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New Photography | Filippo Minelli

L’undicesimo appuntamento dedicato alla nuova scena fotografica dà voce a Filippo Minelli (Brescia, 1983), che attualmente vive e lavora a Lisbona. Mauro Zanchi, Sara Benaglia: In What Things Are Not (2016) sono interessanti la percezione dello spazio e il tentativo di dare...

Filippo Minelli, Filling the space with void, 2014. Courtesy Gyeonggi Creation Center, Corea del Sud

L’undicesimo appuntamento dedicato alla nuova scena fotografica dà voce a Filippo Minelli (Brescia, 1983), che attualmente vive e lavora a Lisbona.

Mauro Zanchi, Sara Benaglia: In What Things Are Not (2016) sono interessanti la percezione dello spazio e il tentativo di dare una nuova lettura al paesaggio. Hai sovrapposto il paesaggio digitale a quello reale/fisico. Hai coperto facciate reali con gigantografie di altre facciate di case. Ci potresti parlare del tuo concetto di estetica del mutamento? 

Filippo Minelli: Le città devono essere luoghi di cambiamento, dovrebbero crearlo e dovrebbero essere anche i luoghi dove esso si verifica, ma fra trend estetici facilitati da algoritmi, utilizzo di immagini pubblicitarie stereotipo e renderizzazione sembra che il cambiamento e la sua percezione siano scappati di mano alla politica. Quale è la funzione dello spazio pubblico? Solo decorativa? Propagandistica? Ho cercato di sintetizzare questo contrasto in quella serie iniziata al National Center of Contemporary Arts di Pietroburgo e a cui lavoro ancora, in cui mutuo le estetiche real-estate e pubblicitaria – le uniche che ormai rendono visibile il cambiamento, anche se in maniera goffa e di dubbio gusto – in installazioni e documentazione fotografica.
Negli ultimi anni la mia attenzione è caduta molto spesso su quegli elementi dello spazio pubblico, dai quali si evince una sorta di stress post urbanistico: cieli e tramonti epici stampati sulle vetrine di negozi chiusi, rappresentazioni rurali nelle rotatorie delle periferie, richiami al passato nelle architetture dello sprawl urbano. La globalizzazione, come sostenuto dal geografo Francesc Muñoz, ha banalizzato il paesaggio contemporaneo, facendo sparire le tracce di identità locale. Lui parla molto dei centri urbani, delle stesse grandi vie commerciali, con gli stessi negozi che di fatto si incontrano anche in qualsiasi aeroporto, dei materiali usati. A me interessano, invece, i nuovi luoghi dell’esistenza, dove il mutamento non è stato solo estetico: quel fenomeno sviluppato negli ultimi 30-40 anni, dove la banalizzazione urbana è diventata un modello da applicare.

MZ / SB: Come può influire una nuova e più evoluta percezione dello spazio sull’identità dei luoghi e delle persone?

FM: La relazione fra paesaggio e persone è sempre stata la cosa che più mi intriga. Per vie traverse sono spesso tornato a quegli argomenti, anche se iniziando a lavorare su progetti differenti, e una cosa che ho spesso riscontrato in molte nazioni è che la perdita di identità portata dalla globalizzazione è una causa della goffa rinascita dei movimenti identitari e nazionalisti. Il paesaggio è come uno specchio, in cui possiamo vedere i tratti distintivi della società che lo popola, ma è anche l’ambiente che viviamo e che come tale, una volta formato, influenza poi ogni nostro comportamento attraverso la percezione dello spazio, dell’estetica, del ritmo. Al di fuori dei centri storici, fra periferie e città diffuse si passa in luoghi ubiqui: c’è poca differenza fra la suburbia della Polonia, della Francia, quella degli Stati Uniti o dell’Australia, il nord Italia, i centri commerciali della Russia o della Korea o le nuove urbanizzazioni cinesi e del Sud Est asiatico. Il mondo dei decenni fine anni 80-2020 si assomiglia tutto e in questo contesto è ovvio che perdiamo la percezione di chi siamo. E se si vuole evitare il ritorno al passato – culturalmente e politicamente – credo sia proprio lì che bisogna agire.

Filippo Minelli, Silence:Shapes, 2009-2020. Courtesy Ruttkowski68 Gallery, Köln/ Paris
Filippo Minelli, Paysage, 2004-2020. Courtesy UNA, Piacenza
Filippo Minelli, Paysage, 2004-2020. Courtesy UNA, Piacenza

MZ / SB: In Contradictions (2007) è interessante  il contrasto tra le parole e il contesto.  Nel deserto compare la scritta “Non Sense”, realizzata come una palizzata che protegge i giardini privati delle villette occidentali. Attraverso un’azione performativa hai scritto “Democracy” sulla fiancata di una nave nella baia di Nouadhibou.  In cosa consiste il potere contenuto nei tuoi cortocircuiti?

FM: I cortocircuiti sono l’unica cosa di valore rimasta in un mondo in cui ha stravinto la tecnica. Oggi in università, invece di sfornare disoccupati malamente formati per professioni che di fatto non servono più, dovrebbero insegnare il valore degli errori e la virtù del sabotaggio.

MZ / SB: Con Silence/Shapes (progetto iniziato nel 2009) – dove le nuvole di colore sono create da fumogeni accesi in spazi naturali – espandi ulteriormente la ricerca anche attraverso l’ibridazione con altri media. che rapporto si viene a creare a livello concettuale tra fotografia, scultura effimera (nuvole di colore) e atto performativo?

MZ: Molti dei miei lavori in realtà sono creati con un approccio simile, al limite fra il performativo e l’installazione. In quel progetto specifico la relazione fra i tre elementi è più interessante, perché completamente fuori dal mio controllo: sono temperatura, vento, umidità e pressione atmosferica a decidere il risultato, e la fotografia è il semplice mezzo documentativo di un gesto che ha un significato anche politico. Uso il fumo per visualizzare la forma fisica del silenzio nello spazio, ed è disarmante come l’ambiente e i suoi elementi aggiungono un significato attraverso la modellazione. A livello estetico anche in questi lavori si crea un cortocircuito, come quello accennato prima, e sembra tutto sbagliato: paesaggi romantici in un momento storico legato ad altre estetiche, un elemento violento che nulla ha a che fare con quel contesto, che assume la forma che l’ambiente gli impone, e che vorrebbe visualizzare una cosa, che di fatto forma non ha, ma esiste. Ha senso tutto ciò? Forse è proprio l’estetica che aiuta a trovarlo, ma di fatto sia il processo sia il risultato mi divertono. Penso sia anche per questo che non mi sono mai annoiato in 10 anni di ricerca, qua e là per il mondo: è una fortuna aver trovato questo piacere nella scoperta, nell’osservazione e nell’attesa.

MZ / SB: Che tipo di cultura cela il culto delle bandiere?

FM: Le bandiere sono il simbolo di identità per eccellenza, definiscono confini e popolazioni, diventando un simbolo con cui teoricamente le persone dovrebbero identificarsi, e quindi distinguersi dagli altri. È per questo che le bandiere che sto stampando da qualche anno invece riportano fotografie di luoghi comuni, banalizzati, ubiqui. È la nazione globalizzata di cui parlavamo prima, estesa a livello geografico e mentale, tanto che scavalca i confini tradizionali e le basi culturali.
In Across the Border, che ho formalizzato in parte anche per Manifesa12, ho chiesto invece a performer in nazioni diverse di creare bandiere che avessero la funzione diametralmente opposta a quella istituzionale, ovvero che funzionassero da collegamento fra luoghi geografici, invece di definirli come spazi nazionali. Le bandiere sono simboli, e come tali di essi possiamo fare ciò che ci pare.

MZ / SB: Marx ha utilizzato la metafora della camera oscura per descrivere che cosa è l’ideologia. Quanto una fotografia digitale può dirsi autonoma dalla tecnologia che la produce?

FM: Credo ci sia una grande differenza fra fotografia analogica e digitale, e sicuramente la seconda non può dirsi autonoma dalla tecnologia che la produce. Ancor meno può dirsi autonoma dal periodo storico in cui si inserisce, il che è un bene perché deve confrontarsi con altri metodi di creazione e manipolazione delle immagini: i fotografi stretti nei loro limiti tecnicistici si sentono così confortevoli da rischiare di sfociare nell’autoreferenzialità, che forse è più un dramma contemporaneo che di metà ‘800. Quel che è certo è che la fotografia digitale rispetto a quella tradizionale porta con sé molta più velocità e facilità di manipolazione, che di per sé sono caratteristiche che descrivono perfettamente questo periodo storico; sono decenni che i politici da quattro soldi si definiscono post-ideologici, quando di fatto hanno accettato senza alcuna riserva l’ideologia del mercato.

Filippo Minelli, Across the Border, 2008-2020. Courtesy Manifesta Foundation, Manifesta12 Palermo
Filippo Minelli, Atlante dei Classici Padani, 2016. Krisis Publishing
Filippo Minelli, Postconflicto, 2018. Scan 3D e modellazione, courtesy Ambasciata Italiana a Bogotá e Feria Barcú, Colombia

MZ / SB: Suggestionato dalle manifestazioni politiche, hai individuato aspetti interessanti riguardo all’estetica della politica e della protesta. In quei momenti hai colto che attraverso i fumogeni “le scene scompaiono e il paesaggio pare annullarsi”. Potresti approfondire questo aspetto?

FM: Partecipando o vedendo in video manifestazioni in cui sono scoppiati scontri ho iniziato a interessarmi a quel momento in cui il fumo (dei fumogeni o dei lacrimogeni) riempie la scena, che spesso viene raccontato come confuso, ma che di fatto spesso è incredibilmente tranquillo, quasi sublime. Le persone soffocate non riescono più a urlare, i suoni sono attutiti come quando c’è la nebbia, i gesti visibili si riducono, il paesaggio appare e scompare a tempi non alterni, come nei ricordi; suoni, immagini e paesaggio scompaiono. È da lì che ho avuto la suggestione di utilizzare il fumo come strumento per visualizzare la forma del silenzio nel paesaggio, che si manifesta e riempie il vuoto in forma più o meno invadente. La mancanza di riferimenti, l’annullamento del tempo, la presenza e l’assenza di un elemento intangibile sono aspetti affascinanti nel momento in cui riescono a creare spaesamento, perché è una sensazione profondamente intima, che consente di relazionarla a molti momenti del vissuto personale.

MZ / SB: Come immagini la zona grigia tra realtà e rappresentazione?

FM: È il luogo dove la magia succede, dove tutto è possibile, e dove l’azione e la responsabilità sono le uniche cosa che contano. La zona grigia fra realtà e rappresentazione è dove varie narrative possono esistere e, come tale, è popolata da creatori di immaginari, siano essi poeti, filosofi o manipolatori di bassa lega. Le zone grigie, anche geograficamente, sono l’unico luogo dove ancora esiste la vita. Tutto il resto è già formato: sono i luoghi del consenso.
I luoghi del consenso sono diventati un modello che permea ogni aspetto del contemporaneo e il fatto che siano la norma anche nel settore della cultura mi ricorda una frase molto attuale di Martin Heidegger, che ha ripreso nelle sue ultime pubblicazioni il filosofo e amico Santiago Zabala: l’unica emergenza è la mancanza di emergenza.

MZ / SB: Come la tecnologia di produzione di informazione digitale manipola la percezione?

FM: Credo che digitale o altro non faccia alcuna differenza, la produzione di informazioni porta con sé una visione – o quantomeno una narrativa – e come tale manipola la percezione, e quindi i comportamenti da essa derivati. È una cosa positiva finché avviene per fini innocui o costruttivi, ma in questo periodo storico stiamo conoscendo soprattutto il lato più oscuro della tecnologia applicata alla società. Per opposto, un lato molto interessante è anche come la percezione è manipolata dalla limitazione – o mancanza – di produzione e diffusione di informazione: aver delegato alla tecnica e alla sfera privata l’arbitrarietà di quali contenuti possono essere veicolati, come sono veicolati e quale visibilità attribuirgli forse è la cosa più preoccupante. Oggi chi decide cosa è rilevante per il pubblico, o tollerabile o ammissibile o non gradito, sono algoritmi basati su un’etica stabilita da chissà chi, attraverso parametri arbitrari, che allertano controllori impiegati in aziende private, che seguono linee guida da far impallidire i metodi della banalità del male. Se la regolamentazione del pensiero è lo standard socialmente accettato a cosa serve produrre arte? A chi è rivolta? Quale è oggi la differenza fra esercizio e utilità?

Filippo Minelli, What things are not, 2016. Courtesy National center for Contemporary Arts, San Pietroburgo, Russia
Filippo Minelli, What things are not, 2016. Courtesy National center for Contemporary Arts, San Pietroburgo, Russia
Filippo Minelli, Gita Aziendale, 2017. Padania Classics
Filippo Minelli, Democracy, 2008 – Mauritania. Courtesy UNA, Piacenza
Filippo Minelli, Shape US B/S-B, 2014 – Florida. Silence/Shapes, courtesy Huxley Parlour, Londra, UK

New Photography è una nuova rubrica di approfondimenti dedicata alla fotografia contemporanea: una serie di interviste di Mauro Zanchi e Sara Benaglia realizzate nel contesto di ricerca riferito allaMetafotografia e alla New Photography, iniziata nel 2018 – approfondita con una mostra presso BACO_BaseArteContemporaneaOdierna (Baco Arte Contemporanea) e una pubblicazione edita da Skinnerboox nell’ottobre 2019 – e tuttora in divenire con ulteriori approfondimenti nelle pagine online di questo sito.
New Photography è un progetto che in una prima fase coinvolge l’avanguardia fotografica contemporanea italiana e in seguito la Nuova Fotografia internazionale. Si pone il quesito di quale sia la natura dell’immagine alla luce di un cambio di paradigma visuale combinato con i cambiamenti sociali e tecnologici che lo hanno accompagnato. Gli algoritmi di correzione dell’immagine, il deep web, l’apertura al non visuale, la codificazione con stringhe di numeri, l’archivio, le corruzioni e gli sviluppi dell’inconscio tecnologico, l’utilizzo delle telecamere di sorveglianza e dello scanner invece di un obiettivo sono solo alcuni dei metodi e delle modalità di ricerca adottati dagli artisti coinvolti.