Beatrice Meoni non si limita a dipingere dei frammenti di cose, dei cocci, degli scarti di stoviglie; non opera una semplice mimesi degli oggetti reali. Piuttosto questi stessi oggetti – elevati alla dignita di cose rappresentabili – sembrano preservare un mistero incondizionato, irriducibile al livello immediato della signicazione naturalistica. Scartata l’idea della natura morta – a cui l’artista si avvicina come attitudine alla contemplazione – Meoni va oltre questo genere pittorico per compiere la semplice azione di “porsi dinnanzi” alle cose. Di sostanziale importanza, dunque, si rivela l’etimologia della parola “oggetto” /o’d?:?t:o/ s. m. [dal lat. mediev. obiectum, neutro sost. di obiectus, part. pass. di obicere “porre innanzi”; propr. “cioch’e posto innanzi (al pensiero o alla vista)”].
Prima di iniziare l’atto del dipingere o, se vogliamo, di analizzare la sua pratica, l’artista si approssima agli oggetti con un’attitudine contemplativa, dipingendo molto più di cio che evisibile: l’artista racconta l’evoluzione della materia che, trasformata in oggetto con una funzione ben precisa – piatti, bicchieri, teiere, tazze ecc. – ritorna a farsi “materia” sottratta al mondo dell’utile per diventare un altro tipo di materia viva.
“Una volta arrivati nel mio studio, gli oggetti, i cocci, i frammenti stazionano in varie posizioni. Diventano parte dello studio stesso, stanno su dei tavoli, diventano o tornano ad essere in alcuni casi contenitori, porta pennelli o semplici resti che attendono nello spazio. Stazionano fino a quando, senza premeditazioni, inizio a maneggiarli per costruire delle pile instabili. Sommo gli oggetti o parti di essi andando a costruire dei mucchi instabili e improbabili. Eludendo la forza di gravità, trovando degli equilibri che possano stare o che evitino di cadere, gli oggetti a un certo punto si fermano. Inizialmente non cerco di bloccarli con colla o quant’altro. Questo fa si che, una volta fatta una composizione essa possa cambiare con il passare del tempo. A volte capita che inizio a dipingere una pila e, il giorno dopo, è già diversa. Mi piace ritrarre questo processo provvisorio di accrescimento. Ne dipingo l’evoluzione o meglio seguo la trasformazione dei vari elementi nel loro cadere.”
Erroneamente si potrebbe pensare che la sua ricerca pittorica sia circoscritta all’elaborazione formale degli oggetti, al loro accumulo e poi rappresentazione. In realtà la sua indagine spazia ben piu? lontano, in una deriva esistenziale dove l’uomo contemporaneo contempla le cose di oggi che, in pochissimo tempo, diventano gli scarti di domani. Cose e cose, che a ben guardare – e l’artista lo sa fare in modo molto intenso – hanno impresso, come fossero volti, quello che diventeranno in poco tempo. A maggior ragione, se degli oggetti se ne contemplano solo delle parti, dei frammenti o dei resti. A pezzi, essi perdono la loro funzione, diventando una sorta di fantasmi di se stessi. A nobilitarli allora, c’e la pennellata, il suo assorbire e diffondere luce, il suo tornire le forme, ma anche nasconderle, ignorarle o semplicemente, raccontarle: carezzevole come uno sguardo, impietosa come un giudizio, totalizzante come un’ammissione “nero su bianco”. Questo processo parte dal luogo in cui l’artista lavora, il suo studio, lontano pochi passi dal luogo dove vive. Questa prossimità si rivela significativa nel momento in cui gli oggetti passano da una dimensione in cui il loro senso era legato alla loro funzione, alla perdita di quest’ultima per acquisire, intensificato, un nuovo senso.
“E’ di fondamentale importanza, nella mia ricerca, definire e prendere atto della questione dello spazio in cui vivo e lavoro. Il mio studio è molto vicino agli spazi dove abito, sono collegati da un piccolo balcone. Nel tempo questo passaggio è diventato sia un luogo di transito che di “apertura”. In questo passaggio, molto spesso, gli oggetti si trasferiscono – tazze, teiere, cocci – da qui a lì e viceversa. In alcuni casi arriva un bicchiere, che magari faceva parte di una serie, che però è? rimasto solo. Giunge in studio e, da bicchiere qual era, diventa un porta pennelli o un contenitore su cui mettere altre cose, per poi diventare altro ancora.” Ingannevoli, gli oggetti che stazionano, si accumulano, cadono e si evolvono. L’artista scopre e prende consapevolezza di questa fallacia, in due momenti. “Penso agli oggetti come detentori di molti significati e funzionalità. Gli oggetti si trasformano e diventano altro. E’ come accade nel gioco dei bambini: un bicchiere può essere l’elmo di un cavaliere, una macchinina, qualunque cosa. L’immaginario dei bambini, infatti, ha le potenzialità per creare veri e propri mondi. Queste aperture sono assolutamente interessanti e molto ironiche. La possibilità di creare altro da un oggetto reale e quotidiano mi ha sempre affascinato. (…) Nel mio lavoro mi piace ritrarre il processo instabile di accrescimento. Ne dipingo l’evoluzione o meglio seguo la trasformazione dei vari elementi nel muoversi dell’accumulo.”
Un primo momento, dunque, è dato dalla comprensione che nulla è?definitivo e certo – e qui siamo nell’ordine del significato – come nell’immaginario dei bambini dove una forchetta è una lancia e una tovaglia un mantello. C’e poi un secondo momento – e qui entriamo nel campo di pertinenza del significante – in cui la materialità stessa delle cose diventa portatrice di ben altri contenuti: questa seconda fase è vissuta dall’artista nel momento in cui gli oggetti, o parti di essi, diventano pittura, compiono un ulteriore passaggio diventando racconto su tavolo dove, anzichè perdersi nella certezza del linguaggio, diventano appannaggio dell’instabilità della pittura. Il tragitto che ha portato l’artista a scorgere nel mondo degli oggetti delle assonanze con l’esistenza, tutta, è dovuto alle lunghe ore di osservazione: cogliere nella stasi degli impercettibili mutamenti.
“Non ritraggo la stasi, ritraggo soprattutto i frammenti nel loro divenire. Le composizioni – se vogliamo chiamarle cosi? per semplificare – da cui parto inizialmente non sono mai definitive, ma si muovono con il trascorrere del tempo. O perché alcuni pezzi cadono o perché io stessa ne muovo delle parti. Non stabilisco delle posizioni immutabili, domina sempre una forte precarieta?.”
Accumulare, impilare, spostare, appoggiare: queste sono le azioni che l’artista compie per costruire i suoi ‘modelli’. Pile di cocci e frammenti di porcellana, ceramica, maiolica. Quando non utilizza oggetti nella loro integrità, utilizza parti di essi, frutto di rotture, cadute, esiti di disattenzione, inconsce azioni
di sbadataggine, piccoli incidenti. Queste spaccature o interruzioni, si fissano nella materia stessa: e? come se i frammenti fossero detentori della possibilità di ricordare. Mantengono, nel loro essere, le azioni che ne hanno decretato il loro smettere di essere oggetti con una funzione per diventare degli inutili scarti. E’ come se l’artista raccogliesse le loro memorie e ne continuasse il loro perpetuo cadere: sia nei modelli composti da più?frammenti appoggiati o incollati alla meglio, sia nei dipinti. Ed e? soprattutto in questi ultimi che meglio si sintetizza la “memoria materiale” dei vari frammenti. Cancellature, stratificazioni, coperture, correzioni: “Abbandonare e ritornare sugli errori. Queste azioni fanno parte del mio modo di avvicinarmi alla pittura. E’ come se procedessi per continue citazioni. Cito il mio sguardo, cito gli oggetti, non li riproduco, ma li cito. Con la mia pittura non racconto in maniera figurativa, non sono interessata a descrivere in modo realistico gli oggetti ma, è come se li citassi, nominando alcune parti dei frammenti.”. L’artista parla di due diversi tipi di citazioni: il suo sguardo e parti di oggetti. La sua visione dunque non può che essere discontinua, piena di intervalli, di stati e moti, di andate e ritorni. Citare il proprio sguardo significa sovrapporre più visioni della stessa realtà, ma con lievi differenze; significa anche condensare in uno stesso luogo (la pittura) il presente e il passato, accumularne analogie e differenze. A queste citazioni temporali, esito di un lavorio mnemonico, Meoni ne aggiunge anche un altro tipo, tutto presente: quello della realtà che le sta di fronte, ma da cui preleva solo frammenti, parti di parti degli oggetti.
Inevitabile che ovunque, dentro e fuori le super ci pittoriche, tutto diventi instabile, precario e in continuo movimento. A sancire questo moto continuo, la luce, elemento fondamentale per la pittrice, ulteriore non-colore da mischiare con olio e trementina. Dipingendo prevalentemente con luce naturale, Meoni segue e muta il cambiare del colore con il trascorrere delle ore, ma non solo. Per ribadire l’importanza che ha lo spazio del/nel suo studio, l’artista registra i bagliori e le riflessioni che le pareti assorbono. Dalla forte luminosità?di un’intensa giornata di sole, ai riverberi della vegetazione che cresce rigogliosa nel cortile davanti allo studio. “Durante la giornata, gli oggetti assorbono luce, si abbuiano, diventano cupi, oppure, alcune loro parti sono così luminose che diventano ‘altro’ rispetto a quello che sono. Contribuisce a questo sfaldamento delle forme lo smalto di molte superfici, ulteriore elemento di trasformazione e instabilità.” Se da una parte le super ci riflettenti moltiplicano la natura instabile delle composizioni, a bloccare e assorbire la luce l’artista aggiunge delle parti in MDF (pannelli di fibra di legno), materiale utilizzato dall’artista sia nei piccoli modelli scultorei, che come supporto per i suoi dipinti.
“Ho scelto questo materiale per la sua porosità, per come reagisce alle varie stratificazioni della pittura. E’ un supporto faticoso che pero?, nel tempo e per gradi, restituisce una grande libertà. Mi piace il processo di entrare lentamente (nella pittura); all’inizio la pennellata è faticosa sulla superficie ruvida, pennellata che diventa più fluida mano a mano che il colore si strati ca. Questo materiale è molto presente nel mio studio, sia trattato per accogliere i miei dipinti, che grezzo, magari tagliato in piccoli pezzi che utilizzo nei modelli. A volte lo utilizzo per ‘appunti’, prove colore; questi appunti si uniscono agli oggetti, per cui la bidimensionalità della pittura diventa parte di un oggetto tridimensionale. Sono tutti pezzi storti. Molto spesso hanno delle geometrie non definite, sono pezzi segnati a mano, sghembi. Mi piace questo passaggio, come se questi bilanciassero gli accumuli.”
La ricerca dell’equilibrio, l’investigare con lo sguardo le superfici, la tensione – tutta spaziale – tra bi- e tridimensionalità ha come esito lo sfaldamento del piano sia pittorico che compositivo. Se concentriamo la nostra attenzione sugli sfondi, comprendiamo come l’artista racconti “il farsi e disfarsi” degli oggetti mediante il continuo spostamento dei piani. La con-fusione tra “avanti” e “dietro”, tra sfondo e primo piano è leggibile e si risolve mediante l’utilizzo delle stesse tonalità: è come se lo sfondo entrasse nella materia degli oggetti o, per l’inverso, è come se gli oggetti (che per comodità continuiamo a chiamare tali quando in realtà sono diventati puri tocchi di colore, senza peso e profondità) si sfaldassero sullo sfondo. Questo continuo andirivieni è evidente in “Dribs and drabs #3”, (p.39), dove la materia grigia penetra nelle forme e ne frantuma la linearità, così anche in “Dribs and drabs #2”, (p.35) e “Adalgisa scura”, (p.27). In quest’ultima opera, come fosse una strana luce densa e colorata, lo sfondo si adagia nella superficie di quella che potrebbe sembrare l’accozzaglia di una grande zuppiera, un coperchio, un vassoio in frantumi o ciò che ne rimane. Mentre in queste opere l’artista rispetta la centralità del soggetto principale, nelle altre opere dai toni più chiari – penso a “Plisse”, (p.25) e “Portata”, (p.33) – le composizioni escono sia dalla superficie quadro che dallo sfondo.
“Non sempre il fondo è un fondo. A volte ci sono così tanti passaggi che il fondo, smette di essere tale per diventare altro. Ad esempio nel quadro “Adalgisa scura”. Tutto il lavoro è smaterializzato, lo sfondo ‘entra’ nel soggetto e viceversa. Ho cambiato i tempi pittorici facendo sì che lo sfondo si completasse in tempi diversi, mutando anche di significato. Lo sfondo diventa cancellazione e smette di essere superficie su cui si ‘poggiano’ le cose.”
Quest’idea di continuo e instabile movimento, la sfaldatura anche temporale della creazione stessa si evince anche e soprattutto nei titoli:
Dribs and drabs (Un po’ alla volta)
Tra qui e li?
In movimento
In attesa
Senza Peso
Indici di una sorta di intermezzi, i titoli scelti dall’artista descrivono il vuoto tra le cose, uno stare di mezzo; né qui né lì, un essere in continuo movimento. Anche il titolo “In attesa”, significa che si aspetta che qualcosa accada o si medita sull’accaduto che aspetta una giustificazione. “Senza Peso”, invece, in relazione al quadro, rivela la mancanza di fisicità ma anche l’assenza di gravità. Ecco, allora, che ritorna la forza ineliminabile che attira gli oggetti al suolo, l’azione che li ha fatti cadere e li ha ridotti in pezzi. Ritorna, ribadito, il moto perpetuo, senza possibilità di riscatto.
La pittura di Beatrice Meoni, fatta di cancellature, aggiustamenti, correzioni, rivela l’imperfezione di un mondo irrimediabilmente nell’atto di cadere.