Vedere col gusto | Intervista con Fabrizio Bellomo

"Hai notato che la frase «anche l’occhio vuole la sua parte», tanto più in voga nei ‘90, negli ultimi anni si è andata a utilizzare sempre meno, forse perché l’occhio – nel frattempo – si è davvero preso tutto? La vista è entrata con prepotenza, e a causa della moltiplicazione delle immagini digitali, in tutte le sfaccettature dell’esperienza umana?" F.B.
30 Aprile 2021

Mauro Zanchi:  Da artista che utilizza più media nel rapporto con il reale, come rivolgi lo sguardo sugli aspetti che appartengono alle declinazioni sottili del gusto, all’assaporare con cognizione di causa o al lasciarsi portare dalle sorprese, al coinvolgimento di più sensi nel rito del convivio?

FB: Nell’approccio al rito del convivio, mi viene naturale usare lo stesso approccio alla vita che inevitabilmente utilizzo anche nei miei lavori. Mi è inevitabile provare a smantellare il sistema spettacolare da cui queste espressioni dell’essere sono state rivestite negli ultimi decenni e forse secoli. Non mi faccio fottere dall’immagine, o almeno mi illudo di ciò, perché qualcosa sul sistema spettacolare che è alla base di questa società miserabile mi è chiara. Smantellando quel rivestimento, provo a valutare le esperienze sul cibo, dalle sensazioni che prescindono soprattutto dall’esperienza visiva standardizzata e imperante. Da qui riesco anche a immaginarne una nuova esperienza visiva o meglio una esperienza visiva classica, che sia stata e sia realmente matrice di bellezza e che prescinda dalle trappole spettacolari messe in atto dal sistema mediatico-culinario omologante e sloganistico, fintamente elitario (come il lusso low-cost di Dubai), che l’ha avuta vinta in questi decenni scellerati. Hai notato che la frase «anche l’occhio vuole la sua parte», tanto più in voga nei ‘90, negli ultimi anni si è andata a utilizzare sempre meno, forse perché l’occhio – nel frattempo – si è davvero preso tutto? La vista è entrata con prepotenza, e a causa della moltiplicazione delle immagini digitali, in tutte le sfaccettature dell’esperienza umana?

MZ: Nella Guida socio-gastronomica d’Italia (Postmedia Books, 2021) individui certi meccanismi del capitalismo riferiti al piano alimentare, agli accentramenti di ricchezza, all’uniformazione dell’offerta turistica e a molto altro. Secondo queste accezioni, che immagini mette in circolo il capitalismo per quanto riguarda il cibo e tutto quello che concerne la produzione di alimenti e le filiere di distribuzione?

FB: Vengono rinnovate in continuazione le immagini poste come assolutamente desiderabili agli occhi delle “macchine desideranti” che siamo noi. Dalle pennette alla vodka e ai cocktail di gamberi degli anni di yuppie e paninari passiamo senza soluzione di continuità agli acronimi dei DOP e DOCG di questi anni. All’avocado e al poke. Di volta in volta la macchina capitalistica e spettacolare ingloba quasi all’istante anche i sussulti più sanamente controculturali, così da renderli nuove armi di omologazione di massa con cui fare breccia sugli immaginari collettivi, attraverso marketing e media – così da asservire le popolazioni alle regole di profitto e capitale. 

MZ: In più riprese, nei nostri dialoghi e confronti sulle questioni dell’arte contemporanea, abbiamo constatato l’ingombrante presenza dell’omologazione. Nel processo culturale italiano che ha portato alla creazione di innumerevoli piatti tipici e tanti tipi di vini, cosa è accaduto a un certo punto, quando sono andate perdute caratteristiche culinarie territoriali (dei paesi, delle città, delle provincie, delle regioni) e i comportamenti peculiari, si sono sempre più uniformati alle tendenze dominanti?

FB: Il processo di omologazione e standardizzazione che a mio parere dal cibo si dirama in tutti gli altri aspetti della società, compreso e forse soprattutto nell’ambiente artistico e architettonico, è costante e durevole e credo sia parte della Storia dell’uomo. Le biodiversità naturali sono sempre e imprescindibilmente minacciate dalla messa a regime colturale e culturale dei territori. Qui nascono già i primi standard. Il tutto è figlio dell’uomo moderno, lo standard è figlio di questo. Pensa all’orologio meccanico e a come questo standard impone il concetto di tempo in maniera unitaria anche a enormi porzioni di territorio. Pensa ora all’orologio biologico, alla meridiana e a come questo invece utilizzando il rapporto di inclinazione dei raggi solari divenga differente, anche minimamente differente già solo se ci si sposta di pochi chilometri. Forse la – relativamente recente – diffusione dell’orologio meccanico fu un momento in cui il mondo subì dei processi di omologazione ancora più forti di quelli da noi vissuti con la rivoluzione digitale…

MZ: Come nasce l’idea portante del tuo libro? Cosa è andato perduto dei luoghi a conduzione familiare in cui gli aspetti di socialità e della cucina verace riuscivano a entrare nel cuore delle persone?

FB: Nasce frequentando questi luoghi in tutta Europa e in Albania o in Serbia, vivendo la mia vita insomma, e osservando, da queste zone franche, la società e lo sviluppo che continuava a montare lì fuori. La frenesia di quello sviluppo, osservata da una sorta di riserve indiane metropolitane, quali questi luoghi erano. E lo sono ancora, in alcuni casi. È andata quasi del tutto perduta quella idea di convivialitá. L’allegoria che meglio rappresenta questa perdita sta nella quasi totale scomparsa della tavola sociale. Mista. Fra sconosciuti.

MZ:  Quale è la tua visione di amore legata alla trattoria?

FB: È legata alla cura, alle attenzioni da dedicare a quell’umanità che ha deciso di ritrovarsi in questi luoghi. Questo va di pari passo con il concetto del punto di ritrovo, tipico del mondo provinciale, qualcosa che è stato distrutto dai modelli di stile di vita contemporanea sempre più atomizzata. Le piccole comunità di questi luoghi si reggono su due fattori principali: sono luoghi che hanno un nocciolo di clientela abituale, dove la cura e le attenzioni (che la conduzione famigliare riserva agli avventori in questione) non sono un concetto di cura esclusivamente mercificato, come è divenuto ormai quello relativo al concetto di “ospitalità italiana”.

MZ:      Ci parleresti delle risposte (presenti nella tua guida) che dalla necessità e dal bisogno hanno generato bellezza?

FB: Qui mi fa piacere citare un piccolo pezzo del libro: 

«L’utilizzo delle sacche dei cefalopodi e dei pesci in cucina è cosa nota, dalla pasta con la malandra (il fegato) del polpo – tipica della mia città ‒ al già citato nero di seppia alla bottarga. Tutte interiora di pesce o come mi viene spesso esclamato: “Oramai ti piace mangiare le ‘ndrame dei pesci” (a Bari le ‘ndrame sono le interiora bovine ed equine); anche questi scarti ittici – inizialmente riservati ai più poveri – sono divenuti oggi piatti tipici e prelibati, alla stregua della trippa alla romana. Un esempio lampante di quello che sto dicendo risiede nella pasta mista – ora già acquistabile direttamente in confezione e un tempo ‘formulabile’ esclusivamente attraverso il recupero degli avanzi. Ottima per la pasta e patate alla napoletana. O ancora: le blasonate escargot francesi: sono ed erano un piatto popolare della tradizione contadina, d’altronde le lumache si raccolgono da terra come i sassi sporchi di alghe e di mare con cui cucinare degli ottimi spaghetti al ‘sapore di pesce’, una delle versioni fra le varie. Ne ricordo altre due: la “pasta con le vongole fujute” narrata da Eduardo De Filippo e la “pasta con l’aragosta scappata” scoperta grazie alla mamma di Zaga. Sulla cultura di arrangiarsi, tutto il Sud, ma soprattutto Napoli, sono luoghi dove scoprire illimitate ‘grandi bellezze’ (seguendo questo paradigma): tutti i sughi ‘finti’ partenopei ne sono una conferma, difatti ‘le vongole fujute’ sono solo un esempio, si continua con il finto ragù o la finta genovese. L’elemento mancante in questi ‘finti’ è sempre quello più costoso: la carne o il pesce. L’ingegnosità dettata dalla povertà è commovente. Il pescatore che si conserva la sacca delle seppie e del polpo che ha dovuto vendere per incassare, e con questi scarti trattenuti poter cucinare qualcosa – in modo da poter almeno evocare quel sapore di mare – alla propria prole. E l’arte, la poesia, quella più alta e umana, si annida volentieri in queste storie, non c’è nulla da fare. Per fortuna. E rifugge da coloro che provano a riproporre quelle stesse trovate intuite nella povertà di mezzi, mettendole a regime economico: le economie rimangono; la poesia va via. Una efficace peculiarità, questa capacità dell’essenza dell’arte, che come fosse un’anguilla sfugge a chi ne vuol far capitale. Una sfaccettatura invisibile ai più, certo, ma non per questo inesistente.»

MZ: Come guardi e giudichi il piatto tipico o una trattoria? Come ti orienti per scegliere il ristorante, in un qualsiasi luogo, città o paesello, dove il caso o un tuo viaggio ti ha portato?

FB: Prima di tutto chiedo alla gente del luogo, che siano amici fidati sull’argomento (e sono davvero pochissimi) o a sconosciuti, che incontro e mi ispirano. Nel libro parlo anche di questo e di come sono venuto a conoscenza del Pippo Bar di Roma.

MZ:      Che intento politico è sotteso alla scrittura e alla pubblicazione della Guida socio-gastronomica d’Italia?

FB: Più che politico è fotografico, scatto delle istantanee di un certo tipo di vivere che sta andando via, barattato per una finta rivalsa sociale e di classe perpetuata per dimostrare qualcosa e che finirà per devitalizzarci tutti. Mi viene in mente il lavoro di Atget su Parigi…

MZ:  Come mai lo consideri un libro contro il linguaggio visivo?

FB: Franco Maresco dichiara di essere stufo perfino del porno, perché lo stesso avrebbe perso ormai la sua parte più interessante, ovvero il laido. Credo che pure un certo cibo abbia subìto un trattamento simile. Forse dovremmo abbandonare questa attenzione all’immagine. Con la maggiore diffusione popolare delle immagini è stata innescata anche l’omologazione, sia che si tratti di cibo, sia di architettura e perfino di arte. Il mio è un libro a favore di quelle risposte che hanno generato bellezza partendo dalla necessità e dal bisogno. La bellezza quasi sempre risiede nella dinamica che ha generato le cose e non nell’immagine delle cose stesse.

MZ: Quanto c’è di pornografico nell’attuale industria alimentare? Trovi relazioni o conseguenze nella catena pensata a tavolino, a partire dall’imposizione di innumerevoli programmi televisivi dedicati agli chef, alle gare di cucina e all’abbassamento del livello qualitativo della ristorazione?

FB: Premettendo che c’è anche del buon porno, o almeno è esistito, tutto quello che vedi di pornografico nel cibo riflette la pornografia di questa “Vita Agra” contemporanea, e viceversa. Tutte queste dinamiche di cui stiamo scrivendo servono ad affermare uno status quo o una rivalsa sociale. La gente, attraverso cibo o arte o architettura che sia, afferma la sua posizione sociale ed economica nel mondo, quindi la propria immagine nel mondo, il proprio posto. O si impara realmente a fottersene di queste dinamiche – su cui però si basa la società – oppure si troveranno sempre nuovi stilemi da fare divenire la nuova cosa più giusta da fare, da avere, da pensare. 

MZ:  Mi piacerebbe indurre una tua lettura iconologica in riferimento al rapporto tra fotografia e cibo, anche in relazione alle immagini dei piatti esposte all’esterno dei ristoranti, realizzate per invogliare i turisti a entrare e mangiare. Che cosa sta tra il cibo presente nel piatto reale e lo stesso cibo fotografato, ovvero tra promessa di qualità e di bontà affidata al visivo e l’effettivo sapore e odore della specialità cucinata in un determinato luogo deputato alla ristorazione?

FB: Su questo tema esistono anche innumerevoli smascheramenti fotografici di taluni autori che giocano proprio sulla comparazione fra segno e realtà, un po’ come Joseph Kosuth faceva sugli oggetti. L’immagine è sempre una menzogna anche quando è vera, o forse meglio, può essere vera ma solo nella sua prima apparizione o stampa che sia, una volta riprodotta; lasciando indietro il suo valore di unicità e particolarità e divenendo parte del meccanismo spettacolare, fordista e omologante, perde la sua anima e unicità. Lo stesso avviene nelle foto delle pietanze riproposte sui menù turistici. Difatti qualsiasi altro ristorante non turistico non si serve delle fotografie per descrivere le sue pietanze. Tutt’altro. Mostrare le fotografie dei piatti cucinati diviene segno visivo – ironicamente e paradossalmente – di pessima qualità. 

MZ:      Sarebbe interessante portarti dentro una serie di collegamenti e associazioni, ovvero entro il rapporto tra visivo, immaginazione di una specialità culinaria locale, l’apertura alla sinestesia (tra vedere un piatto, sentire l’odore e gli aromi, assaporare i buoni cibi ben cucinati, toccare i frutti della terra, etc.), gli spostamenti immaginali tra la prefigurazione di un pranzo e il ricordo dello stesso a distanza di tempo.

FB: Da una parte entriamo nel discorso del ricordo proustiano delle Madeleine e dall’altra sull’immaginazione basata sulle nostre esperienze e conoscenze. Sentire i colori, gli odori o i ricordi alla fine sono – di nuovo – tutte cose che hanno a che fare con il concetto di cura. Di lì parte tutto. 

MZ:      Effetto Pavlov. Quali opere (cinema, arte antica e contemporanea) ti fanno salivare per il desiderio di assaporarle? E quali invece vorresti mangiare continuamente? Quali ti spingono al digiuno mistico?

FB: Probabilmente mi sarebbe piaciuto vivere alcune sensazioni espresse in talune nature morte di De Pisis e di Bartolomeo Bimbi. Avrei amato poter frequentare uno di quei tavolini del “Re delle mezze porzioni”, descritto dai protagonisti del film di Scola C’eravamo tanto amati o nelle osterie mostrate Fellini in Roma. Tutta l’arte italiana di rilievo internazionale, dal quel cinema in poi, è noto essere partita dal provincialismo italiano. Ma non solo il Cinema. Penso anche a Viaggio in Italia. E oggi questa cosa sta riaccadendo di nuovo con il buon cinema nato in ambito documentario italiano, da Pietro Marcello a Michelangelo Frammartino e a tanti altri. Su questo cinema vengono ora organizzate serie di rassegne e presentazioni, dal Moma al Pompidou. Quali altri italiani hanno oggi queste attenzioni? Su qualcosa di più comunitario e poetico e non sulle solite cagate di Vezzoli e Cattelan, le quali hanno sinceramente portato anche a noia. Insomma – lasciamelo aggiungere – quando alcuni conoscenti in comune ‘vogliono fa gli americani’ o i nordeuropei, mi sembrano proprio dei coglionazzi di fantozziana memoria. Per quanto riguarda il digiuno, ricordo un documentario del 2006 chiamato in austriaco Il nostro pane quotidiano, realizzato con una freddezza descrittiva tipicamente nordica, e tutto sull’industria alimentare. Pesantissimo da digerire. Al digiuno mi porta a volte anche La grande abbuffata del maestro Marco Ferreri: morire mangiando troppo è un una precisa metafora di questa società, e di lì vien voglia di astenersi.

MZ: Come racconteresti il senso della tua ricerca e della tua guida, proprio nella coazione tra visivo ed esperienza gastronomica, a una persona ipovedente o cieca dalla nascita?

FB: Tralascerei completamente la critica al visivo, forse. O forse no. In un mio lavoro di installazione e pubblico, Non vedo niente di diverso (2011), descrivo proprio alcuni ciechi e ipovedenti costretti dai tempi moderni a trasformarsi in venditori di cartoline per turisti. Una società capace di questo e di inventarsi e produrre le piante di plastica. Questo siamo…

Quindi forse, loro soprattutto sono quelli che potrebbero avere un quadro più chiaro sulle malformazioni cerebrali della società, causate dallo strapotere del visivo. Comunque basterebbe forse parlare dell’amore, della convivialitá, del senso di comunità che via via viene perso a causa del capitalismo visivo generatosi e cavalcato anche a furor di popolo da tanti pessimi artisti. È comprensibile da chiunque il mio discorso perché talmente evidente. È accaduto che molti artisti hanno barattato la cultura delle proprie origini per sentirsi più internazionali. È accaduto perché qualcuno, attraverso qualche media o condizionamento, ci ha bombardato con innumerevoli false convinzioni. Di questo alla fine siamo in molti vittime e carnefici e tutti siamo immischiati nel discorso. L’immigrato che porta con sé le sue radici arricchisce anche il nuovo territorio, l’emigrato che ripudia le sue origini contribuirà ad omologare e ad appiattire il nuovo territorio.

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