2# QUI. ENTER ATLAS ✎ Simposio curatori emergenti

27 Ottobre 2013

(Scroll down for the English version)

Continua il sopralluogo di ATPdiary – in collaborazione con Valentina Gervasoni – per conoscere i protagonisti di questa seconda giornata di Qui. Enter Atlas, il Simposio Internazionale di Curatori Emergenti, condotto quest’anno da Pierre Bal-Blanc, direttore del CAC – Centre d’art contemporain de Brétigny, e Mirjam Varadinis, curatrice della Kunsthaus di Zurigo, curato da Giacinto Di Pietrantonio e Stefano Raimondi.

Dal 26 al 28 ottobre 2013 la GAMeC di Bergamo ospita i giovani talenti internazionali di Qui. Enter Atlas, un simposio giunto alla sua quinta edizione e del Premio Lorenzo Bonaldi per l’Arte-EnterPrize,  istituito dal 2003 dalla GAMeC e dalla famiglia Bonaldi, da sempre appassionata d’arte.

? Prima giornata / Simposio curatori emergenti

? Biografie dei relatori

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Michele D’Aurizio

ATP: Partiamo dall’inizio: chi sei? Come sei diventato curatore? Chi sono i tuoi modelli?

Michele D’Aurizio: Io sono un curatore e uno scrittore d’arte; dopo tanti sforzi, ho stilato il programma dello spazio no-profit Gasconade, a Milano. A un certo punto della mia vita, mi sono reso conto che le mie preoccupazioni, attitudini e competenze avrebbero potuto incontrarsi  in una figura professionale, quella del  curatore.  Non ho modelli di riferimento, perché non ho avuto alcun mentore.

ATP: Quale immagine meglio rappresenta il tuo essere curatore? Perché?

M.D’A.:Cerco di equilibrare l’essere un produttore culturale con l’essere un arredatore d’interni, un futurologo e un amico per gli artisti.

ATP: Mi racconti l’ultima mostra che hai visto. Qual è la tua opinione in merito?

M.D’A.: Recentemente ho visitato la mostra personale di Allora e Calzadilla alla Fondazione Trussardi a Milano, e, a fine della giornata, ho pensato che i “white-cubes” non sono poi così noiosi. Mentre la cosa più impressionante che ho visto in questa stagione è il nuovo film di Loretta Fahrenholz alla Galleria Daniel Buchholz di Berlino.

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Theodor Ringborg

ATP: Partiamo dall’inizio: chi sei? Come sei diventato curatore? Chi sono i tuoi modelli?

Theodor Ringborg: Mentre studiavo storia dell’arte all’università, ho accettato lavori occasionali come tecnico presso gallerie e altri luoghi d’arte. Dopo un po’, ho iniziato a lavorare a stretto contatto con gli artisti, creando installazioni spesso molto grandi e complesse. A quel tempo avevo solo una vaga idea della curatela e dell’impiego di un curatore, ma parlando con gli artisti per cui stavo lavorando, discutendo dello spazio, del posizionamento, del contesto, della costruzione e del lavoro naturalmente, e venendo sempre più a contatto con curatori, attraverso gli artisti, sono arrivato a capire di più della realizzazione di un’opera d’arte, dello spazio, del concetto e della realizzazione fisica di un pezzo, che a sua volta mi hanno reso più consapevole di quello che volevo e potevo realizzare come curatore. In termini di modelli ci sono naturalmente i progetti storici che le persone hanno incitato e le mostre che ammiro, ma più di tutto guardo a quelle in cui ho lavorato fin dall’inizio, in quanto è allora che la mia pratica ha cominciato a prendere forma.

ATP: Quale immagine meglio rappresenta il tuo essere curatore? Perché?

T.R.: È una domanda curiosa e devo dire che davvero non lo so. Sono combattuto tra diverse possibili risposte, ma non posso dire di poter dire qualcosa di certo. C’è un dipinto del 1889 di Gabriel von Max dal titolo Monkeys as Judges of Art; forse questo è il curatore?

Gabriel Cornelius von Max,   Monkeys as Judges of Art,   1889

Gabriel Cornelius von Max, Monkeys as Judges of Art, 1889

ATP: Mi racconti l’ultima mostra che hai visto. Qual è la tua opinione in merito?

T.R.: Una delle recenti mostre che ho visto è quella di Trevor Paglen a Istanbul. C’è un video, che si trova materiale, in cui vediamo gli esperimenti della NASA con un satellite gonfiabile degli anni Sessanta. Ciò che Paglen ha fatto per la mostra è stato costruire un prototipo di quattro metri di altezza di un satellite gonfiabile funzionante, molto simile a quello che si vede nel video. Si tratta di un oggetto straordinario ed è difficile da descrivere; anche se sapevo che era un oggetto inanimato, sono restato in piedi di fronte a esso abbagliato e in attesa che facesse qualcosa. Credo di dover spiegare qui che Protocinema è un progetto di mostre itineranti che fa esibizioni in spazi ogni volta diversi. In quest’occasione, nonostante io, naturalmente, sapessi che stavo andando a una mostra , lo spazio e il modo in cui il lavoro è stato presentato mi ha fatto sentire come se fosse stata una scoperta , come se avessi scoperto una specie di segreto . Un satellite clandestino in attesa soltanto di essere inviato in orbita. Una vera e propria esperienza per me, sia in termini del lavoro stesso, ma anche per il modo in cui è stato curato, organizzato e presentato.

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Antonia Alampi

ATP: Partiamo dall’inizio: chi sei? Come sei diventato curatore? Chi sono i tuoi modelli?

Antonia Alampi: Sono Antonia Alampi.  L’arte mi accompagna fin dall’infanzia. Una passione iniziata con mia madre, che, poi, è stata con me al liceo e mi ha seguito all’università. Ho iniziato a lavorare in alcune istituzioni artistiche e poi ho fondato la mia, dove ho svolto ogni ruolo necessario. L’ho lasciata e ho preso del tempo per riflettere sulle specificità della curatela in un programma di studi curatoriali ad Amsterdam. Oggi sono una curatrice, una scrittrice e di tanto in tanto la co-direttrice di Beirut, a Il Cairo.

La curatela è PRENDERE TEMPO.

Ci piace interpretare ruoli in luoghi, situazioni e istituzioni. Ce ne prendiamo cura, e ne siamo responsabili.

Jorge Luis Borges, Seth Siegelaub, Raimundas Malasauskas, Harald Szeemann, Lucy Lippard, Pino Pascali, Gino de Dominicis, surrealisti e dadaisti, Gianni Motti, Marcel Duchamp, Herman Melville, Don De Lillo, Roland Barthes, …

ATP: Quale immagine meglio rappresenta il tuo essere curatore? Perché?

A.A.: Dovete sapere che l’arcobaleno è l’opera che in natura più assomiglia
all’opera d’arte, perché:

– si stacca con violenza da ciò che lo circonda

– abbraccia sia ciò che lo contiene che ciò che lo circonda

– ha una consistenza materica omogenea

– ha una luce assai differenziata

– dall’alto volge verso la terra ma senza premere

– non sale mai tanto in alto da essere inafferrabile

– unisce due punti ma senza creare una relazione

– va dalla luce all’ombra ma di sbieco

– riempie il mondo ampliandolo

– giunge quando gli animali escono dalle loro tane e riprendono la voglia di vivere.

Luciano Fabro, Aufhanger, 1983

Luciano Fabro,   Arcobaleno,   1980 installation view at Van Abbemuseum

Luciano Fabro, Arcobaleno, 1980 installation view at Van Abbemuseum

ATP: Mi racconti l’ultima mostra che hai visto. Qual è la tua opinione in merito?

A.A.: La personale di Luciano Fabro Disegno In-Opera presso la GAMeC.

“L’atto artistico è sempre un’azione morale anche quando un pittore riduce il colore alla sua forma più pura, proprio come quando si mette un’ombra al suo posto”. Queste sono parole di Luciano Fabro che mi ha letto Andrew Berardini. Magnificamente e moralmente poetico.

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Lara Khaldi

ATP: Partiamo dall’inizio: chi sei? Come sei diventato curatore? Chi sono i tuoi modelli?

Lara Khaldi: Mi chiamo Lara Khaldi, ho studiato storia dell’arte e archeologia; sapevo di non voler essere archeologa(!), nonostante non ne fossi tanto sicura..un giorno non molto lontano dalla mia laurea, stavo camminando nella vecchia città di Gerusalemme e mi sono imbattuta nella Al Ma’mal Art Foundation. Dopo alcuni mesi di volontariato presso questa fondazione, ho capito che volevo trovare un modo per lavorare con artisti viventi e non morti. Mi piacerebbe curare una mostra che contenga tanto umorismo nero quanto ce n’è nei film del regista Elia Suleiman.

ATP:  Quale immagine meglio rappresenta il tuo essere curatore? Perché?

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 ATP:  Mi racconti l’ultima mostra che hai visto. Qual è la tua opinione in merito?

A.K.: L’ultima mostra che ho visto, due giorni fa, è Meeting Points 7: Ten thousand wiles and a hundred thousand tricks, curata da WHW/ what, how and for whom ad Anversa presso il MuHKA e organizzata da YATF. Mi è piaciuta molto; riflette sul difficile momento in cui si deve portare avanti una rivoluzione, subito dopo l’euforia; è estremamente difficoltoso articolare e mantenere viva la questione aperta con le rivoluzioni soprattutto e le sue conseguenze ancora in corso. Presenti in mostra alcune opere eccezionali di Lawrence Abu Hamdan, Marwa Arsanios, Simone Fattal, Simohammed Fettaka, kayfa ta & Haytham El-Wardany, Maha Maamoun, Jumana Manna, Tom Nicholson e molti altri.

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Michele D’Aurizio

ATP: Starting from the beginning: who are you? How have you become a curator? Which are your role models?
Michele D’Aurizio: I am a curator and an art writer; among a number of efforts, I shape the program of a nonprofit art space called Gasconade, in Milan. At a certain point in life, I realized that my concerns, aptitudes and skills could meet into a professional role, that is the curator. I have no role models, because I didn’t have any mentor.

ATP: What image bests represents being a curator? Why?
M.D’A.: I try to balance between being a cultural producer and an interior decorator, a futurologist and a friend for artists.

ATP: Tell me about the last exhibition that you have seen. Which is your personal opinion?
M.D’A.: I recently visited the solo show by Allora and Calzadilla at the Fondazione Trussardi in Milan; and I thought that at the end of the day “white-cubes” are not so uninteresting. While, the most impressive thing I have seen this season is Loretta Fahrenholz’s new film at Galerie Daniel Buchholz in Berlin.

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Theodor Ringborg 

ATP: Starting from the beginning: who are you? How have you become a curator? Which are your role models?

Theodor Ringborg: While studying Art History at the University I took odd jobs as a technician at galleries and other art places. After a while I came to work closely with artists building larger often quite complex installations. At the time I had only a vague idea of curating and the occupation of a curator but talking with the artists I was building for, discussing space, placement, context, construction and the work, of course, and coming in more and more in contact with curators through the artists I came to understand more of the making of a work of art, space, concept and the physical making of a piece, which in turn made me more aware of what I wanted and could accomplish as a curator. In terms of role models there are of course historical projects that people have instigated and exhibitions I admire but more than anything I look up to those I worked with in the very beginning as it is then that my practice began to take shape.

ATP: What image bests represents being a curator? Why?

T.R.: It’s a curious questions and I have to say I really don’t know. I’m torn between several potential replies but cannot say that I could say anything for certain.  There is a painting from 1889 by Gabriel von Max titled Monkeys as Judges of Art, perhaps this is the curator?

ATP:  Tell me about the last exhibition that you have seen. Which is your personal opinion? 

T.R.: One of the recent exhibitions I’ve seen is one by Trevor Paglen in Istanbul. There is a video, which is found material, where we see NASA experiments with an inflatable satellite from the 60’s. What Paglen has done for the exhibition is to construct a 4meter tall prototype for a functioning inflatable satellite much like the one we see in the video. It is an extraordinary object and it is difficult to describe, but even through I knew it was an inanimate object I stood in front of it glaring and waiting for it to do something. I should I think here explain that Protocinema is an itinerant exhibitions project that makes shows in different spaces each time. On this occasion, despite the fact that I of course knew I was going to an exhibition, the space and the manner in which the work was presented made it feel like it was a discovery, like I had discovered a sort of secret. A clandestine satellite that was just waiting to be sent to orbit. I was a very real experience, both in terms of the work itself but also the way it was curated, organized and presented.

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Antonia Alampi

ATP: Starting from the beginning: who are you? How have you become a curator? Which are your role models?

Antonia Alampi: I am Antonia Alampi.  Art accompanies me since childhood. It was with my mother, with me in high school and it followed me through university. I started working in its institutions and then I founded my own, where I would perform every role needed. I left it and took time to reflect on the specifics of curating in a program in Amsterdam. Today I am a curator, a writer, occasionally a co-director at Beirut, in Cairo.

TO CURATE IS TO TAKE TIME.

We like to perform roles in place, plays and institutions.  We care, concern and are responsible for them.

Jorge Luis Borges, Seth Siegelaub, Raimundas Malasauskas, Harald Szeemann, Lucy Lippard, Pino Pascali, Gino de Dominicis, Surrealists and Dadaists, Gianni Motti, Marcel Duchamp, Herman Melville, Don De Lillo, Roland Barthes…

ATP: What image bests represents being a curator? Why?

A.A.: You ought to know that the rainbow is the opus in nature that most resembles an art work, because:

– it detaches wih violence from its surroundings

– it embraces both what it contains and what it surrounds

– it has a uniform material consistency

– it has an elementary light structure

– it has vey differntiated liht

-from above it turns to warz the Earth but does not press

– it does not climb so high as to be elusive

– it combines two points but never creates a relationship

– it goes from light to shade but on the bias

– it fills the world by making it bigger

– it arrives when animals come out of their burrows and recover the will to live

Luciano Fabro,  Aufhanger, 1983

ATP: Tell me about the last exhibition that you have seen. Which is your personal
opinion?

A.A.: A solo show by Luciano Fabro at GAMEC. “The artistic act is always a moral act even when a painter reduces color to its purest form just like when he puts a shadow back in its place.” words by Luciano Fabro, read to me by Andrew Berardini. Magnificently, and morally, poetic.

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Lara Khaldi

ATP: Starting from the beginning: who are you? How have you become a curator? Which are your role models?

Lara Khaldi: My name is Lara Khaldi, I studied art history and Archaeology, I knew I didn’t want to be an archaeologist! not sure what though… One day not long after I graduated I was walking in the old city of Jerusalem and came across Al Ma’mal Art Foundation, I ended up volunteering there for a few months, and understood that I wanted to find a way to work with living artists rather than dead ones! I would love to curate an exhibition that contains as much dark humor as there is in director Elia Suleiman’s films!

ATP: What image bests represents being a curator? Why?

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ATP: Tell me about the last exhibition that you have seen. Which is your personal opinion?

A.K.: The last exhibition I’ve seen is meeting points 7: ten thousand wiles and a hundred thousand tricks, curated by WHW / what, how and for whom in Antwerp at MuHKA and produced by YATF two days ago. I liked the exhibition very much, it reflected on the very difficult moment of carrying on with a revolution, with the moment right after the euphoria which is extremely difficult to articulate and keep as an open question especially with the revolutions and their aftermath still ongoing. There were some great works by Lawrence Abu Hamdan,  Marwa Arsanios,  Simone Fattal,  Simohammed Fettaka,   Kayfa ta & Haytham El-Wardany,  Maha Maamoun,  Jumana Manna,  Tom Nicholson and many others.

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