Segni per far fiorire vasi — Intervista con Elena El Asmar e Concetta Modica

La mostra, a cura di Ilaria Mariotti, è visitabile fino al 30 luglio negli spazi della Villa Pacchiani a Santa Croce Sull’Arno.
22 Giugno 2017

Le opere di Elena El Asmar e Concetta Modica si articolano in percorsi intrecciati attraverso la narrazione degli oggetti nel tempo e nello spazio, un racconto che affronta la mutazione degli stessi, il loro trasformarsi nel senso e nella funzione, trovando a volte terreno comune perché presente e passato si guardino. L’allestimento dei lavori indirizza l’osservatore verso il dialogo: dialogo di oggetti, dialogo tra due poetiche, dialogo tra diverse tecniche artistiche. Gli ambienti infatti sono costellati da arazzi, sculture, dipinti, disegni che le due artiste hanno realizzato proprio per questo percorso espositivo.
Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, è visitabile fino al 30 luglio negli spazi della Villa Pacchiani a Santa Croce Sull’Arno.

ATPDiary ha intervistato le due artiste.

Francesca D’Aria: Il titolo della mostra è ispirato ai versi di una grande poetessa del nostro tempo. Cosa accomuna le parole di Alda Merini alle vostre opere?

Concetta Modica: Questa mostra è nata da un dialogo a tre, tra me, Elena El Asmar e Ilaria Mariotti, curatrice della mostra che ha avuto un bel ruolo di mediazione e di lettura dei nostri lavori, cercando le assonanze e le dissonanze, leggendo nelle metamorfosi di ognuno il senso delle trasformazioni. Nel lavoro artistico c’è sempre una parte di trasformazione, che sia materiale o immateriale, c’è sempre un salto, un salto da qualche altra parte. Ilaria ha dipanato il filo rosso della mostra in un dialogo molto piacevole e costruttivo. Dalle opere in relazione è nato il titolo scelto da Ilaria, si è anche consolidata in me l’idea dell’importanza fondamentale del ruolo dei curatori e delle curatrici, tanto messo in discussione negli ultimi anni.

Elena El Asmar: Immagino Segni per far fiorire vasi come una sorta di invito che Ilaria Mariotti, curatrice del progetto e colei che ha titolato la mostra, ha fatto a tutti noi, affinché le opere presenti in mostra, costruite interamente attorno alla proliferazione di segni e sogni declinati secondo possibili variazioni, possano accompagnarci tutti in un terreno meno ideologico e più aperto alla capacità del pensiero di riformularsi continuamente attraverso le immagini come fossero condizioni da percorrere per abbracciare nuove possibilità di scelta di interpretazione del presente.
Ci vuole molto amore e fiducia e libertà ed una sana dose di follia per regalare tutta la propria esistenza all’esercitare segni nel mondo e credere che questi segni abbiano un peso e che siano capaci di trasformare il tempo e un luogo e la vita di chi guarda.
La forza dell’opera e dell’artista è proprio quella di non aver bisogno di operare all’interno di determinate condizioni ideali per accadere ed esistere. In questo senso l’artista è attivo rispetto al presente. L’opera si manifesta, e trae la sua forza profonda, rivelando l’aspetto più tragico e comune dell’esperienza umana che si fonda, si fonde e affonda in un inevitabile mondo retto da contraddizioni continue, tra integrità e compassione, tra forma ed esistenza, tra distruzione e composizione, tra desiderio di interezza e volontà di perdersi nello sguardo dell’altro. L’artista si fa carico di questo continuo movimento e traccia strade percorrendo paesaggi inesplorati, ridefinendo così i pesi e le misure del mondo e offrendo nuovi strumenti di calibrazione e conoscenza della realtà attraverso le immagini.
Accettando, come condizione privilegiata, l’instabilità di una sorta di tradimento continuo del presente rispetto alla storia, ogni segno è un piccolo gesto rivoluzionario che tende a minare il certo a favore dell’incerto per costruire nuove forme di libertà e di felicità a partire dalla distruzione dei piccoli luoghi comuni nascosti nelle parole e nelle forme del pensiero, che ogni giorno ci attanagliano. Non a caso la poesia di Alda Merini, alla quale si fa riferimento nel titolo, è tratta da “Poemi eroici”.

Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

FD: Il percorso espositivo narra la vita di oggetti quotidiani che però rimangono nel nostro immaginario e diventano nel tempo tasselli per la memoria oppure sono le cose che affollano i nostri luoghi e di cui spesso ci si dimentica che qui trovano un nuovo respiro, assumono nuova vita attraverso la pratica artistica. Come avete scelto gli elementi che raccontano il vissuto di una storia domestica umanamente condivisa?   

CM: Credo che quelli che chiami oggetti di storia domestica non sono veri e propri oggetti; scelgo pezzi di mondo che per me sono archetipi. La coperta di mia nonna non è una coperta, ma il labirinto più grande del mondo, e dopo essere diventata materia prima si disperde e non ne rimane più nulla, rientra nel mondo in altre forme. Per me l’arte non ha a che fare con oggetti; non mi interessa la memoria e neanche la storia; mi interessa solo il presente, scelgo di realizzare opere che mi mettono di fronte ad un tempo, una quantità di tempo nel quale sono disposta a guardarle, realizzarle, dedicarmi, farle diventare soggetti con cui dialogare prima io e poi gli altri.
L’arte mi consente di trattenere delle cose. Molte mie opere in mostra si intitolano Quel che resta ed è questo trattenere quello che resta di un sasso, di una foglia, di una vecchia scultura abbandonata, quel che resta adesso in questo momento che è già domani, sarà diverso in un nuovo presente.
Non riesco a individuare bene come sceglierò gli elementi di un’opera; accade in modo abbastanza imprevisto, meno capisco com’è avvenuto e più mi interessa. Non ho alcun interesse per il controllo sulle cose, sulle persone, su me stessa, sulla materia, sulla tecnica, non mi interessa ciò che è utile ma solo ciò che è necessario.

EEA: La memoria consola ciò che il ricordo tradisce. Allontanarsi da un’idea di storia come collezione di souvenir tentando di viverla invece nel pieno del suo essere ancora motore che alimenta e condiziona il presente è un esercizio del pensiero affinché possa riformulare i propri codici di accesso alla realtà che è sempre celata dietro una tendina che si deve scostare. Ho sempre fantasticato attorno al tempo immaginandolo come scandito da un pendolo che si muove tra oblio e ricordo. In questa oscillazione continua la memoria è essa stessa il movimento del pendolo, il presente al quale facciamo riferimento ogni qual volta prendiamo coscienza e conoscenza di noi. Non a caso Mnemosine è la madre di tutte le Muse.
Praticare arte, per chi guarda e per chi fa e per chi si guarda facendola, è mantenere una confidenza stretta con il sé in relazione al mondo che si offre come una percezione in simultanea di ciò che ci definisce ed abbiamo già scritto, o che qualcun’altro ha scritto vicino a noi, e desiderio di rinominare la propria storia proiettandosi in quel luogo ignoto che chiamiamo futuro.
Spesso sono le cose che trovano noi o meglio siamo noi che ci ritroviamo, anche a tratti sconosciuti, stabilendo relazioni empatiche con ciò che ci circonda.

Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

FD: Mi raccontate nello specifico le opere che sono in mostra?

CM: Le opere in mostra sono tante; abbiamo approfittato degli spazi di Villa Pacchiani, per cui è difficile parlare di tutte. Sono opere recenti, molte nate in occasione della mostra. In particolare per la prima volta è nato un lavoro che ha a che fare con la pittura; in genere lavoro con la scultura, un lavoro per me epico. Il titolo dell’opera è Quel che resta di un anno di pittura non mia; sono resti di colore che ho eseguito durante un anno di lavoro come assistente in uno studio di pittura. Un lavoro fatto per un compenso economico, ovviamente, che ha sottratto tempo al mio lavoro personale. Mi sembrava paradossale far diventare i resti di un lavoro quotidiano che mi ha garantito un guadagno a opera per una mostra in un museo, che è quella che reputo la mia attività più importante, ma che evidentemente non procura guadagni e questo lo trovo un tema ricorrente nel lavoro degli artisti. Se nel passato il concetto di epico era collegato a lotte, sfide, duelli e amori impossibili, oggi per me epico è la lotta quotidiana con il tempo che sfugge, con un tempo sempre meno mio, lo scontro con i desideri finti e veri, con la ricerca di quello che siamo, di quello che vogliamo veramente. La pittura di questi teli non mi rappresenta, non l’ho pensata io o immaginata, è del tutto un frutto casuale; mi sembra epica la sedimentazione quantitativa di gesti giornalieri, è come se si visualizzasse un tempo di lavoro che altrimenti mi sfuggirebbe.
Poi ci sono diverse sculture, alcune inedite, altre molto recenti. Un’opera è fatta di raspi d’uva che ho ricoperto d’oro zecchino, il titolo è sempre Quel che resta. Una delle sculture si intitola Hora ed è una sorta di preghiera al contrario. Ho trovato in uno studio abbandonato un vecchio gesso con ciò che resta di un corpo che prega con le mani giunte, mi è sembrata una preghiera, una preghiera di considerazione, di ricollocazione nel mondo, così è entrato in una mia scultura in maiolica, in un nuovo equilibrio. Un’altra opera è uno snowflower, un fiore della neve. Il primo che avevo realizzato anni fa, è stato ricamato con la lana della coperta di mia nonna da una ricamatrice finlandese e cresce nel sale grosso che serve per sciogliere la neve, crescendo nel paradosso.

EEA: Districare una matassa e risalire piano piano all’origine di un filo, immagino così il percorso che lo sguardo deve compiere camminando lungo le opere in mostra.
Ma l’origine del filo è ormai perduta, dunque il punto di arrivo che coincide col punto di partenza delle opere, è un luogo immaginario e personale che accade solo nell’esperienza diretta che compie il soggetto, ovvero l’osservatore.
Un arazzo è volere tessere relazioni d’amore con l’altro e la realtà che ci circonda laddove il mondo è un tessuto, un ordito di fili bianchi e neri inseparabili gli uni dagli altri. Non esiste il nero puro come non esiste il bianco puro ma ogni passaggio è il risultato di un intreccio e di una dipendenza ininterrotta. In questo senso è una modalità che rigetta l’idea di assoluto ma invita a perdersi in piccole contaminazioni continue. L’empatia è una conseguenza del pensiero che sceglie di approcciarsi alle cose della vita nei suoi aspetti relativi e mutabili secondo una rimodulazione costante del proprio punto di vista.
Il desiderio di ridefinirsi e trasformarsi attraverso la confidenza con l’altro e assecondare l’immaginazione che ci proietta al di fuori di noi, sovrapponendo i nostri tratti a quelli di un volto diverso, è uno degli aspetti che riguarda anche la pittura.
C’è un rapporto da indagare ed è quello tra sfondo e figura in primo piano ovvero tra interferenze di velature che disegnano, facendo affiorare, i dettati della composizione. Anche qui, se si vuole considerare il soggetto del quadro come una sorta di matrice a perdere, è la sottrazione dell’idea di tale matrice che conduce i movimenti della mano rispetto al supporto. Il supporto diviene il campo di gioco dove, attraverso il gesto della pittura e la costruzione di indizi, spettatore e autore si incontrano, si confondono, accettando di essere l’uno veicolo per l’altro.

FD: Le tecniche di cui vi servite per la realizzazione dei manufatti sono molteplici. In che modo decidete come esprimere i vostri lavori attraverso i diversi medium? Si tratta di esperimenti oppure le opere nascono da subito in quella direzione?

CM: Qualche giorno fa rileggevo una vecchia intervista in cui dicevo che il lavoro dell’artista è simile a quello dello scienziato nel suo laboratorio; mi sono venuti i brividi dallo sconcerto per una frase simile, non posso credere di averlo pensato. Oggi niente di più lontano da un’idea simile: mi dà noia sentire che l’artista indaga, fa ricerca, sperimenta, fa poesia, che è un sociologo, un antropologo, ecc. Non so, ci vorrebbero delle parole nuove specifiche per l’arte, mi piace molto la distinzione che ha fatto Agamben qualche giorno fa su quodlibet.it tra studio e ricerca. Ve lo riporto:
A differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente.
Quella dell’artista è più o meno così, una condizione permanente, un’essenza, una necessità.

 EEA: La tecnica è una catena della quale ho perso la fine e l’inizio, si plasma però in un continuo divenire calibrandosi attorno alla vita tutta di un artista, dalla scelta dei materiali che dipende dal supporto del quale in un momento, chissà perché, ci innamoriamo ed abbiamo voglia di conoscere, dalla salute della mano, dalla possibilità di impiegare energie, dalla disponibilità di realizzazione, dai costi, dal tempo, dalla mobilità, dalla ricerca, dalla provvidenza, da quello che si lascia trovare, da tutto il visto ed il vissuto, dai viaggi, dagli incontri, dagli scontri, dai limiti, dalla tristezza, dalla paura, dal pianto, da un sogno ad occhi aperti, dal sonno, dall’insonnia, dal dormire, dall’ozio, dalla fatica, dall’elenco della spesa, dalle parole incontrate su un libro, dalla contraddizione dell’amore, dall’impossibilità di dirsi per intero fino alla fine, dal perso e dal cancellato, dai limiti, dal superare un limite, dalle nuvole, dal caldo, dal freddo, dal sentirsi a tratti consolati dallo sguardo dell’altro, dalla musica, dal disordine, dalla pressione bassa, dall’orizzonte, dai lutti, dalla pioggia, dalla postura, dalla corrente elettrica, dagli alberi, dal paesaggio, dai tradimenti, dai rifiuti, dai bisogni, dalle illusioni, dalla liberazione delle illusioni, dall’ingiustizia, dagli errori, dall’accadere e vedersi accadere.
Io sono un continuo esperimento a me stessa e ogni volta mi meraviglio di come questo fallibile modo di condurmi e conoscermi mi porti in direzioni sempre nuove, inaspettate e necessarie.
All’opposto dell’idea l’io diventa letterario.

FD: La mostra è pensata attraverso il dialogo costante tra i vostri lavori e lo spazio. In cosa si avvicinano, o allontanano, le vostre ricerche e come avete collaborato al progetto?

CM: Il dialogo presuppone diversità o almeno elementi di diversità che lo rendono più interessante. Elena si dedica principalmente alla pittura che a me attira perché è lontana da me; io faccio scultura, quindi è un dialogo tra pratiche d’arte diverse. Abbiamo però molte cose in comune, il senso del tempo, lavorare su stratificazioni, su attese, senza scopi. Tutto è nato molto fluidamente, con stima e amicizia, quasi che le opere parlassero tra loro.

 EEA: Non so lucidamente in cosa si avvicinino o si allontanino le nostre ricerche, ma so che ci siamo avvicinate ed abbiamo pensato fosse bello fare una passeggiata insieme per trovare un luogo dove costruire un nostro piccolo giardino di cui prendersi cura.

Segni per far fiorire vasi, a cura Ilaria Mariotti
Un’iniziativa del Comune di Santa Croce sull’Arno con il sostegno di Cassa di Risparmio di San Miniato.
Centro Attività Espressive Villa Pacchiani, Piazza Pier Paolo Pasolini, Santa Croce sull’Arno
dal 10 giugno al 30 luglio 2017
dal venerdì alla domenica ore 17.00 – 20.00
Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

Elena El Asmar e Concetta Modica, Segni per far fiorire vasi, a cura di Ilaria Mariotti, veduta della mostra a Villa Pacchiani, Santa Croce Sull’Arno, foto Ela Bialkowska/OKNO Studio

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