerate come isole che affiorano al visibile di una realtà incompiuta e in questa prospettiva può essere indagata l’opera di Gino De Dominicis, dimostrazione della pienezza inesausta dell’attesa, intenzione di ciò che è realmente possibile.
L’artista ventenne formula una delle sue prime opere ‘invisibili’ (Macchina che fa sparire gli oggetti, 1968) e costruisce una base quadrata al centro della quale posiziona una colonnina munita di un’asta, sulla quale innesta l’oggetto da far sparire. La base è dotata di un motorino elettrico che, attivato, fa girare velocemente la colonna e scompare dalla vista l’oggetto collocato su di essa: la velocità diventa fattore di annullamento dell’immagine. Mosso da un’ agognata risoluzione di quella frattura post romantica, di cui l’arte contemporanea è risultante, De Dominicis comprende come l’utopia possa invece costituire una dimensione operativa strutturale e linguistica , e, se intende la sua tensione utopica come bacino desiderante legato all’immaginazione, è pur vero che ben presto questo assurge anche a dispositivo intellettuale alternativo e critico rispetto alla realtà presente. Proprio allo scadere, nel 1969, sempre inaugura la serie degli ‘oggetti invisibili’ che preannunciano la Terza soluzione di immortalità. Dichiara: “Oggetti invisibili: lo spazio è dove un oggetto può muoversi o dove un oggetto risiede. Là dove nessun oggetto si muove e nessun oggetto si muove e dove nessun oggetto risiede non è spazio (dovrebbe esserlo). Ciò che non è spazio è oggetto (è il movimento di un oggetto a creare o a delimitare uno spazio, senza movimento non esiste spazio). Se si riuscisse a creare una illusione di presenza di oggetto a tal punto che nessun oggetto-persona attraversi o risieda in quello spazio si sarebbe creato uno spazio dove nessuno si è mosso o ha risieduto e quindi automaticamente non sarebbe più spazio ma oggetto.” Queste non-sculture fanno della non presenza della cosa un segno della concretezza sulla via del processo di smaterializzazione del reale e della ricerca di immortalità, così che l’artista può costruire un processo illusorio che fa precipitare l’immaginario nell’allucinazione fantastica e divertita (La madonna che ride, 1972; Poltrona per un viaggio nello spazio, 1969). Volte ad una nemesi che, per le connotazioni sociali del periodo 1966/69, sembra ancora realizzabile, utopia e avanguardia avvalorano l’oggetto estetico quale cifra conoscitiva, base grazie alla quale si collocano e spiegano i vari accertamenti, tentativi, ipotesi, analisi che trovano espressione coerente nelle istanze poveriste e concettuali.[ii] Il progetto di trasformazione dei materiali esistenti può essere raggiunto solo attraverso la ‘prassi’, sostiene Marcuse in La fine dell’utopia (1968), mentre De Dominicis, volgendola in ‘prestidigitazione’, trasformazione simbolica, o pratica pittorica, riconferma l’interesse verso il lato misterioso dell’indagine analitica, verso un illuminismo pre-romantico, che si trasforma in follia visionaria e ironica invadendo la futuribilità della stessa tecnologia. Affondando quasi in una rilettura archetipica di Jung, l’artista respira così la medesima temperie culturale dei poveristi, dando però una personalissima prova delle istanze antropologiche di Lévi-Strauss, e conferendo pertanto al processo temporale una importanza cruciale nella sua ricerca. Era in fondo lo stesso Ernst Bloch che, in Geist der Utopie (1923), sottolineava come l’attesa, l’impazienza e la speranza animino la vita umana lungo l’avvenire ancora ignoto e di cui, si presagisce, comprenderemo alla fine il vero volto. Il filosofo amava ribadire che siamo estranei a noi stessi e l’istante presente in cui viviamo ci sfugge, recuperando in parte attraverso questa affermazione una fenomenologia dello spirito utopico che muoveva i passi dal Kant dei Sogni di un visionario, e veniva poi sviluppata da Georg Simmel secondo una duplice prospettiva: una metafisica della vita individuale e dell’essere per la morte e nel contempo un’analisi sociologica delle forme moderne della reificazione e dell’alienazione.
L’arte per Bloch, in quanto apparizione di un simbolo del reale nell’oggetto, significa perciò un qualcosa che è dato oggettivamente e che, attraverso la sua facoltà d’essere trasformato e la sua perfettibilità, prefigura un suo dato di potenza. Il pre-apparire si situa fra il fenomeno e l’apparenza e rappresenta una mediazione produttiva, storica e dialettica fra i due poli. Se l’arte anticipa la forma del possibile non realizzato nella dimensione attuale, proprio perché immanente nella realtà effettiva, scruta nell’imprevedibile e rende comprensibile la situazione data anticipandone in chiave materialistica il comportamento a venire. In questo senso si collocano le prove corrosive di De Dominicis di quegli anni. Sintomatica è Il tempo lo sbaglio lo spazio del 1969, constatazione dell’effimero e il ‘memento’ della vanitas e della morte. Il titolo ammonisce che l’uomo si è illuso, nella sua storia, di sconfiggere il tempo con la riduzione dello spazio attraverso la velocità. Sulla coscienza e la concezione di questo ‘sbaglio’ s’innestano l’idea di una sconfitta della morte fisica e una metafisica apocalittica. A questa aspirazione si collega la formulazione dell’artista e la presa di distanza dal determinismo scientifico tipico della modernità. Di contro Adorno nella sua Aesthetische Theorie (1970) evidenzia come se l’intenzionalità dell’arte è quella di criticare e mettere in discussione il sistema di dominio esistente, essa si pone come un processo di ri-totalizzazione, di riscatto del linguaggio, e quindi di attribuzione di un diverso senso di realtà. L’arte potrebbe porsi quale fondamento per una conoscenza autentica rispetto all’imperativo scientista e preludere ad una prassi realmente innovativa e cosciente per una liberazione dell’essenza umana nella sua integrità. Anzi proprio per questa tensione, essa può sopravvivere come voce provocatoria, con un valore indubbiamente etico. Fondamentale risulta allora il suo carattere enigmatico e rimanda, per così dire, al futuro la rivelazione della propria verità (De Domincis? 1970; Gino De Dominicis vi vede. Terza soluzione di immortalità, 1970 ). Come ribadisce ancora Adorno, non deve subordinarsi a nessun concetto di verità in quanto per essa ancora nessuna verità è ancora sostanziale: la sua forma proietta nel futuro la realizzazione della propria essenza, ora relegata all’apparenza. La scelta della non-esistenza instaura una circolazione di sé non più come istanza effimera e passeggera, ma eroica, dove essere artisti significa partecipare nel mistero del nulla e controllarlo. Avendosi dato e avendo ricevuto la morte (Manifesto mortuario, 1969), attraverso l’opera d’arte De Dominicis dichiara che essere artista vuol dire poter attuare tutte le forme e possibilità di reversibilità simbolica (D’Io, 1971). Andando contro il destino contrasta il percorso irreversibile della biologia, si riprende ‘il crimine’ contro la vita rappresentato dalla morte, e si dichiara grande sacerdote del mondo sconosciuto, e quindi, dell’immaginario.
Note
[i] Theodor W. Adorno, Prismen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1955 (ed. cons. Prismi, Einaudi, Torino 1972, p.165)
[ii] Basti pensare a titoli di opere del 1969 quali: Due verifiche di invisibilità: di movimento (un oggetto mosso velocemente sparisce alla vista), di peso (oggetto visibile – oggetto invisibile – oggetto mancante); Equilibrio 2 (chiodo di ferro attaccato ad un filo che parte dal soffitto, tenuto sospeso a mezz’aria dal campo magnetico di una calamita incassata nel muro; Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale (Pietra); Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra; Ipotesi cosmica; Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno ad un sasso che cade nell’acqua; Tentativo di volo.

Gino De Dominicis – Veduta della mostra, Fondazione Malvina Menegazper le Arti e le Culture, a Castelbasso (Teramo) – Photo: Gino di Paolo

Luca Vitone – Rosa Barba, Veduta della mostra, Fondazione Malvina Menegazper le Arti e le Culture, a Castelbasso (Teramo) – Photo: Gino di Paolo

Thomas Braida, Veduta della mostra, Fondazione Malvina Menegazper le Arti e le Culture, a Castelbasso (Teramo) – Photo: Gino di Paolo
Ogni maestro è visto in relazione anche ai diversi luoghi espositivi.
Gina Pane (Biarritz 1939 – Parigi 1990) trova la sua collocazione ideale nella Galleria Osvaldo Licini, nell’ex convento di Sant’Agostino di Ascoli Piceno, sede del suo dialogo con Yuri Ancarani, Francesca Grilli, Diego Marcon, Moira Ricci, Luca Trevisani.
Gino De Dominicis (Ancona 1947 – Roma 1988) abita la dimensione del borgo di Castelbasso, con i suoi Palazzi De Sanctis e Clemente, insieme a Thomas Braida, Luigi Presicce, Luca Vitone, Rosa Barba, Agne Raceviciute.
Pino Pascali (Bari 1935 – Roma 1968) si colloca nel contesto urbano di Pescara, nelle due sedi del Museo delle Genti d’Abruzzo e dello Spazio Matta, dove con lui si confrontano Pierpaolo Campanini, Federico Tosi e Invernomuto, Simone Berti, Rossella Biscotti.