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– VISIONI – Conversazione con Marco Paltrinieri

Marco Paltrinieri è membro fondatore del collettivo di ricerca artistica Discipula, le cui opere sono state esposte in gallerie, musei e festival in Italia e nel mondo. Lavorando con il suono, il video e la scrittura, la sua pratica solista...

Marco Paltrinieri, The Weaver, 2020, © Canti Magnetici
Marco Paltrinieri, The Weaver, 2020, © Canti Magnetici

Marco Paltrinieri è membro fondatore del collettivo di ricerca artistica Discipula, le cui opere sono state esposte in gallerie, musei e festival in Italia e nel mondo. Lavorando con il suono, il video e la scrittura, la sua pratica solista si occupa della tensione tra avanzamento tecnologico e l’inevitabile condizione di finitudine della specie umana. Recentemente ha pubblicato il primo disco solista “The Weaver” su Canti Magnetici. Attualmente insegna “Teoria dell’Immagine” presso Cfp Bauer di Milano.

Segue l’intervista di Mauro Zanchi a Marco Paltrinieri —

Mauro Zanchi: Verso quali immaginari (e immagini) ci stiamo dirigendo?

Marco Paltrinieri: Per fortuna non sono in grado di dare una risposta capace di indicare con precisione le coordinate verso le quali ci stiamo dirigendo. Dico “per fortuna” perché tale ignoranza lascia spazio a molteplici speculazioni sulle quali si fonda l’architettura della mia ricerca artistica e in parte anche quella del mio lavoro di insegnante. Cerco di osservare i segni del presente e il ruolo che le immagini hanno giocato nel portarci al punto in cui ci troviamo oggi e da qui mi prendo la libertà di costruire visioni più o meno plausibili. Nel fare questo devo dire che mi capita talvolta di trovare nei miei studenti dei preziosi complici. Non è raro infatti ritrovarci a lezione a fantasticare sul futuro delle immagini e di riflesso sul futuro di cultura e società. Sono discussioni durante le quali spesso sono io il primo a prendere appunti. Cos’altro dire? Ammetto di essere ossessionato dalla visione di un mondo post umano dove le immagini, oramai organismi pienamente senzienti, vagano malinconicamente, convinte di essere coloro che le hanno nutrite e venerate per millenni.

MZ: La ricerca metafotografica dove sta conducendo il processo legato all’immagine? Che metamorfosi sono in atto?

MP: Personalmente non credo ci sia niente di radicale o rivoluzionario in ciò che va sotto il nome di metafotografia. Si tratta “semplicemente” del tentativo di meglio comprendere un soggetto così complesso e stratificato come quello dell’immagine contemporanea. Un soggetto con uno spettro di indagine amplissimo, che va dall’analisi di ciò che è un’immagine oggi, la sua fisiologia e costituzione, fino all’impatto che essa è in grado di generare su di noi a livello culturale, così come psicologico e neurocognitivo. La cosiddetta ricerca metafotografica non fa altro che seguire (o forse è ancora meglio dire inseguire) l’evoluzione e le mutazioni delle immagini là fuori. Nel fare ciò è inevitabile e giusto che tale pratica si sporchi le mani con differenti linguaggi e strategie. Ecco, sicuramente la “normalizzazione” di questo fenomeno di allargamento e contaminazione del fotografico con altri linguaggi, prima dominio esclusivo di qualche artista illuminato (penso a gente come Ruscha o Baldessari), è uno degli effetti più evidenti della ricerca (meta)fotografica contemporanea. Detto questo, mi preme sottolineare che pur essendo da tempo interessato alle immagini, il mio è il punto di vista di un “nomade” della ricerca artistica. La mia formazione è nelle scienze sociali, non sono un fotografo e mi sono sempre mosso tra linguaggi senza grossi scrupoli o paranoie, dunque immaginerai che non posso che trovarmi a mio agio nella commistione tra diverse pratiche artistiche. Lo abbiamo fatto per anni con Discipula, e nel mio lavoro solista con il suono non faccio altro che espandere questa attitudine. Ho appena pubblicato un disco e sebbene per un osservatore esterno questo progetto possa apparire completamente scollegato da quanto ho fatto finora, non solo è estremamente coerente all’interno del mio percorso ma è addirittura stato concepito pensando moltissimo alle immagini. Questo vale sia per i contenuti effettivi (buona parte dei testi realizzati per il disco porta avanti il mio lavoro di scrittura fatto con Discipula), che per il tentativo effettivo di lavorare con più attenzione verso una specifica tipologia di immagini: immagini sfuggevoli, costruzioni soggettive effetto del dialogo tra testo e suono. In questi termini, The Weaver, questo il titolo del disco, è un passo importante nel tentativo di lavorare mettendo quella che WTJ Mitchell chiama picture un po’ ai margini del discorso, concentrandomi invece sulla nozione di image intesa come entità astratta e immateriale, in grado di essere evocata e incarnata su molteplici supporti. Un paio di suggestioni per me fondamentali e forse utili per meglio comprendere questo approccio sono Blue (1993) di Derek Jarman, film a tutti gli effetti nonostante l’assenza di immagini e quei mitici 3 minuti addirittura prima dei titoli di testa in 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick, con la musica di Ligeti su schermo nero. Una vera e propria voragine dove l’immaginazione corre selvaggia. In conclusione, credo semplicemente di seguire i miei interessi verso un’idea di immagine la più liquida possibile. In questo non c’è nessun tipo di rigetto verso approcci più tradizionali, sia ben chiaro. Anzi, come sempre mi capita, e torniamo alla questione del mio “status nomadico”, ora che mi trovo ancora più lontano dalla fotografia sensu stricto guardo al lavoro di fotografi anche classici con occhi nuovi e rinnovata curiosità.

MZ: I visual studies hanno influenzato il modo di realizzare nuove concezioni di immagini?

MP: Direi certamente di sì, pur ribadendo anche in questo caso quanto detto nella mia precedente risposta; con la proliferazione tentacolare delle immagini a partire dal secondo dopoguerra era inevitabile un loro studio allargato in grado di analizzarne i molteplici sviluppi tra alta e bassa cultura. Poi come in una sorta di circolo virtuoso l’esperienza accumulata da filosofi, sociologi e compagnia si è riversata nella pratica artistica attraverso nuove ed originali formulazioni. Il divenire di questa dinamica credo possa essere perfettamente sintetizzato dal lavoro da teorici/artisti come Harun Farocki e Hito Steyerl, per me due capisaldi della pratica artistica contemporanea centrata sulle immagini. 

MZ: Vilém Flusser ha individuato la possibilità di vagare creativamente con lo sguardo, a tentoni, sulla superficie dell’immagine, attraverso uno scanning, seguendo un percorso complesso e sottile, formato contemporaneamente dalla struttura dell’immagine e dall’intenzione dell’osservatore. Le immagini sarebbero quindi complessi simbolici connotativi (plurivoci), che lasciano spazio e tempo alle interpretazioni del fruitore. Tu come ti rapporti rispetto a questa visione di Flusser? E i Discipula hanno sperimentato possibilità di mettere in azione lo scanning?

MP: Spoilerando la domanda successiva, credo che questa visione spieghi con una certa chiarezza il potere magico delle immagini e il perché, rimanendo sempre nella lettura di Flusser, teorico che amo molto, le immagini si siano frapposte fra noi e il mondo al punto da sostituire il mondo stesso. Non credo ci sia molto altro da aggiungere. Ogni immagine è una amalgama di segni mutanti capace di mostrarci quello che vogliamo o che dobbiamo vedere, a seconda delle circostanze. Se non è magia questa… 

Marco Paltrinieri, L’Altra Parte, still da video, 2020, © Canti Magnetici
Marco Paltrinieri, The Weaver, 2020, © Canti Magnetici

MZ: Lo spaziotempo dell’immagine è definito da Flusser come “mondo della magia”, ovvero un mondo che “si distingue strutturalmente dal mondo della linearità storica, nel quale nulla si ripete e tutto ha cause e avrà conseguenze. Per esempio: nel mondo storico, l’alba è causa del canto del gallo, in quello magico, l’alba significa il canto e il canto significa l’alba. Il significato delle immagini è magico”. Che valore dai al termine “magia”, connotandolo a ciò che accade ora (sia a livello artistico sia sul piano inerente allo sguardo sul mondo)?

MP: Ammetto che per molto tempo la parola magia non è mai stata una voce molto gettonata nel mio personale catalogo di interessi. Solo ultimamente mi sono avvicinato al soggetto grazie all’approfondimento, decisamente extra-fotografico, sulla ricerca e sui testi di una band post industrial inglese che si chiama Coil e che amo molto. Grazie a loro ad esempio ho scoperto il lavoro di Austin Osman Spare, uno che comunque 2 o 3 cose interessanti sulle immagini potrebbe insegnarle. Ad ogni modo, se devo pensare al “magico” rispetto alle immagini mi trovo più interessato a riflettere su dinamiche diciamo socioculturali piuttosto che sulle specifiche “illusioni” del vedere nell’era digitale, per dirla alla Charlotte Cotton. Mi ritrovo dunque a partire da Flusser che nel 1990 dice: “Lo scopo di tutto quanto è diventare immagine / tutto rotola verso un’immagine” – flusser talks photography . Una visione, la sua di grande forza evocativa, che non fa altro che rinforzarsi con il passare degli anni. Le immagini sono in grado di possederci e di costruire attorno a noi molteplici versioni della realtà. Dando corda alla fantasia, potremmo dire che chi ha potere sulle immagini può essere paragonato a una sorta di Sutter Cane – lo scrittore stregone creato da John Carpenter per il suo In the mouth of madness (1994) – figura capace di condurre a piacimento all’estasi e alla follia i suoi lettori fino a generare una vera e propria apocalisse. Grazie alla violenta accelerazione tecnologia dell’ultimo ventennio, le immagini, e assieme a esse l’atto fotografico (quasi del tutto svuotato di qualsiasi consapevole intenzionalità), si sono diffuse come un virus che ha portato alla saturazione del reale con miliardi di altri possibili reali. Tutto questo conduce a una sorta di implosione del reale stesso. Risultato di questo processo è un presente che ripete se stesso all’infinito fino al punto di eliminare anche lo “spiacevole inconveniente” della morte (nello specifico penso all’esempio di “Meeting You” un programma tv Koreano, dove lo scorso anno è stata “riportata in vita” una bambina attraverso la realtà virtuale. Una fedele replica creata attraverso le foto messe a disposizioni dalla famiglia e i cui movimenti sono stati realizzati grazie ad altri bambini che hanno funzionato come simulacro). Insomma, è come se lo spazio/tempo dell’immagine descritto da Flusser si fosse irreparabilmente esteso all’intero spettro del reale. All’artista il compito di liberarci dall’incantesimo, verosimilmente sperimentando con gli stessi ingredienti della formula magica. A tal proposito, senza dilungarmi oltre cito un passaggio che credo pertinente tratto da un’intervista a Genesis P. Orridge in cui parla dell’influenza dei cut up Borroughsiani sulla sua vita e lavoro:  “[…] What (Borroughs) explained to me  was pivotal to the unfolding of my life and art: Everything is recorded. If it is recorded, it can be edited. If it can be edited then the order, sense, meaning and direction are as arbitrary and personal as the agenda and/or person editing. This is magick.” (Book of Lies: The Disinformation Guide to Magick and the Occult edited by Metzger, Richard)

MZ: Mentre ci proiettiamo in direzione del futuro negoziamo un adattamento continuo col “nuovo” che si viene a formare e cerchiamo di adattarci alle inedite condizioni, dove sempre più aggiornate tecnologie vengono messe sul mercato, ridisegnando ogni volta il rapporto delle persone con novità e macchine non ancora sedimentate e maturate. Che ruolo ha l’indagine artistica nell’attuale realtà iper-storica, pervasa dalla cyber cultura, dal postumanesimo e dall’iconosfera?

MP: Credo che abbia lo stesso identico ruolo da almeno cento e rotti anni: fornire uno spazio sicuro per le più ardite esplorazioni e sperimentazioni sul reale. Uno spazio di critica e speculazione in cui generare ipotesi, collegamenti in apparenza impossibili tra il fattuale e l’immaginario, tra il personale e il sociale e così via. Inoltre secondo me non c’è poi questa grande differenza tra artisti che si confrontavano con la rapida industrializzazione di inizio 900 e artisti che oggi si confrontano con la rivoluzione digitale. Stessa necessità di comprendere trasformazioni rapide e imponenti, stessa urgenza. Oggi, e questa è una idea che avevo già espresso nell’intervista fatta con te in qualità di Discipula qualche mese fa, la sfida dell’arte sta nell’individuare e mostrare sentieri attraverso le crepe del presente per tracciare nuovi possibili futuri.

MZ: Cosa si cela dentro il mistero di una afterimage? Quali processi di memoria emergono?

MP: L’afterimage è forse l’unica occasione in cui si può osservare direttamente la natura disincarnata e fantasmatica delle immagini, entità in continuo movimento tra una moltitudine di supporti: lo schermo di un computer, la pagina di un giornale, il nostro smartphone così come la retina dei nostri occhi e la nostra memoria. 

MZ: Quale è per te un’immagine che respira?

MP: LINK Questa è una lista di animali che sono stati clonati. Ecco, potremmo dire che ognuno di questi è un’immagine che respira. Purtroppo tocca ammettere che l’idea in questione non è mia ma di WJT Mitchell, approfondita in uno dei saggi sulle immagini che più amo, anzi forse il mio favorito: Scienza delle Immagini, che dà il titolo all’omonima raccolta pubblicata nel 2015. Qui, riguardo alla questione del clone Mitchell scrive: “Il clone è un’immagine dialettica. Esso punta in avanti, verso un futuro utopico o distopico nel quale la legge dell’ “immagine sputata”, dell’esatto simulacro, sarà estesa a un livello senza precedenti. E guarda indietro alle nostre più arcaiche fantasie riguardo alle immagini: che esse siano imitazioni della vita in un senso più che figurato…”. Ecco, devo dire che questo tipo di scrittura speculativa è ciò che più mi entusiasma e che mi porta a mantenere le immagini al centro della mia riflessione, indipendentemente dagli strumenti che decida di volta in volta di adottare. Questo perché più passa il tempo e più mi pare che questo soggetto diventi punto di convergenza e snodo di molte tensioni della contemporaneità, alcune delle quali a me molto care.

Marco Paltrinieri & Sam Brown, Untitled (work in progress), 2020
Marco Paltrinieri & Sam Brown, Untitled (work in progress), 2020

MZ: Ogni opera d’arte che funziona si presenta alla storia nella sua stratificazione congenita, riproduce memorie “biologiche” passate e presenti,  raccorda e manipola le cronologie, separando elementi solitamente uniti o unendo elementi generalmente separati. L’ordine della storia dell’arte sarà sempre meno filologico e l’immaginazione colmerà plausibilmente le lacune della storia, ne creerà di nuove tra tutti i materiali a sua disposizione?

MP: Non sono uno storico dell’arte, tantomeno un critico, ma penso che l’idea di ordine nella storia dell’arte abbia funzionato più o meno bene fino al 900, lasciando poi spazio a una assoluta e non più ricomponibile frammentazione che, passando per postmodernismo e post-strutturalismo, ci conduce fino ad oggi. Per quanto mi riguarda, accetto questo stato di cose e vedo piuttosto di farne leva nel mio lavoro in maniera possibilmente costruttiva. Un buon esempio può essere la grafica del mio disco. Sviluppata con il prezioso aiuto di un giovane grafico che si chiama Vito Battista. Il progetto è stato realizzato cercando di pagare omaggio alla poesia concreta e a certa arte concettuale, entrambi movimenti specifici di un determinato momento storico, gli anni 60 e 70, introducendo però riferimenti grafici che invece richiamano al digitale e dunque al contemporaneo. L’idea è quella di strizzare l’occhio ad un certo modo di fare arte a me vicino e per introdurre al tempo stesso una tensione tra fisico/analogico da una parte e digitale dall’altra che viene poi sviscerata nel disco, proiettandola verso una dimensione speculativa. Questo approccio viene direttamente dal lavoro fatto con Discipula, dove spesso riprendiamo l’estetica di artisti e movimenti del passato, utilizzandola come template per dare forma a immaginari iconografici relativi al presente o a futuri ipotetici. Chiaramente questa strategia ha come obbiettivo quello di dare profondità ai nostri lavori attraverso la creazione di cortocircuiti tra mondi e dimensioni diverse. Rispetto a questo modus operandi penso anche al fare di molti artisti che lavorano direttamente sulla storia dalle trincee del presente. Esempio perfetto a tal proposito è l’Afrofuturismo, filone trasversale che attraversa arte, cinema, letteratura e musica nato negli anni 70 ma drammaticamente caldo oggi. Trovo emozionante in questo caso come lo sguardo prismatico, necessità adattiva imposta dal presente, si sposti sul passato per esaminare, stravolgere e talvolta riscrivere la storia in favore di un nuovo domani.

MZ: Quali sono gli studiosi e gli studi che più ti appassionano in questo momento storico?

MP: Inevitabilmente negli ultimi anni mi sono avvicinato alla questione ecologica dalla quale credo che non si possa né si debba prescindere e un autore che più di altri mi è rimasto impresso è Eduardo Viveiros de Castro. Esiste un mondo a venire? (2017), scritto con Deborah Danowski, inquadra la crisi climatica unita al tema (spesso abusato) dell’apocalisse con grande sobrietà e soprattutto introducendo un punto di vista periferico rispetto alla solita retorica ambientalista occidentale, quello degli Amerindi. Seguo sempre con attenzione le uscite di Urbanomic, casa editrice Inglese di riferimento per la theory fiction; in particolare mi è piaciuto recentemente After Death (2020) di François Bonnet che conoscevo soprattutto per la sua produzione musicale a nome Kassel Jaeger. Si tratta di un buon volume che analizza il senso di onnipotenza e infinitude caratteristico dell’uomo in rapporto all’attuale crisi nostra società. Infine, parlando di futuri possibili, ho acquistato e non vedo l’ora di iniziare I Cosmisti Russi (movimento filosofico di inizio 900 guidato da Nikolaj Fedorov), raccomandatomi dal buon Stefano Non di Spazio Gamma, i cui suggerimenti prendo sempre molto seriamente.

MZ: Dentro a una concezione dell’immagine pare ormai inevitabile e  indispensabile anche analizzare le dinamiche messe in azione dall’iconosfera e dalle nuove forme di vita iconica, coinvolgendo vari saperi, con i loro fluidi scambi imago-linguistici (che comunicano tra loro contemporaneamente sia attraverso le immagini sia con la parola dinamica), con le nuove visioni del mondo, con sentimenti, pensieri, strutture politiche e sociali. Come si può innescare una nuova grammatologia (sia metafotografica sia oltrefotografica), un inedito dialogo e una compenetrazione tra le sfere antinomiche dell’immagine e della parola, per far evolvere ulteriormente gli studi iconologici e della semiotica?

MP: Direi prendendo in considerazione in maniera più ampia possibile lo spettro delle relazioni tra testo/parola e immagini sia a livello di pura “formalizzazione” (foto-testo certo, ma anche fumetti, design, cinema, videogiochi, ecc) che a livello più profondo (rapporto tra immagini e contenuti a livello mnemonico/cognitivo ma anche rispetto al “semplice” potenziale visivo insito nel linguaggio, nella parola). 

MZ: Secondo te la attuale ricerca artistica che utilizza anche il medium fotografico quali riferimenti intercetta? L’artista contemporaneo adatta la propria operatività concettualmente e contestualmente, per aggiornare il valore socioculturale dei materiali che interpella, e riempie le lacune della storia, moltiplicandone le direzioni?

MP: La ricerca artistica che adotta il medium fotografico credo abbia una distesa pressoché infinita di possibilità davanti a sé. Essa non può avere limiti, perché è il medium fotografico in primis a non avere oggi più limiti.

MZ: Vi sono ricerche che radunano tanti frammenti caotici, dove l’artista riporta la propria esperienza di tempo. Come agiscono queste ricerche nella contemporaneità, intesa come spazio di diverse con-temporalità? 

MP: Sarei curioso di conoscere qualche esempio delle ricerche a cui ti riferisci per poter essere più preciso nelle mie affermazioni. Ragionando più in astratto, credo che la questione si debba ricondurre alla sensibilità dell’artista, che deve essere in grado di posizionarsi criticamente rispetto al flusso degli eventi ed avere la sensibilità per indicare ed analizzare un determinato fenomeno, evitando una specie di mise en abyme tra opera e realtà, che rischia solo di amplificare determinate dinamiche. Questo tipo di problematica, che in un certo senso nasce con il diffondersi dell’appropriazione come pratica artistica, mi pare per esempio diffusa in molta internet art, che nasce con il pretesto di analizzare il “fenomeno” internet ma che dal fenomeno stesso viene poi assimilata, inglobata. Ecco, lo stesso discorso credo valga anche per un soggetto delicato come quello del tempo, la cui manipolazione a fini politici ed economici e frammentazione socioculturale per mezzo dell’invasione digitale nella sfera del reale conduce a questa sorta di eterno presente all’interno del quale viviamo. Ricollegandomi alla tua domanda, mi chiedo se riportare la propria esperienza di tempo senza indagare le cause che ci hanno condotto a questa condizione di multi-temporalità possa essere sufficiente. Se così non fosse, il rischio è appunto quello della reiterazione del fenomeno. 

Marco Paltrinieri, Persona, 2015, © Discipula
Marco Paltrinieri, Persona, 2015, © Discipula
Marco Paltrinieri, Persona, 2015, © Discipula
Marco Paltrinieri, Part of an Archipelago, 2015, © Discipula