TO MAKE SOMETHING OF MYSELF | Intervista alle protagoniste

Nei neonati spazi di DAS, a Milano, quattro artiste, “dirette” da Rossella Farinotti, danno vita a un affresco generazionale maturo, coeso, sorprendente. Che privilegia lo studio del paesaggio – inteso come geografia fisica ed esistenziale – a certe prevedibili questioni di genere
13 Luglio 2019
To Make Something Of Myself. Lucia Cristiani, Cleo Fariselli, Corinna Gosmaro, Silvia Mariotti. A cura di Rossella farinotti DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019

Testo di Daniele Licata —

Das, come il materiale colorato e malleabile che nell’infanzia ci illude di possedere le doti di mirabili scultori. Oppure come acronimo di Davide Allieri Studio: l’artista bergamasco, infatti, lo scorso giugno ha deciso di trasformare il luogo in cui abitualmente lavora in un artist-run space. DAS accoglierà progetti espositivi sperimentali e site-specific, e arricchirà una scena – quella di Milano Sud – i cui attori (dalla Fondazione Prada a ICA, da Reading Room a Ordet fino alla sede di Nero Editions) stanno contribuendo a tessere un dibattito sul contemporaneo più che mai fertile.

La prima mostra ufficiale di DAS si intitola To Make Something of Myself ed è una collettiva inauguarata lo scorso 27 giugno: il progetto, curato da Rossella Farinotti, coinvolge le pratiche di Lucia Cristiani, Cleo Fariselli, Silvia Mariotti e Corinna Gosmaro. Farinotti (curatrice indipendente ed Executive Director dell’Archivio Gio’ Pomodoro) ha imbastito un racconto dal rigore sorprendente, capace di far emergere le ricerche di quattro differenti artiste valicando i semplicismi delle questioni di genere. To Make Something, a sorpresa, è invece un Grand Tour, un’immersione nelle profondità della natura e del paesaggio, tematiche affrontate con freschezza ed eterogeneità da anime differenti e risonanti al tempo stesso. ATP ha chiacchierato con le protagoniste.

Daniele Licata: Cara Rossella, ho un preciso ricordo dell’inizio della nostra conoscenza, sai? Era il Novembre 2014: io coordinavo la mediazione culturale a Shit and Die, l’indimenticabile collettiva curata da Maurizio Cattelan, Myriam Ben Salah e Marta Papini incentrata su un vertiginoso, immaginifico, esilarante racconto della città di Torino. Il Corriere della Sera ci immortalò – siamo finiti sulla stampa nazionale, ti rendi conto?!? – mentre raccontavo a te e a una folta schiera di giornalisti una sezione interamente “al femminile” del percorso, un coro a più voci in cui le più grandi artiste della scena internazionale illustravano la loro visione del vissuto della donna nel contemporaneo, componendo un coro provocatorio, sessuale, polifonico, legato ai rapporti tra potere e piacere.
Trovo interessantissimi i punti di contatto che intercorrono tra questo aneddoto e To Make Something of Myself, mostra in cui hai scelto di unire e mettere in dialogo quattro artiste – tutte giovanissime – intente a raccontarsi senza cedere al tema (forse troppo prevedibile…?) del gender. Al contrario, hai optato per la strutturazione di un’articolata geografia espositiva e dell’anima, nella quale il paesaggio, attraverso molteplici declinazioni, riesce a comporre un fascinoso affresco al femminile. Ammirato da questa scelta curatoriale, avrei piacere ce ne parlassi.


Rossella Farinotti: Il titolo della mostra è già un’indicazione del fatto che questo progetto non tratti un genere predefinito e incasellato, e ovviamente lo hai subito intuito. To Make Something tratta una narrazione sul paesaggio – quello meramente geografico e ammirato dal finestrino di un’automobile, quello sognato la notte o ripreso da un’immagine, o ancora quello più canonicamente interiore – declinato sotto i diversi approcci e aspetti del lavoro delle quattro artiste. E, si, è la mostra di quattro artiste. Che poi sono, di fatto, anche donne. Ma ciò non importa nel sistema che raccontiamo, almeno nel nostro caso. Anche nel testo ufficiale, se ci fai caso, questo aspetto non emerge mai. Tutte le opere esposte (con l’eccezione di una, firmata Mariotti, realizzata per il Palazzo Ducale di Urbino lo scorso anno) sono realizzate appositamente per DAS e per il progetto, e non hanno genere: sono frammenti legati tra loro da linee in comune, da elaborazioni complesse.
Iniziare questa mini conversazione con il tuo incipit su Shit and Die – certo che ricordo quel giorno, siamo finiti su tutte le testate nazionali! – è una bella responsabilità: in quelle stanze erano esposte opere di Dorothy Iannone, della nostra amata Dasha Shiskin, Sarah Lucas, Tracey Emin … Insomma, dei nomi che fanno da contrappeso nella storia degli ultimi vent’anni almeno. Sia per il fatto che fossero donne, ma soprattutto perché narratrici di tematiche forti, dense e coraggiose. Lucia, Cleo, Corinna e Silvia sono coraggiose e sono brave. Rielaborano la realtà in maniera autonoma, rilevando dei punti a cui non avevo mai pensato. Anche per questo funziona.

Silvia Mariotti, Cielo vetrato con nuvole, gesso in polvere su carta abrasiva, 29,7 x 21 cm, 2019 – To Make Something Of Myself. DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019
To Make Something Of Myself. Silvia Mariotti Volume notturno (Blu nerastro) Polistirene dipinto, neon, ferro verniciato, dimensioni variabili 2018 – DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019

DL: visibile e invisibile, sonno e veglia, chiarore e oscurità. A te, Cleo, piace posizionarti negli interstizi del reale, nelle labili zone di confine, e interrogarti rispetto a ciò che queste “terre di mezzo” possono far nascere. Le tue opere, che interpellano svariati media, si concretizzano ricorrendo a materiali viscerali, gravidi di potenziale, che ricercano la forma ultima di quel segreto chiamato Reale. Sulla base di queste riflessioni a DAS hai esposto dei dipinti che indagano i contorni dell’acqua – The Shape of Water, direbbe Guillermo Del Toro: come ti rapporti verso questo fluido così ricorrente nella storia dell’arte, ma ancora capace di parlarci e farci riflettere?

Cleo Fariselli: Guardare l’acqua è come guardare se stessi allo specchio: ad uno sguardo superficiale è l’immagine più familiare del mondo, ma più ci si sofferma, più si sprofonda nel suo mutevole mistero, con il rischio di venirne fatalmente attratti, ingoiati, in una via di mezzo tra il mito di Narciso e il romanticismo di Caspar David Friedrich.
Dal livello fisico a quello simbolico e metaforico, il potenziale dell’acqua è immenso, e io ne sono sempre sentita affascinata e coinvolta a livelli coscienti e non. Sposata dall’immaginario mainstream contemporaneo come simbolo di benessere e salute, o metafora della fluidità dei sistemi antropici e delle nuove tecnologie, l’acqua così rappresentata appare epurata del suo potenziale misterioso e conturbante, cosa che ha generato in me la necessità di una risposta, di cui Corrente e Sipario fanno parte.

DL: Silvia, la tua ricerca colpisce per la connessione intima che riesci ad instaurare con il paesaggio naturale, che nei tuoi lavori emerge come fusione inestricabile di luci ed ombre, tanto geografici quanto assimilabili alle esperienze umane. In mostra irrompe un’opera scultorea nella quale un imprecisato profilo montuoso è lacerato dall’irruenza di un neon azzurro brillante: ce ne parli? Sono particolarmente colpito anche dai disegni che hai deciso di esporre: inediti, realizzati con cornici ad hoc, tratteggiati su quel supporto particolare che è la carta abrasiva.

Silvia Mariotti: La scultura fa parte della serie Volumi notturni, che nasce dall’esigenza di creare un prolungamento dell’immagine ritratta nelle mie fotografie cercando di trasformare l’atmosfera contenuta al loro interno in maniera tridimensionale, captandone l’essenza attraverso i colori. Sono proiezioni, forme astratte della natura che descrivono un paesaggio notturno, o frammenti dello stesso, evidenziando luci e ombre contenute nel substrato della notte o nell’interstizio crepuscolare. Le diverse cromie prendono quindi forma, per diventare vere e proprie sculture. L’utilizzo dei neon con vetri trasparenti permette di mostrare direttamente la luce fredda del gas argon, una luce quasi aliena, estremamente eterea ma con un forte legame con la natura e la terra. In questo modo traccio un disegno di luce che accompagna le sagome, creando un nuovo passaggio e un’ulteriore apertura all’interpretazione. La luce diventa segno e immagine, narrazione nel vuoto autentico della notte.
I Cieli vetrati sono invece piccoli ritagli di cielo che diventano tali una volta inseriti all’interno di un display. Materiali grezzi e di uso comune, necessari per la realizzazione delle opere in studio, subiscono un ribaltamento e da oggetto diventano immagine. La superficie ruvida della carta abrasiva accoglie il gesso in polvere, che steso a secco attraverso l’utilizzo di un pennello dipinge nuvole intrappolate nella rugosità della carta; in questo modo, il taglio laterale della cornice evidenzia l’inserimento della carta che con un unico gesto dà nuovo valore al materiale.

Cleo Fariselli,Sipario, olio su tavola, 90 x 120, 2019. To Make Something Of Myself. DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019
Cleo Fariselli, Corrente, olio su tavola, 90 x 60 cm, 2019 – Corrente, olio su tavola, 90 x 60 cm, 2019 To Make Something Of Myself. DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019

DL: Corinna, come sai studio e ammiro il tuo lavoro da svariati anni, e forse questa è finalmente la sede in cui riuscirò a comprenderlo nelle intime sfaccettature. Sono un grande fan del tuo lavoro su filtro di poliestere, materiale esteticamente inespressivo epperò capace di congiungere, proteggere, ammorbidire. Forse è davvero il supporto ideale per i tuoi interventi pittorici, la cui matrice astratta è avvolgente ma anche enigmatica: cosa puoi raccontarci della tua presenza a DAS?

Corinna Gosmaro: Il filtro di poliestere è necessario per i miei paesaggi, per le arie e i cieli, perché quello che accade pittoricamente sopra, dentro e in mezzo sfugge al controllo completo. Come avviene nella memoria e nella costituzione del pensiero della mente umana, nulla accade linearmente. Nelle maglie sintetiche tutto si impasta, si insinua e crea ulteriormente – come nella rete neurale. La luce filtra e restituisce i vuoti che restano.
A DAS si possono vedere Aria calda e Piccolo paesaggio: il primo è un filtro lungo cinque metri, appeso e ripiegato su se stesso, che può essere attraversato dal visitatore. Il secondo è un paesaggio, il più piccolo che abbia realizzato. Entrambi ambiscono ad essere quell’immagine densa e ricca di memoria che compare sotto le palpebre quando si richiama alla mente la parola “paesaggio”.

DL: Lucia, dal tuo progetto How far should I go to make something of myself (Wherever Yugo, I go) Rossella ha estrapolato il titolo dell’intera mostra. In un percorso scandito dal tema – romantico, travagliato, esistenziale – del rapporto con le geografie, il tuo lavoro è un punto di riferimento fondamentale, in quanto fa sì che ogni spunto abbia ideale punto d’approdo nella dimensione del viaggio. E questo viaggio l’hai compiuto davvero, in una traiettoria che, unendo Italia e Balcani, ha trasformato il parabrezza dell’automobile nell’obiettivo di una fotocamera, che mette a fuoco l’esperienza dell’essere umano. Mi piacerebbe ci parlassi del lavoro, ma soprattutto ci fornissi spunti di riflessione per rapportarci a un’epoca di nomadismi, migrazioni, percorsi impervi che siam costretti a percorrere.

Lucia Cristiani: Daniele, grazie per questa domanda così puntuale. “How far should I go to make somenthing of myself ?” è la frase incisa con l’acido fluoridrico sopra al parabrezza di una Zastava Yugo, automobile iconica nella Jugoslavia anni Ottanta. Questa frase fa riferimento al viaggio, al movimento fisico, all’allontanarsi dal proprio sistema di riferimento connotato per osservare, da altre angolazioni, la realtà. Tale movimento è un atto esistenziale di sedimentazione di esperienze, frammenti, incontri, stralci di tempi, persone e luoghi. È la scelta di fare esperienza di sé. Viaggiare per settimane, mesi, in quelle terre, significa passare ore ed ore nell’abitacolo di un’auto dove, al di là del parabrezza, si vede il paesaggio cambiare lentamente, trasformarsi per gradi. Muta il paesaggio e lentamente lo sguardo muta con lui. Quanto lontano devo andare per fare qualcosa di me? Queste parole le ho sempre sentite sottopelle. Mi sono accorta che anche le persone più vicine, con cui ho condiviso questi viaggi, oppure che ho incontrato lungo il percorso, percepiscono intensamente questa domanda – a volte è uno stimolo forte, a volte una paura, l’ansia di non farcela. Non essere sola in questo percorso ha fatto la differenza. Wherever Yugo, I go, come dicevi, nasce dai miei viaggi in macchina fra l’Italia e i Balcani, specialmente in Bosnia ed Erzegovina, terra che produce molta più storia di quanta ne sia possibile gestire e che non nasconde le sue grandi contraddizioni interne, molte di queste, comuni a tutto il nostro tempo. Per me, avvicinarmi a una cultura e soprattutto a persone che vivono una realtà differente dalla mia su molti aspetti, è stato fonte di cambiamento. Credo che la strutturale incompletezza della condizione umana e dei sistemi, spinga da sempre l’uomo a spostarsi dai propri angoli di mondo per ricercare nuove possibilità, altre forme di umanità.
In Eccessi di culture, Marco Aime scrive: “Tra un’idea di uguaglianza astratta e l’erezione di barriere culturali che si presumono insormontabili non c’è il nulla: c’è quella vasta striscia di terra di nessuno che, proprio perché è “di nessuno” consente il dialogo fra gli individui. Invece di esaltare le diversità o di condannarle – oppure di tentare, a fin di bene, di renderle tutte uguali – sarebbe forse meglio spostarsi tutti, più frequentemente, in questa terra di nessuno, accostandosi gli uni agli altri. Questo viaggio, però, come tutti i viaggi, implica una disposizione alla comprensione”.

Lucia Cristiani, Whereever Yugo, I go, stampa inkjet su carta poliuretana, montata su alluminio, 110 x cm, 2019. To Make Something Of Myself. DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019
Lucia Cristiani, Whereever Yugo, I go, parabrezza Yugo corroso da acido fluoridrico, 64 x 134 cn, 2019. To Make Something Of Myself. DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019

DL: ma soprattutto, e questa è la domanda più importante, che rivolgo a tutte: quello della cultura è un’ambiente in cui si può davvero essere amiche?

RF: Se non si potesse essere amiche in questo ambiente sarei obbligata a rivedere alcune frequentazioni, ahah! Per me si, si può essere amiche e amici. Io e te lo siamo, da quella mostra a Torino, seppure a distanza. Lo si è di fatto: se condividi ed assorbi e apprezzi il lavoro di un artista, ti affezioni e sei affascinato anche dalla persona. Questo vale per me: è difficile lavorare seriamente con un artista con cui non hai sintonia dal punto di vista umano. Forse è una debolezza, ma è così. To Make Something of Myself nasce da qualcosa di simile: una fotografia di loro quattro, insieme in una residenza. Ci conoscevamo tutte, chi da più tempo, chi da meno. E così abbiamo deciso di portarla avanti, l’amicizia.
CF: Quello dell’arte è un mondo ipocrita, snob, individualista e competitivo, i rapporti sinceri e disinteressati sono rari, e se non si rientra tra le fila di chi in queste dinamiche ci sguazza, le delusioni sono all’ordine del giorno. Se però si coltiva e preserva un approccio differente, col tempo si sviluppano degli anticorpi che ridimensionano le dinamiche nefaste, e quando ci si ritrova tra “simili” è possibile avere amicizie reali e sincere. Questa mostra rientra in uno di questi rari, preziosi casi.
SM: Certo che sì, se ciò che accomuna queste amiche è l’interesse per qualcosa di reale e non costruito: quando il percorso condiviso, insomma, porta ad uno sguardo responsabile e sincero nei confronti delle cose.
LC: Mi farebbe molta paura il contrario: l’amicizia ha un ruolo centrale nella mia vita e conseguentemente nella mia ricerca. Rapporti autentici e profondi possono nascere ovunque e l’ambito culturale non è per forza il più ostile ai rapporti umani. Come dicevo prima, condividere pensieri, vicinanze, lontananze, ed esperienze è la migliore chance che abbiamo per evolvere e di solito è anche un ottimo presupposto per diventare amici. Credo che in generale la possibilità di apertura all’altro sia un ottimo indice per valutare il valore e l’autenticità di un contesto, in primis quello della cultura.
CG: Assolutamente sì. Ma l’amicizia vera è comunque cosa rara: sempre, comunque.

TO MAKE SOMETHING OF MYSELF
Lucia Cristiani, Cleo Fariselli, Corinna Gosmaro, Silvia Mariotti
A cura di Rossella Farinotti
Fino al 15 Luglio 2019 | Su appuntamento
DAS / Via Privata Passo Pordoi 10 / 20139 Milano

Corinna Gosmaro, Aria Calda, pittura a spray su filtro di poliestere, 150 x 250 x 20 cm, 2019. To Make Something Of Myself. DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019
Corinna Gosmaro, Aria Calda, pittura a spray su filtro di poliestere, 150 x 250 x 20 cm, 2019. To Make Something Of Myself. DAS, Milano. Foto, Cosimo Filippni 2019
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