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L’africanità nel linguaggio di Pascali | Fondazione Carriero, Milano

[nemus_slider id=”64211″] Non è mai stato in Africa ma era attratto dal mondo scultoreo africano, tanto da assorbirne stilemi e intensità formale. La Fondazione Carriero di Milano, dal 24 marzo al 24 giugno 2017, ospita la mostra Pascali Sciamano a cura di Francesco Stocchi: un...

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Non è mai stato in Africa ma era attratto dal mondo scultoreo africano, tanto da assorbirne stilemi e intensità formale. La Fondazione Carriero di Milano, dal 24 marzo al 24 giugno 2017, ospita la mostra Pascali Sciamano a cura di Francesco Stocchi: un percorso articolato e affascinante per scoprire in che modo e quanto in profondità l’immaginario del continente nero ha suggestionato e influenzato la sua ricerca. L’esposizione è l’occasione per scoprire un Pascali inedito che, come spiega nell’intervista che segue il curatore, “diventa ‘sciamano’ grazie alla sua capacità di fare da tramite con le forze della natura, ma anche con un mondo scomparso, o in attesa di dissolversi. Basti pensare alle finte sculture in cui l’artista raffigura animali del nostro immaginario fiabesco, come balene, o addirittura estinti, come dinosauri”.
Prodotta e organizzata dalla Fondazione per gli spazi di Casa Parravicini, in collaborazione con la Fondazione Pino Pascali, la mostra presenta opere prodotte tra il 1966 e il 1968: un breve arco di tempo in cui hanno visto la luce una serie di lavori debitori della cultura africana e dei suoi esiti formali, dall’essenzialità della natura rappresentata, alla simbologia delle maschere fino alla costruzione alogica del pensiero.
Pensato per ambienti, studiati per restituire una particolare atmosfera, come spiega Stocchi, “abbiamo scelto di esporre i manufatti africani in sale dedicate e senza nessun tipo di catalogazione storica o scientifica. La volontà è quella di immergere lo spettatore in una atmosfera densa e, contestualmente, suggerire il rapporto tra il singolo oggetto e il proprio contesto.”

Segue l’intervista con il curatore —

ATP: La mostra che curi alla Fondazione Carriero ha un taglio inedito: presentare un periodo particolare della carriera di Pino Pascali, quella degli anni tra il 1966 e il 1968. In questo lasso di tempo è rintracciabile il legame dell’artista con la cultura africana. Ci sono delle testimonianze che comprovano un suo effettivo studio dell’arte di questo continente o le sue sono per lo più suggestioni per ciò che è esotico e ‘altro’?

Francesco Stocchi: La mostra nasce con un’idea precisa: presentare un’indagine sulla produzione scultorea di Pascali quindi dal 1966 fino al 1968, anno della sua morte. Cosi come nelle precedenti mostre, abbiamo adottato un punto di vista specifico per offrire una lettura dell’opera attraverso il confronto: in questo caso, la “africanità” nel linguaggio pascaliano. Pascali non ha mai viaggiato in Africa durante la propria vita, ma si e’ interessato alla matrice “altra” del suo pensiero dalla quale deriva un senso diverso della rappresentazione, della sintesi formale. Mi piace qui ricordare la conversazione dell’artista con Carla Lonzi, avvenuta nel 1967 e pubblicata sulla rivista Marcatrè. Nel corso di questa intervista, Pascali descrive la propria profonda curiosità verso il mondo scultoreo africano, che includeva anche gli oggetti di artigianato di uso quotidiano: l’artista parla dell’intensità e della forza creativa che emergono dagli oggetti nati dal bisogno. In netto contrasto con gli oggetti d’uso della civiltà occidentale, fabbricati ad hoc per rispondere a un determinato gusto, Pascali identifica l’essenza della forza creatrice nel manufatto, prodotto a mano per esigenza concreta; l’inventiva rispetto a ciò che è necessario può dare vita a una nuova civiltà a partire dalla materia grezza.

ATP: E’ molto affascinante la figura dello sciamano, in relazione al ruolo che questo ha con le energie animiste e la particolare empatia con la natura. Ci sono delle opere che, più di altre, esplicitano un Pino Pascali nelle vesti di sciamano?

FS: Nell’opera di Pascali la commistione mondo naturale/magico è esplicitata non solo attraverso la scelti di soggetti, come “Bachi da Setola”, “Pelle Conciata”, o i profili e frammenti di animali, ma anche con l’utilizzo di materiali di origine organica e sintetica quali il legno, la lana di ferro, le setole, etc. Pascali diventa “sciamano” grazie alla sua capacità di fare da tramite con le forze della natura, ma anche con un mondo scomparso, o in attesa di dissolversi. Basti pensare alle finte sculture in cui l’artista raffigura animali del nostro immaginario fiabesco, come balene, o addirittura estinti, come dinosauri. I bachi da setola, invece, pur creati a partire da un materiale sintetico nuovo, sono vissuti da Pascali come fortemente “organici”: vi sono bellissime testimonianze fotografiche dell’artista intento a “liberarli” in un prato, per restituirli al loro ambiente naturale.

Pino Pascali SERPENTE  cm 310 x 9 x 15 h  1966  collezione privata, ph Sario Manicone
Pino Pascali SERPENTE cm 310 x 9 x 15 h 1966 collezione privata, ph Sario Manicone

ATP: In quegli anni molti artisti sono stati influenzati da un libro di fondamentale importanza scritto da LéviStauss nel 1964: il celeberrimo saggio “Il pensiero selvaggio”. Ci sono delle ragioni per credere che anche Pino Pascali sia stato suggestionato dal pensiero dell’antropologo francese?

FS: Nel corso di preparazione della mostra, ho incontrato, intervistato, forse anche assillato, chi Pascali l’ha conosciuto e passato del tempo insieme. Vittorio Rubio ha lasciato una bellissima testimonianza, il giorno in cui gli regalò una copia de Il Pensiero selvaggio. Analogamente, Toni Maraini racconta della visita con Pascali al Musee de l’Homme di Parigi. Sono state delle belle sorprese.

ATP: Mi introduci la serie di opere che l’artista chiamava “finte sculture”? Che relazione hanno con la fascinazione per la civiltà africana?

FS: Il ciclo delle “finte sculture” si può dividere in due grandi gruppi: gli animali esotici (come le dinosauri, balene e rettili), e gli elementi della natura (il mare, i bambù o le scogliere). A un primo sguardo l’influenza dell’arte tribale è evidente nelle soluzioni formali, in cui poche linee essenziali bastano a tracciare un profilo fortemente identificativo, come per i manufatti, o le maschere rituali africane. Nella loro stessa definizione di “finte” sculture rimandano poi a un sistema culturale fatto di simbologie, di ricerca di un significato “altro”. Pascali crea strutture mastodontiche ma leggerissime. I suoi lavori giocano con la nozione di scultura, imitano i materiali: sono bianche come il marmo, ma costruite utilizzando tela tesa sul legno, elementi propri alla pittura.

ATP: La mostra PASCALI SCIAMANO, non vuole restituire un’indagine sull’estetica e la storia dalla produzione artistica e artigianale africana, bensì suggerire il “clima” che ha condizionato la visione di Pascali. Mi racconti brevemente come avete pensato di restituire questa non facile atmosfera?

FS: L’allestimento della mostra gioca con l’architettura di Casa Parravicini, sede della Fondazione Carriero, innanzitutto evitando il confronto diretto tra opere africane e il lavori di Pascali. A ogni sala viene restituita una specifica dimensione. La peculiarità degli spazi della Fondazione, che nasce in quella che era un’abitazione privata, permette un percorso espositivo unico, fatto di “ambienti”, sale mai uguali fra loro per dimensioni e architettura.
Per restituire il clima e le suggestioni che hanno guidato Pascali abbiamo scelto di esporre i manufatti africani in sale dedicate e senza nessun tipo di catalogazione storica o scientifica. La volontà è quella di immergere lo spettatore in una atmosfera densa e, contestualmente, suggerire il rapporto tra il singolo oggetto e il proprio contesto.

Pino Pascali, Cinque bachi da setola e un bozzolo, 1968. Pipe cleaner of acrylic coarse hair on metallic support. Private collection. Photo: Agostino Osio.
Pino Pascali, Cinque bachi da setola e un bozzolo, 1968. Pipe cleaner of acrylic coarse hair on metallic support. Private collection. Photo: Agostino Osio.

 ATP: La mostra è stata suddivisa nei tre piani della Fondazione, seguendo i tre anni della produzione scultorea dell’artista. Perché questa scelta?

FS: La scelta è nata dalla volontà di dare al visitatore una chiara panoramica sugli ultimi tre anni di produzione di Pascali, tre anni estremamente caratterizzati e chiaramente distinguibili l’uno dall’altro. Il percorso segue dunque uno sviluppo cronologico che lo accompagna lungo l’evoluzione stessa della ricerca dell’artista. Al piano terra la Fondazione Carriero ospita le finte sculture del 1966; Il primo piano è dedicato al 1967, con opere quali Cesta e Liane; l’ultimo piano è invece dedicato ai grandi bachi da setola del 1968 e un opera ricostruita per l’occasione.

ATP: Per l’allestimento avete seguito la poetica stessa di Pascali: mettere le opere in relazioni le une con le altre, per evidenziarne le strette relazioni. Per seguire questo criterio, che documentazione avete seguito? Sono evidenti, per i visitatori, i nessi e le trame narrative che vigono tra le opere? 

FS: L’allestimento segue la grammatica espositiva applicata da Pascali alle sue mostre. Il visitatore viene immediatamente calato in una precisa dimensione emotiva dell’arte di Pino Pascali. Le opere creano un doppio dialogo, evidente e necessario, con lo spazio: i suoi lavori di grande dimensione quasi invadono gli ambienti, se ne appropriano con forza e vitalità a creare una narrazione in cui nessun lavoro può essere considerato a sé stante e il contesto diventa prevalente rispetto ai confini fisici dell’opera stessa.
A guidare la ricostruzione delle logiche alla base dei suoi allestimenti, innanzitutto l’analisi di diverse documentazioni fotografiche prodotte all’epoca della sua attività espositiva, accompagnata dalle preziose testimonianze delle persone che con Pino Pascali hanno avuto un rapporto diretto, di lavoro e amicizia, tra cui Sargentini ovviamente, ma anche Mattiacci, Trini, etc.

Pino Pascali vestito di rafia fotografato nel suo studio, 1968.  Foto Andrea Taverna.  Courtesy Fabio Sargentini - Archivio L’Attico
Pino Pascali vestito di rafia fotografato nel suo studio, 1968. Foto Andrea Taverna. Courtesy Fabio Sargentini – Archivio L’Attico
Pino Pascali “intrappolato”, 1968.  Foto Andrea Taverna.  Courtesy Fabio Sargentini – Archivio L’Attico
Pino Pascali “intrappolato”, 1968. Foto Andrea Taverna. Courtesy Fabio Sargentini – Archivio L’Attico