Spazi Igroscopici | Intervista con Lorenzo Madaro

"Nella sua porosità, nella spazialità, nella sua stessa grammatura, la carta sprigiona un’identità autosufficiente, che gli artisti di Spazi igroscopici individuano, adottandola nella dinamica stessa delle singole opere."
28 Novembre 2017

Abbiamo intervistato il curatore Lorenzo Madaro in occasione della mostra Spazi Igroscopici ospitata alla Galleria Bianconi di Milano fino al 22 dicembre. La collettiva indaga il medium carta secondo la prospettiva di alcuni artisti, storicizzati e non, il cui lavoro è connesso in particolar modo a ricerche sullo spazio nelle sue differenti declinazioni.
In mostra le opere di Francesco Arena, Umberto Bignardi, Pietro Consagra, Daniele D’Acquisto, Sol LeWitt, Ugo La Pietra, Fausto Melotti, Hidetoshi Nagasawa, David Reimondo, Aldo Spinelli, Natalino Tondo, David Tremlett.

ATP: L’impianto della mostra parte dall’analisi di come artisti di differenti generazioni hanno indagato lo spazio mediante il medium carta. Come suggerisce il titolo – Spazi Igroscopici – utilizzi la metafora dell’igroscopia. Mi racconti come è nata l’idea di questa mostra?

Lorenzo Madaro: Ci pensavo da un po’ a una mostra così, anche perché la vedo come una sintesi delle mie predilezioni, per via dell’indagine sul concetto di spazio e le sue differenti declinazioni – e sulle relazioni tra l’opera d’arte e lo spazio in cui agisce, magari trasformandolo –; e per l’aspetto propriamente progettuale, connesso al lavoro germinale degli artisti, a quelle fasi in cui l’opera spesso coincide con la sua parte costruttiva e progettuale e che talvolta rimane visibile soltanto a pochi iniziati frequentatori degli studi. Pertanto mi sono focalizzato sulla carta, un medium che ben assolve a questa doppia funzione di riflessione sullo spazio e la sua forma e di territorio di progettualità definita e concentrata. In tempi recenti è uscita una mia piccola pubblicazione – di sole immagini – in cui ho raccolto una selezione di circa quindici artisti italiani under 45 – tra cui Francesco Arena e Daniele D’Acquisto – che, lavorando con la scultura, si concentrano su differenti declinazioni di lavoro sullo spazio e la forma, non a caso l’ho intitolata Occupare lo spazio. Spazi igroscopici è una prosecuzione di questa mia traccia, augurandomi di poterla strutturare e indagare ancora nel prossimo futuro attraverso contributi testuali e mostre monografiche e non. E poi nella mostra c’è la mia predilezione per gli artisti un po’ obliati ma che, in particolare tra anni Sessanta e Settanta, hanno svolto un rigoroso lavoro in determinati ambiti della ricerca, per poi essere trascurati dal sistema dell’arte o mai regalmente integrati, e a tal proposito la mostra Spazi igroscopici include un nome come Natalino Tondo, di cui mi sono occupato molto negli ultimi anni e di cui ho in programma di curare un catalogo ragionato. Quindi la convivenza tra nomi storicizzati e giovani, assorbiti e sostenuti dal mondo degli studi oppure no, rientra in una mia pratica che intende connettere anzitutto il pensiero che lega le opere, senza badare a posizionamenti specifici dei singoli artisti. Poi in mostra ci sono artisti – penso a Tremlett e LeWitt in particolare – che su questo discorso dello spazio hanno tracciato riflessioni propriamente teoriche, relazionandosi anche con l’architettura, come emergerà da un talk con l’architetto museologo Luca Cipelletti che la Galleria Bianconi ospiterà nell’ambito della mostra il prossimo 12 dicembre.

Spazi Igroscopici - Galleria Bianconi - Ph Tiziano Doria - Installation view

Spazi Igroscopici – Galleria Bianconi – Ph Tiziano Doria – Installation view

ATP: L’utilizzo della carta da parte degli artisti è spesso associato alla fase di progettazione o studio di un’opera da realizzare. Resa da sempre ‘ancella’ della pittura e della scultura, il medium carta, nell’ultimo periodo sembra aver destato interesse sia da parte di curatori che collezionisti. Prova ne sia la nuova sezione di Artissima dedicata al disegno.
A tuo parere, come motivi questo interesse?

LM: Frequentando gli studi degli artisti storicizzati, penso a Hidetoshi Nagasawa, Nicola Carrino, Ninì Santoro, Guido Strazza, Kengiro Azuma, Alina Kalczyńska Scheiwiller, Achille Perilli e molti altri – penso anche ai miei recenti incontri con Ugo La Pietra, Umberto Bignardi e Aldo Spinelli –, mi sono sempre reso conto che nel passato, più o meno recente, la carta è stato un medium autosufficiente estremamente adottato, sia per i costi relativamente bassi del materiale, che per la relativa facilità con cui è stato possibile conservarla. In Italia abbiamo sempre avuto un atteggiamento un po’ snob verso un medium che, anche nella storia dell’arte del Novecento, ha rivelato risultati veramente sofisticati, basti pensare – per rimanere nel nostro Paese – ai disegni di Modigliani, Pascali e Ontani. Ed anche il presente offre in tal senso sviluppi notevoli. Probabilmente non ci siamo (non si sono) mai fidati della relativa fragilità di questo supporto, mentre oggi a livello economico è chiaro che un’opera su carta ha cifre più abbordabili di un’installazione o di una scultura. La storia e la stretta attualità rivelano che la carta è stato il campo d’azione di un lavoro progettuale e germinativo di molte ricerche, oltre ad essere un supporto autonomo, denso di complessità, stratificazioni e differenti utilizzi e associazioni. In mostra, per esempio, Nagasawa è presente con un grande lavoro concepito con strati di rame applicati su una serie di fogli di carta ruvida, rivelando che anche nella bidimensionalità apparente, rimane costante l’energia della scultura che si confronta dialetticamente con lo spazio, nello spazio.

ATP: Tornando alla mostra e scorrendo la lista degli artisti, è inevitabile che spicchi un’evidente eterogeneità nella scelta non solo degli stessi artisti, ma anche delle opere. Penso alle opere di Consagra e LeWitt, che sembrano (o sono) dei bozzetti, accanto a opere ‘finite’ come quella di Francesco Arena e Daniele D’Acquisto. Come hai conciliato questi differenti lavori?

LM: Ciò che mi interessava rivelare nei lavori degli artisti, che, come tu giustamente rilevi risultano – inevitabilmente – eterogenei, è un comune sentire, seppur in ambiti cronologici e in aree di operatività differenti, su questo discorso dello spazio, analizzato, percorso, evidenziato e ribadito non solo mediante tecniche e approcci differenti, dal disegno progettuale alla scultura, all’installazione, ma anche secondo attitudini mentali e processuali del tutto autonome. Perciò le piccole e preziose carte di Consagra sono un qualcosa di molto privato – basti pensare che su quella blu l’artista ha disegnato un uovo, appuntando un augurio, “Buona Pasqua” –, perché rivelano la costruzione stessa della dinamica formale della sua scultura. Lo stesso vale per i segni di Melotti. O per il lavoro installativo di David Reimondo, legato a un suo progetto ancor più immersivo dedicato a Le parole che non esistono, che tra l’altro mi ha visto anche coinvolto in prima persona come curatore da The Open Box; così come la presenza di Arena e D’Acquisto rivelano, da prospettive differenti, altre modalità di approccio a questo medium e alla sua relazione dialettica e meditata con lo spazio stesso in cui l’opera vive e viene collocato. Nel caso di D’Acquisto, per esempio, l’opera – che era inedita – è stata riposizionata tenendo esattamente conto dello spazio in cui oggi agisce, in stretto dialogo con delle carte molto sofisticate degli anni Settanta di Aldo Spinelli e tre opere di differenti datazioni di Ugo La Pietra, che invece svelano la sua attenzione per lo spazio antropologico, domestico e urbano. Perciò Spazi igroscopici vive di queste differenze, con convinzione. Da queste affiorano rimandi inaspettati, per esempio tra le geometrie di Tremlett e quelle di Natalino Tondo, oppure tra il segno leggero di Umberto Bignardi e quello di Fausto Melotti, in questa dialogica correlazione di opposti, tra personalità apparentemente lontane. Una mostra collettiva deve assolutamente vivere di queste contrapposizioni che, rafforzandosi, diventano punti di diramazione di un pensiero. Spero che tutto ciò emerga nella visita della mostra.

Sol Lewitt - Spazi Igroscopici - Galleria Bianconi - Ph Tiziano Doria - Installation view

Sol Lewitt – Spazi Igroscopici – Galleria Bianconi – Ph Tiziano Doria – Installation view

ATP: Un altro dei punti chiave della mostra è quello della relazione tra bi- e tri-dimensionalità intrinseca in alcune opere. In quali, in particolare, è più evidente questa tensione spaziale?

LM: Le opere di Nagasawa, Arena e D’Acquisto ribadiscono che la carta è fautrice di spazi – igroscopici, appunto – di tridimensionalità, tendendo a una tensione spaziale rigorosa, per certi versi eterea, in ogni caso sempre meditata, in cui il progetto, lo studio e anche determinate sfasature rientrano pienamente nella dinamica dell’opera. Pensiamo alle tracce di rame, e alle sezioni in cui lo stesso artista le ha rimosse, nella grande opera di Nagasawa. Hidetoshi concepisce l’opera come un terreno d’azione per scoprire meditate aree di spazialità definite, riposizionando concettualmente l’opera stessa in una estensione non più bidimensionale, proprio perché vive dell’alternarsi di brandelli materici e fasce di spazio, segni e rame relazionandosi decisamente con il concetto di fare scultura, che per il maestro giapponese è anzitutto una pratica di pensiero e relazione con lo spazio stesso, quindi con gli altri.

ATP: Nei tuoi ragionamenti nell’approfondito testo scritto per il catalogo della mostra, scrivi di recupero “dell’energia materica” della carta. Mi spieghi meglio cosa intendi con questo recupero? Come consideri la materialità della carta?

LM: Nella sua porosità, nella spazialità, nella sua stessa grammatura, la carta sprigiona un’identità autosufficiente, che gli artisti di Spazi igroscopici individuano, adottandola nella dinamica stessa delle singole opere. Pensiamo al bianco quasi cangiante delle opere di Spinelli, un bianco che è parte integrante di quel segno sintetico eppure studiato e rigoroso delle sue linee; o nel cubo interrotto di Sol LeWitt, in cui insieme al segno estremamente forte e leggero dell’inchiostro, il bianco della carta conforma l’opera stessa, ribadendo che l’artista sfruttava pienamente le potenzialità del medium, considerando fino in fondo le sue medesime caratteristiche. La carta poi evidenzia questa sua forza anche associata ad altri materiali o quando viene adottata nelle sue forme derivate, come le sezioni di cartone tagliate al laser, che nel caso di D’Acquisto si relazionano con altri materiali – una mazza da baseball e due elementi in legno recuperati nel suo studio – connettendosi allo spazio, includendo al proprio interno la sua stessa dimensione progettuale, in un certo senso disegnata.

ATP:Tra i dodici artisti presenti, uno ha colpito la mia attenzione. Si tratta di Umberto Bignardi con l’opera “Crisi della Crescita” (1994). Conosco poco l’artista e vorrei che mi contestualizzassi la sua opera presente in “Spazi Igroscopici”.

LM: Ho conosciuto il lavoro di Bignardi in anni recenti grazie a Renata Bianconi, che ci collabora con costanza. Nel 1966 Umberto ha esposto a Roma in una galleria che amo molto, L’Attico di Fabio Sargentini, straordinaria palestra d’avanguardia a cavallo tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’avvio del decennio successivo. Proprio in questi giorni, tra l’altro, la galleria di Fabio compie sessant’anni e penso sia importante ricordare il suo ottimo lavoro. Umberto Bignardi in quegli anni, dopo aver lavorato su un fronte segnico, vicino a Cy Twombly, come ha rivelato giustamente Maurizio Calvesi in un suo saggio del 1994 – in occasione di un’antologica sull’artista promossa da La Sapienza di Roma nel suo museo laboratorio –, si è orientato verso una sua personale visione legata alla Pop-Art, diversa da quanto in quel torno di anni sperimentavano Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli e Giosetta Fioroni. Successivamente ha tralasciato il sistema dell’arte, ricercando in maniera autonoma per oltre vent’anni, rinunciando temporaneamente alle mostre, alle gallerie e ai musei, fino, appunto, ai primi Novanta. L’opera in mostra è di quegli anni e rivela come la carta per Umberto sia stata – e lo è tutt’oggi – un terreno d’azione per sperimentare le sue narrazioni, per elaborare visivamente i blocchi delle sue installazioni multimediali, diventando pertanto spazio di studio preventivo per un intervento legato ad altri linguaggi. Sono stato di recente, grazie proprio a Renata Bianconi, nel suo studio di Milano, dove Umberto Bignardi mi ha ribadito l’importanza che per lui ha avuto il medium carta in questi cinquant’anni e oltre di ricerca sull’immaginario visivo, che oggi penso meriti una mostra antologica in un museo italiano, poiché è stato notevole il contributo che ha dato alla storia dell’arte italiana del secondo Novecento.

David Tremlett, F&RSketch(3), 2014, Pastello Su Carta, 40x122,5cm - Ph TIziano Doria

David Tremlett, F&RSketch(3), 2014, Pastello Su Carta, 40×122,5cm – Ph TIziano Doria

Ugo La Pietra - Spazi Igroscopici - Galleria Bianconi - Ph Tiziano Doria - Installation view

Ugo La Pietra – Spazi Igroscopici – Galleria Bianconi – Ph Tiziano Doria – Installation view

Spazi Igroscopici - Galleria Bianconi - Ph Tiziano Doria - Installation view

Spazi Igroscopici – Galleria Bianconi – Ph Tiziano Doria – Installation view

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