Utopian Display | In conversazione con Marco Scotini

Che cosa si intende con approccio geopolitico? Che cosa significa “situare” una biennale o un’istituzione? C’è una institutional critique anche a livello curatoriale? Che cosa significa decostruire l’attività di un museo?
24 Luglio 2020
Bombay Mumbai 1992-2001 Curated by Geeta Kapur

A novembre è stato presentato Utopian Display. Geopolitiche curatoriali – a cura di Marco Scotini – primo volume della nuova collana editoriale NABA Insights pubblicata da Quodlibet. L’antologia, con un certo scetticismo tanto per gli effetti della globalizzazione che per le più recenti premesse della cosiddetta de-globalizzazione verso l’universalismo modernista, raccoglie diverse esperienze curatoriali maturate negli ultimi trent’anni in differenti contesti geopolitici: dall’Africa alla Cina, dall’India all’America Latina, dal Medio Oriente fino allo spazio post-sovietico. La pubblicazione si focalizza su possibilità e limiti della pratica curatoriale e dei modelli istituzionali in campo artistico a partire dal crollo del socialismo e racchiude i saggi di quindici autori di generazioni differenti, tra le voci più importanti e sperimentali della ricerca curatoriale contemporanea.

Per l’occasione Martina Matteucci ha incontrato Marco Scotini.

Martina Matteucci: Come nasce l’idea di questo libro? A cosa si riferisce il titolo?

Marco Scotini: La circostanza concreta per l’uscita di Utopian Display. Geopolitiche curatoriali nasce da una nuova iniziativa editoriale promossa da NABA e che vede il libro come il primo di una serie pubblicata da Quodlibet su varie discipline. L’occasione culturale più ampia è quella, invece, di una ricognizione sulle tematiche più urgenti della curatela a livello globale e che aveva trovato, sempre in NABA, il suo momento di emersione quasi venti anni fa, quando pochi in Italia sapevano cosa il termine significasse. Se affermo che NABA è stata la prima istituzione italiana a promuovere un corso di specializzazione riconosciuto e un vero e proprio dibattito sulla figura del curatore, non credo di sbagliare. Come insegnanti e visiting professors al biennio in curatorial studies sono passate decine e decine di curatori e curatrici internazionali e credo che anche questo fatto abbia contribuito al successo del corso. Ma il volume antologico di Quodlibet intende fare i conti con una delle problematiche più attuali dopo l’euforia della globalizzazione degli ultimi decenni. Che cosa si intende con approccio geopolitico?  Che cosa significa “situare” una biennale o un’istituzione? C’è una institutional critique anche a livello curatoriale? Che cosa significa decostruire l’attività di un museo? Sono solo alcune delle domande a cui il libro cerca di rispondere.

MM: Secondo alcuni la globalizzazione, lo sviluppo tecnologico e internet hanno portato ad una trasformazione del curatore, un modo nuovo di porsi nei confronti dell’arte e della cultura. David Balzer parla di “curazionismo” e si interroga sulla complessità di questa professione. Qual è il ruolo del curatore oggi?

MS: Il termine ironico “curationism” di Balzer arriva un po’ troppo tardi e, per essere sincero, preferisco un termine come “the exhibitionist” proposto da Jens Hoffmann per una sua rivista. Ma entrambe le versioni sono sorpassate dagli eventi e appartengono ad una vecchia immagine del curatore che è un po’ quella degli anni ’90 e che, anche se oggi è popolare, non è per questo meno superata. Se guardo alla prossima edizione di documenta vedo che il futuro va, per fortuna, in tutt’altra direzione. Ebbene, uno degli aspetti centrali in Geopolitiche curatoriali è proprio la critica radicale a questa versione del curatore che è nata con l’ideologia della globalizzazione, dell’espansione aproblematica delle biennali nel mondo e che vede il curatore più in aereo da un continente all’altro e nelle escalation delle top ten piuttosto che calato in contesti culturali e sociali concreti e radicati. L’effetto è stato quella spettacolarizzazione della figura del curatore euro-americano (ci hanno fatto anche il film The Square nel 2017!), funzionale ai media, alla riduzione dei musei a brand, al mercato finanziario, alla neocolonizzazione, ma non alla cultura intesa come emancipazione. Se credo, come è vero, che il curatore abbia oggi un grande ruolo è per le ragioni opposte a quelle che ho appena elencato.

MM: Con la nascita della figura moderna del curatore, parallelamente muta anche l’idea di museo che diventa meta di turismo massificato e di un nuovo pubblico numeroso ed eterogeneo. Per catturare il pubblico spesso i direttori e i curatori museali si comportano come veri e propri manager, impegnati a rendere il più possibile attraente e accattivante la propria proposta e architettura museale. L’apertura a un pubblico massificato può essere sinonimo di accessibilità culturale?

MS: Nel volume c’è una critica di Vasif Kortun molto esplicita in rapporto al cinismo delle istituzioni attuali e della dimensione manageriale dei direttori museali, dei curatori delle biennali e dei centri d’arte, degli editor di riviste, sempre più invischiati nella rete del mercato, dei collezionisti, nelle risorse dei pubblici massificati e nell’attrazione del turismo. Se si devono monetizzare e privilegiare alcuni asset, è certo che gli altri vengano liquidati. Mi riferisco ai tempi lunghi della ricerca, alla sperimentazione artistica, all’innovazione dei format espositivi, alle iniziative minori ma fondamentali per decostruire le narrative dominanti e gli immaginari spettacolari. Se non si vuole ridurre un centro d’arte al settore del tempo libero e dell’intrattenimento, se non si vuole ridurre una politica dell’attenzione a quella dell’attrazione, se non si vuole negare il futuro per attestarci in un corto presente, ecco che il libro offre quindici casi studio fondamentali e dislocati a differenti latitudini del mondo, in cui si propone un’alternativa forte e all’altezza dei tempi. Dall’India al Sud America, dalla Cina al Medio Oriente, dall’Europa ai paesi dell’Est, una serie di progetti e istituzioni si confrontano con la decolonizzazione del passato, con quella delle identità e dei generi, con i pubblici locali, con economie sostenibili e con un ampliamento del concetto di curatela. Ciò che Tina Sherwell o il gruppo curatoriale WHW definiscono come ‘i pubblici abbandonati’ della globalizzazione è molto importante rispetto al tema dell’accessibilità culturale. Ma anche l’idea di mostra “autoriflessiva” proposto da Anselm Franke, va in questa direzione. Il pubblico rimane escluso finché viene considerato un ricettore passivo, privo degli strumenti d’intervento. Se questo rapporto si riduce a quello tra fruitore e cliente e le biennali proposte sono il risultato di indagini di mercato è certo che non si può parlare di accessibilità culturale, nonostante la quantità di visitatori che vi possano affluire.

Shiva Gor, Thano-Bano_ Traces-Threads, 2018
Liu Ding Liu Ding’s Store installation view, 2010 Urs Merle Gallery-Beijing-China
Marjetica Potrč, Yinchuan, Rural House, 2018

MM: Gli imponenti musei pubblici costruiti sul modello del Louvre in città non occidentali come Pechino e Abu Dhabi – dove i diritti e le libertà di pensiero vengono spesso calpestati – non fanno niente per stimolare la riflessione e la creatività degli artisti locali e della popolazione. A tal proposito il premio Nobel Orhan Pamuk sostiene la necessità di costituire strumenti per investigare il senso di umanità e dargli voce: è importante non presentare la Storia come qualcosa di molto più importante dei singoli individui..

MS: Il nuovo prestigio istituzionale è ormai assimilato a quello delle imprese e spesso sono gli stessi brand o l’industria del lusso ad investirsi di istituzioni artistiche, fondazioni private, musei come imprese commerciali, verso cui gli artisti e i curatori assumo i classici ruoli da impiegati, come dice Pierre Bal-Blanc nel libro. L’espansione del marchio Guggenheim, Louvre, MoMA, Pompidou o Tate la dice lunga di come operano le istituzioni museali oggi. E se pensiamo al binomio brand e landmark architettonico che investe il museo contemporaneo capiamo come i valori si siano spostati dai contenuti agli aspetti superficiali ed estrinseci della produzione culturale.
Per cui se il MoMA o il New Museum organizzano una mostra di artisti islamici in risposta alle provocazioni di Trump, è chiaro come ciò non abbia alcun effetto sociale se non in termini di incassi e pubbliche relazioni. Eppure c’è ancora molto da fare in campo opposto.
Mi riferisco alle forme per disarmare il potere, recuperare storie rimosse e intrecciate, riscrivere capitoli fondamentali di storie comuni e locali come riserva potenziale di conoscenza e di azione. In questo senso le memorie collettive, gli archivi ribelli, i corpi oppressi e i libri interdetti, dovrebbero recuperare la centralità che forse nel nostro modello museale, universalista e occidentale, non hanno mai avuto.

MM: Il boom delle Biennali negli anni Novanta ha permesso da una parte di ridisegnare la mappa dell’arte contemporanea, ma dall’altra è responsabile del soffocamento delle realtà locali in favore di logiche capitaliste e speculative. È ancora possibile riconsiderare il mezzo – nato come format innovativo e aperto al cambiamento – per orientarsi verso nuovi obiettivi e scoprirne nuove potenzialità?

MS: Credo che l’esperienza del Covid 19, da cui non siamo ancora usciti, possa diventare un buon elemento per ripensare e trasformare quanto gli ultimi decenni di neoliberismo sfrenato e violento ci hanno imposto. Intendo riferirmi ai format espositivi canonizzati, all’idea di pubblico transnazionale e astratto, ad un modo diverso di concepire il rapporto tra inclusione ed esclusione istituzionale, tra digitale e reale, alla relazione tra occidente e resto del mondo. Certo l’arte e le istituzioni, in cui questa si comunica e si produce, possono giocare un grande ruolo nell’opposizione ai cliché culturali, agli stereotipi razzisti e sessisti che si sono ripresentati con tutta la forza del retaggio coloniale. Entrambe possono fare molto nel ripensare il rapporto tra minoranze e molteplicità, tra nature umane ed extraumane, tra ridistribuzione economica e desiderio collettivo e individuale.
Dobbiamo smettere di pensare che la cultura, al meglio delle sue possibilità, sia una sorta di dispositivo filantropico vocato all’ospitalità, alla cura e all’inclusività. Il mondo è uno spazio pieno di asperità e l’arte deve essere comprensione radicale, immaginazione di valori irriducibili, osmosi di saperi in trasformazione, contatto sociale e presa di posizione.
Il libro Utopian Display. Geopolitiche Curatoriali è uscito prima dello scoppio improvviso della pandemia e del fatidico distanziamento sociale. Nonostante tutto, credo che vi si possano trovare risposte cruciali a molti dei quesiti che, in questi tempi oscuri, ci si sono presentati, come una possibile uscita di sicurezza dal sistema precedente. Tanto abbiamo verificato che né la scienza, né la tecnologia ci salveranno.

Utopian Display
Geopolitiche curatoriali
A cura di Marco Scotini
NABA Insights
ISBN 9788822904072
2019, pp. 224
140×220 mm

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